Dentro un’attesa surreale

di Piero Bevilacqua

 

    Voglio prendere alla lettera il sottotitolo del vostro sito, e cercare di costruire un dialogo, una interlocuzione diretta, con alcuni tra i primi interventi che avete pubblicato su L’antivirus. Partirò dal denso testo di Carmine, che pone sul tappeto con chiarezza una serie di problemi di diversa portata, a partire dalla gestione della pandemia in corso. Al primo posto la questione sanitaria e dunque la necessità di tener conto oggi e in futuro, come lui dice, “della geografia e della storia” del nostro sistema sanitario, che – con la sua articolazione territoriale drammaticamente disuguale – decide della vittoria o della sconfitta della medicina sulla malattia. In discussione sono anche le decisioni governative per contenere la dinamica di espansione del virus, che hanno portato a una assolutizzazione del blocco totale della mobilità sociale. Oggi questa chiusura appare cieca, puramente difensiva e dettata dal panico. E, come lamenta Carmine, “manca, o almeno non viene dichiarata, una programmazione dei tempi e dei modi della fuoriuscita dalla crisi, giacché essa viene subordinata all’effettivo realizzarsi della previsione dell’algoritmo sanitario prescelto”. Non si vede una prospettiva possibile, neppure in via ipotetica, e l’intero Paese appare bloccato in una attesa surreale.

    Dalla proiezione spasmodica e dalla retorica pubblicitaria sul futuro luminoso che aspetta solo noi, si è precipitati nelle nebbie di una indistinta vita sospesa. Senza dire che qui cade opportuna la riflessione di Bruno: Non è facile vedere chi non ce l’abbia fatta o chi non ce la farà. Gli esclusi di ieri sono gli esclusi di oggi. Dai detenuti nelle carceri ai migranti nei CPR o respinti in Libia, dai senzatetto ai lavoratori agricoli in nero, da chi ha problemi psichici a chi non ha alcun sussidio e versa nell’indigenza, dalle bambine e i bambini alle donne e alle soggettività LGBTQI+ che vivono in famiglie violente”. Anche la toccante testimonianza di Ginevra è molto utile per immaginare la sofferenza di tante persone, oggi segregate, per le quali la chiusura in casa non è la semplice rinuncia a una passeggiata, ma qualcosa di assai più doloroso.

    Ma il centro della riflessione di Carmine, che certo non sottovaluta la portata drammatica del fenomeno in corso, è più vasto e riguarda il prima e il dopo della pandemia. Lo scrive con nettezza: “Certo, la pandemia sta investendo il mondo intero. Ma possiamo fermarci qui? Possiamo non chiederci quali siano i caratteri specifici della crisi italiana, se davvero vogliamo capire come ci siamo caduti dentro e come ne potremo uscire?”

    Ecco, io vorrei interloquire brevemente su questa convincente impostazione dei problemi, che necessitano di visione politica ampia. Accenno brevemente alla questione sanitaria. Oggi ne sappiamo abbastanza per dire che il coronavirus si è diffuso in dimensioni epidemiche nel nostro Paese grazie agli errori dell’Oms, delle nostre autorità sanitarie, dei dirigenti della regione Lombardia, del suo goffo presidente (presidente, Carmine, non governatore, il nostro non è uno stato federale, i governatori sono negli Usa) e di tanti amministratori locali. Questi errori hanno trasformato gli ospedali, da centri di cura in focolai di infezione, condannando medici e infermieri a fatiche estenuanti e spesso alla malattia e alla morte. L’incapacità della medicina regionale di uscire fuori dall’istituzione ospedaliera e di presidiare il territorio con strutture snelle e con capacità mobilitativa, in grado di portare la cura nelle case, ha fatto il resto. Ma questo modello di sanità, come sappiamo, che ha rafforzato le cliniche private e de-finanziato e destrutturato gli ospedali, è figlio di una ratio economica storicamente determinata, esito della cultura neoliberistica, che vuole plasmare ogni aspetto della realtà in impresa produttrice di profitti. Questa radicalità nel cogliere le ragioni profonde delle scelte è indispensabile, se si vuole dare all’azione politica la necessaria forza di trasformazione dello status quo. Per il punto in cui è giunto il declino italiano i pannicelli caldi di un blando riformismo non servono più.

    Non vorrei farla lunga, ma vorrei dire qualche cosa sui medici e anche sugli scienziati che ho avuto modo di sentire in TV. Io non sono uno scienziato, ma non sono neppure un cacciatore di farfalle, sono uno storico dell’ambiente che ha sempre bazzicato le scienze naturali. Ebbene, sentire una studiosa di rango come Ilaria Capua che cerca di spiegare l’elevata mortalità della Lombardia con l’argomento che la regione è animata da una “società vivace” (testuale) fa più che sorridere. Come se invece, poniamo, la Baviera, fosse una società spenta e sonnolenta, e fosse questo il motivo per cui lì il virus fa meno morti. Ma anche le risposte degli altri scienziati e medici non solo sono state evasive, ma hanno mostrato una arretratezza scientifica che francamente fa impressione anche a un non addetto ai lavori. Ma come si fa a non ipotizzare neppure per un attimo, per una malattia che prende ai polmoni, una qualche correlazione col clima di quella regione, con lo smog che grava sulla Pianura padana da decenni, con le polveri sottili in aumento di anno in anno, che si depositano nei polmoni e probabilmente sono più letali dei grandi inquinanti chimici? Come può oggi la medicina ignorare l’ambiente? Forse che gli uomini non si ammalano anche per le condizioni dell’habitat in cui vivono?

    Lo specialismo esasperato dei medici, che non hanno neppure un sospetto del legame tra l’organismo umano e l’ambiente in cui vive, fa oggi francamente impressione; è un segno grave di ritardo culturale, che rimanda ancora una volta a una ratio economica; ed è anche il segno di un distacco del sapere medico dalla società, della sua cattura nell’industria capitalistica delle salute, che vuole affrontare la malattia non con la prevenzione primaria (la salubrità degli habitat) ma con i farmaci e la chirurgia.

    Anche i calcoli che fa Paolo nel suo testo mi sembrano convincenti: e la sua non è affatto una cinica esercitazione statistica. Effettivamente, il carattere di eccezionalità dell’epidemia sarebbe stato ridimensionato se si fossero fatte le proiezioni elementari che Paolo propone. Il fatto è che i sanitari hanno, in questo caso a ragione, temuto il tracollo delle strutture sanitarie di fronte alla crescita esponenziale dei casi. E con l’attuale situazione dei nostri ospedali essi si sarebbero davvero trovati davanti alla necessità di non curare e lasciare morire un notevole numero di pazienti.

    Infine, anche io, come Carmine, lamento la mancanza di qualche indicazione di prospettiva da parte del governo per il dopo. Un minimo di riflessione sulle possibilità di aperture scaglionate nel tempo accompagnate dalle necessarie misure di tutela. E bisogna muoversi rapidamente, perché l’immobilismo potrebbe creare emergenze anch’esse imprevedibili, come il coronavirus.

    Ma il grande problema è la crisi italiana. Uso con cognizione di causa il termine crisi, che normalmente evito di usare, per la nota usura che ne ha svuotato il significato. L’Italia è dentro un grave processo di declino di cui non si vede la fine. E Carmine fa bene a ricorrere a Gramsci per tentare di illuminare gli elementi di fondo della nostra condizione storica. Si tratta di una grande questione in cui entrano e convergono problemi di scala globale e specificità nazionali, trasformazioni strutturali recenti ed eredità storiche. Non c’è dubbio che la trasformazione della società e dello stato in senso neoliberistico hanno alterato gravemente la qualità stessa della politica così come l’abbiamo conosciuta sinora. I partiti, che per buona parte del Novecento erano stati i suoi principali agenti, collettori della “volontà collettiva”, come li definiva Gramsci, si sono trasformati in agenzie di marketing elettorale. Un ceto politico scadente, che ha svilito il meccanismo della rappresentanza, ha permesso che il lavoro venisse mortificato, che gli operai, orgoglio della trasformazione industriale dell’Italia del dopoguerra, fossero emarginati, precarizzati, costretti spesso a orari ottocenteschi di lavoro. E come è noto, quasi tutto il lavoro delle nuove generazioni è stato ridotto in briciole, messo in affitto, umiliato. Due generazioni di giovani, le migliori intelligenze del Paese, sono state costrette a emigrare, per sfuggire a un destino di disoccupazione e di precarietà. Come può l’Italia avere un futuro continuando su questa china? Riducendo la scuola ad azienda con il sistema della scuola-lavoro? Con la flat tax, con i bassi salari e la precarietà del lavoro per attrarre gli investimenti delle multinazionali?

    È evidente che esiste un gravissimo, drammatico, centrale problema di giustizia sociale che oggi condiziona il meccanismo economico e non solo la qualità del welfare. Il nodo di fondo è dato dalla diseguale distribuzione della ricchezza. Occorre redistribuirla urgentemente, con una tassa patrimoniale sulle grandi fortune e concentrazioni immobiliari e finanziarie, salvaguardando i risparmi medio-bassi, e rendere stabile tale redistribuzione con un sistema fiscale progressivo. Abbiamo avuto e continuiamo ad avere un ceto politico colluso con gli interessi economici, finanziari, immobiliari che dominano la scena pubblica e che dovremmo piegare con la volontà popolare. Così come occorre rivedere le voci del bilancio dello stato. Un Paese dove si fanno mancare le risorse per la ricerca, la sanità, la scuola, l’occupazione dei giovani, non si può permettere di spendere miliardi di euro per armamenti, per l’acquisto o la fabbricazione di portaerei, cacciabombardieri, elicotteri da combattimento. Accettare una tale assurdità, l’investimento di miliardi di euro al fine di produrre morte e distruzione in qualche regione del mondo, in nome della Realpolitik, è un tradimento della politica democratica e condanna l’Italia a un declino dagli esiti imprevedibili. E purtroppo tale realismo servile e corrivo è lo stile più diffuso in tanti opinionisti che orientano, dai giornali o dalla TV, l’opinione pubblica nazionale. E infine, ma è la svolta strategica su cui tutto deve ruotare, la preminenza del potere pubblico deve valere su tutto. Lo stato deve essere messo in condizione di investire, di avere una propria strategia di politica economica, abbondonando la superstizione neoliberista che sia il mercato a provvedere. E tale potestà deve valere ovviamente anche per i poteri sovranazionali dell’Unione Europea. Solo svincolando la politica dal dominio dell’economia potremo avviare un suo possibile riscatto, recuperare la sua perduta capacità di governo delle società umane.

 

 

Piero Bevilacqua è storico e saggista; ha 76 anni e vive a Roma

La piega del gomito

Bilancio di un gomito sconsolato

Di Niccolò Fettarappa Sandri

 

    Dice bene il nostro Presidente Conte, stando a casa in quarantena si scoprono molte cose. La quarantena è un momento indubbiamente difficile per tutti, ma è anche un momento di raccoglimento, un momento sorgivo di nuove e arricchenti conoscenze. Una su tutte: la piega del gomito. 

    La piega del gomito è una parte del corpo che non conoscevo prima di questa quarantena. In realtà, devo confessare che il gomito stesso è una parte del corpo che ho sempre colpevolmente trascurato, considerandola solo la congiuntura nodulare di due segmenti di braccia. Ma mi sbagliavo, lo devo ammettere. E per questo devo ringraziare la scienza. Certo, la scienza non è ancora in grado di dirci come affrontare l’emergenza del virus, ma fin dal primo giorno la scienza era molto in grado, più che in grado, di spiegare a tutto un popolo smarrito che cosa esattamente è un gomito. Di più, la scienza è stata capace di illuminare quel recesso abissale che ogni gomito nasconde, la piega. Non c’è bisogno di vergognarsi – per quanto possa suonare bizzarro, tutti quanti abbiamo una piega del gomito. C’è chi l’ha scoperto prima, c’è chi l’ha scoperto più tardi e chi ancora deve scoprirlo, ma la quarantena ci mette nudi, faccia a faccia, con questa verità: la piega c’è. E così abbiamo scoperto di abitare corpi complessi, fatti di parti sconosciute. 

    E così io stesso ho avuto modo di scoprire che il gomito non è solo una banale articolazione, no, ma nasconde in sé qualcosa di più magico e misterioso. 

 

    A farmi scoprire questa seducente parte del corpo è stato il capo della Protezione Civile Borrelli. Bisogna infatti ricordare che la Protezione Civile si è assicurata fin da subito che i cittadini sapessero tutti starnutire correttamente e si è prodigata ad illustrare con chiarezza le modalità del nuovo emergenziale starnuto. Per questo si deve solo applaudire l’apprensione democratica del governo, che è stato al passo con tutti. 

    Borrelli nel corso dei suoi bollettini ha dato dimostrazione di saper padroneggiare con somma maestria la sua piega del gomito. Ho passato diversi pomeriggi a guardare Borrelli e a meditare con invidia sul suo gomito, finché ho scoperto anche io di avere un gomito e che il mio gomito nascondeva una piega per nulla dissimile o inferiore a quella esemplare del capo della Protezione Civile.

    Ora, non bisogna abusare dei propri gomiti. La Protezione Civile ha fatto sapere che si può e si deve utilizzarli unicamente per riporre in essi il muco espulso. Ma io ho osato. Dopo diversi pomeriggi passati ad osservarmi cogitabondo il gomito, mi sono deciso a esplorare questa piega e ho fatto una inaspettata scoperta. 

 

    La piega del gomito non è solo il luogo dove è ministerialmente previsto riporre il proprio muco, no, ho scoperto in essa un luogo dilettevole, un’oasi felice dove cerco riparo e conforto. La piega del gomito è un luogo intimo, dove riporre i propri privatissimi starnuti e pensieri. Chi si ripiega nel proprio gomito assume una posa dolce, protetta e carezzevole. L’uomo nel suo gomito diventa un fatto interiore, meno volgare: nella sua piega l’uomo si ingentilisce, nel suo gomito l’uomo prende una piega sentimentale. 

    Proni e supplicanti, milioni di italiani hanno così riscoperto la vulnerabilità umana, ritornando nei loro gomiti. Io stesso passo tutti i pomeriggi sonnecchiante in questa fetale posa, confortato nella mia ripiegata cuccia. E con me, la mia famiglia trascorre ormai tutto il tempo sul divano, docilmente rattrappita in questa membrosa tenda. I miei familiari sono così assorti nella piega da essersi ridotti a ciambelle, forme cilindrico-gomitali senza più estremità. Questa posa non la si può sempre mantenere con solerzia. Quando la mia ormai invertebrata famiglia si riunisce per i pasti, per esempio, ci permettiamo di far spuntare un quarto di bocca da sotto il braccio piegato per masticare qualcosa. Borrelli ci perdonerà, senza contare che la maggior parte del cibo ricade così nel piatto. Nell’isolamento della quarantena ho smesso di sentire i miei amici, perché sono tutti piegati nell’incavo del gomito e non possono più rispondere al telefono. Quando lo fanno, le videochiamate sono brevi e suscitano in me un certo imbarazzo, trovandomi a parlare con un gomito – sia pure quello di un amico – articolazione del corpo risaputamente poco loquace. 

 

    La piega del gomito è un pensatoio, un refugium peccatorum. Nella piega si può affondare il naso alla scoperta della propria più intima essenza, approfittando di questo tempo che ci è concesso per impegnarsi in un’accorata ricerca di certezze olfattive. La piega del gomito, inoltre, ricopre un imprescindibile ruolo assistenziale, esercita la funzione di surrogato affettivo. So di molti miei conterranei che, durante questa quarantena, trovano nel proprio gomito tutto ciò che manca loro a casa: calore, comprensione, una pasta asciutta.

    Questo luogo accontenta tutti, in esso la rocciosa protezione del gomito si sposa con la sinuosità femminea della piega: la prosa del gomito incanta, la poesia della piega innamora. Gli uomini trovano nella piega uno spogliatoio per franche e virili amicizie, alla piega l’italiano si sente di fare le sue confidenze più maschie. Le donne hanno invece scoperto un luogo sconosciuto da poter adornare e personalizzare. Per venire incontro ai gusti di tutti, sono in commercio gomiti di diverse fantasie. 

 

    Per contenere l’emergenza servono i gomiti di tutti. Il gomito è stato riconosciuto come bene primario. Certo, non sono mancate le proteste, viste le molte segnalazioni di penuria di pieghe nelle regioni più colpite dal virus. Nel frattempo, è arrivato dalla Cina il primo contingente di 10 milioni di gomiti, già stoccato nei magazzini della protezione civile. Le più alte cariche dello Stato hanno fatto appello alla solidarietà dei cittadini più snodabili del paese, affinché ospitino i meno fortunati nelle altre pieghe di cui il nostro corpo è fornito, quelle del ginocchio per esempio. In totale, un cittadino atletico può generosamente ospitare nelle sue pieghe almeno altri tre cittadini, tutti incassati uno nell’altro. E anche questa è l’Italia: generosità.

    Questo non è il momento delle polemiche, è il momento della responsabilità. “Restate nei vostri gomiti”, intimano le istituzioni. A commuovere il paese è stato il presidente Mattarella, che ha parlato alla nazione mostrandosi tutto gobbo e torto nella sua piega, cosa che ha reso più complessa la comprensione del messaggio istituzionale. Se i concittadini del Presidente si sono comunque commossi nell’ascoltare i borbottii presidenziali provenienti dalla piega, le istituzioni europee si sono lasciate meno coinvolgere. “Parli più forte e ripeta almeno due volte le frasi”, ha commentato la von der Leyen, a cui pare che Mattarella si stesse rivolgendo con toni di rimprovero. 

    I toni con l’Europa sono sempre più accesi e, mentre alcuni cercano ancora di ribadire un senso di collaborazione tra i paesi membri (“Lavoriamo gomito a gomito!”), altri, come il presidente Conte, sono più tranchant: “O l’Europa ci sarà vicina o la storia prenderà tutta un’altra piega”. 

 

    Secondo alcuni esperti, piagata dal virus, l’umanità superstite potrà sopravvivere piegata nei propri gomiti. Ed ecco quindi l’immagine sconsolata di una nazione introversa e convessa nei propri gomiti, di gente ormai addomesticata a “viversi dentro”. 

    Ormai ho capito che il gomito è il nostro ultimo presidio sanitario, che l’ultima trincea che ci resta è l’avambraccio. Isolato nel mio cubicolo, osservo dal mio angolo infelice questa umanità curvilinea, infilata nella tasca del proprio gomito. Abbiamo fatto molte scoperte, ha ragione Conte.

    La scoperta di essere flessibili, reclinabili e piegabili in un formato minore di noi stessi. Ma questa vita raggomitolata non ci piace né soddisfa. Ora che abbiamo perso la statura vettoriale di prima, ora che viviamo tutti interni in questa incassatura domestica, aspettiamo solo che qualcuno ci dispieghi plica ex plica come una fisarmonica. Questo solo oggi possiamo dire: siamo incassati, siamo molto incassati.

 

 

Niccolò Fettarappa Sandri è studente di filosofia; ha 24 anni e vive a Bologna

2 pensieri riguardo “Dentro un’attesa surreale

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