Giù, sulla via maestra della città
di Lorenzo Moscardini
Secondo la tradizione[1] il Buddha, in giovinezza, crebbe nelle stanze del palazzo paterno, avvezzo a ogni piacere. Un giorno, però, spinto dal desiderio di conoscere il mondo, chiese a suo padre di scendere in città. Il re, temendo che ne fosse turbato, diede ordine di sgomberare la via maestra, di scacciare storpi e accattoni perché il figlio non li vedesse. Ma gli dei, per spronare il principe, gli misero sotto gli occhi tre uomini: un vecchio, un malato e, infine, un morto. Solo dopo aver ricordato la sofferenza e la caducità che sono alla radice del mondo, il figlio del re decise, una notte, di fuggire dal padre e dal suo splendido e fasullo palazzo. Cominciava, così, il suo cammino.
Mi sembra inutile dire che questo intervento sarà personale, parziale eccetera eccetera. Rincariamo la dose: queste poche righe non hanno alcuna ambizione didattica e faranno ampio uso — orrore! — della generalizzazione. L’obiettivo è, a partire dall’osservazione della nuova quotidianità che ci riguarda ormai da settimane, mostrare qualche criticità insita nella nostra visione dell’uomo.
La domanda da cui partire: perché, nel giro di pochi giorni, abbiamo rivoluzionato le nostre abitudini? Decreti e indicazioni vengono dalla classe dirigente, certo, ma non mi pare che la popolazione abbia, ad oggi, manifestato con vigore il proprio dissenso; ne deduco che le misure adottate siano, se non condivise in toto, almeno date per buone, nella sostanza, da gran parte degli italiani. Un’ulteriore prova del nove la restituiscono i social network, dove personaggi noti (e non solo loro) rilanciano senza posa slogan e appelli che vanno in questa direzione.
Perché, dunque? Direi che una delle motivazioni più evidenti non possa che essere la paura della sofferenza, alimentata fino all’ipertrofia dagli esperti; i loro sguardi severi, com’è noto, raggiungono gli appartamenti grazie alla televisione (il contraltare è invece l’attuale Presidente del Consiglio, che con voce paterna rassicura il popolo; vorrebbe così riscattarlo, immagino, dall’oscuro dominio della tecnica). Mascherine, guanti, disinfettanti, a che scopo, se non ad allontanare lo spettro della morte da noi e da chi amiamo? La pandemia ci ha ricordato, nel modo più brusco e doloroso possibile, che al mondo si muore; e che la morte, spesso, non ci avvisa in anticipo, prima di bussare alla porta. Non esiste meritocrazia: anche la morte del giusto, anche quella del giovane, rientrano — inspiegabilmente, ai nostri occhi — nell’imperscrutabile ordine della natura (risparmio gli infiniti esempi biblici e letterari).
Mi sembra che sia facile scorgere questo timore, manifesto o sotterraneo che sia, un po’ dappertutto. Quando esco in strada per comprare il giornale, parlano i volti coperti da mascherine di ogni foggia (chi è più ricco ne ha di più sofisticate), gli occhi a metà tra l’imbarazzo e l’apprensione di chi, avvistandomi mentre gli vengo incontro sul marciapiede, allunga il tragitto per non passarmi troppo vicino, forse pensando: «Non si sa mai» (e chi, tra noi, non l’ha pensato in questi giorni?).
Nessuna svolta, in una società, è ovvia: viviamo solo una delle infinte possibilità di coordinare le nostre esistenze, e anche questa è in perpetuo movimento. La realtà è quella che ci appare fuori dalla finestra, ma essa dà corpo a una sola delle direzioni che potevamo scegliere; e non è detto che il cammino non ci riproponga ramificazioni che credevamo ormai alle spalle, come nel più enigmatico dei labirinti. Per questo, mi sono chiesto a lungo se chiudersi in casa ad aspettare che la tempesta passi sia il modo migliore per gestire l’emergenza sanitaria. Personalmente, non sono affatto convinto che le misure adottate in queste settimane, sfumate e contraddittorie, lo siano. Detto ciò, non sono certo io a dover formulare una controproposta. Vorrei, invece, dire qualcosa sullo spirito con il quale abbiamo deciso di relazionarci alla pandemia: si tratta di un approccio inedito, a quanto ne so, nella storia della specie umana.
Sacrificando un po’ di sistematicità per guadagnare efficacia, potremmo contrapporre due diversi sistemi di pensiero (nulla vieta che all’interno se ne possano individuare molti altri). Da un lato, la nostra visione della vita umana, o almeno quella che vedo dominante nell’Italia dell’anno 2020: il rispetto dell’esistenza del singolo come valore supremo (e azzarderei, non più in termini religiosi; o comunque sempre meno), il considerare ogni individuo come indispensabile al tutto, irripetibile; per chi si muove in questa direzione, tutelare la vita biologica [cfr. Paolo Zani, Sulla corona (del soldato)] è il più alto dei servigi che si possa offrire alla collettività; il contrario, la più grave delle mancanze. Dall’altro — penso soprattutto a come furono percepite le epidemie in passato, al netto di qualche caso particolare — abbiamo una visione della vita umana che potrebbe sembrarci crudele, arcaica, rassegnata; nel migliore dei casi, magari, pragmaticamente consapevole della ciclicità della vita e della finitezza dell’individuo rispetto alla specie. A questa seconda visione si potrebbe rimproverare il cinismo, la mancanza di solidarietà umana, e imputarla a una povertà di mezzi, a un’arretratezza scientifica e filosofica. Ma se siamo così severi con i nostri padri, dovremmo esserlo anche con noi stessi: e potremmo allora ammettere da parte nostra una maggiore paura della sofferenza, una rimozione, in alcuni casi persino puerile, della morte.
Chi si siede a osservare, non ha il diritto di assegnare voti. Tuttavia, credo che sia bene proporre una chiave interpretativa riguardo ai motivi che ci hanno portato, in un segmento molto corto della storia umana, ad arroccarci, magari a ragione, sulle nostre attuali posizioni; e muovere delle critiche, pure nella consapevolezza che moltissime altre se ne potrebbero indirizzare a chi ha gestito (o non gestito) le epidemie in passato.
La mia opinione è che il nostro approccio mentale all’emergenza virale sia soltanto una delle diverse manifestazioni (tra l’altro, forse, una tra le più positive!) di un progressivo iato, sempre più abissale, che ci separa dalla natura. Scrive Leopardi nello Zibaldone[2]: «tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora un esempio nelle passate età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri». Sono passati molto più di cent’anni da queste righe. Non so se siamo davvero arrivati a uno snaturamento senza limiti: certamente si sono fatti decisivi passi avanti.
Sarei tentato di leggere le manifestazioni che in questi anni si sono organizzate intorno al tema della salvaguardia ambientale come un desiderio, forse un po’ disordinato, di invertire la rotta. Non è necessario discutere in cosa consista questo snaturamento: chi ha potuto confrontare ritmi e abitudini campagnole con quelle di una qualunque città occidentale sa bene a cosa mi riferisco (anche se questa mutazione non è solo questione di spazi; ma questo richiederebbe un discorso più ampio, che qui non posso nemmeno accennare). Si potrebbero, certo, mettere in fila vari argomenti in difesa di questo tipo di progresso. Tuttavia, per il filo che stiamo seguendo, credo sia più utile ragionare su una delle maggiori criticità che da esso derivano, e che sintetizzerei con queste parole: il superamento, grazie alle innovazioni della tecnica, di alcuni limiti naturali ai quali i nostri avi dovevano sottostare, ci ha dato il miraggio che sia possibile eluderli tutti. E così pure il limite ineluttabile della morte può apparirci, talvolta, ingiusto, quasi irricevibile.
La pandemia ci ha ricordato, ancora, che oltre alla sofferenza mentale (della quale siamo tutti, ormai, più o meno partecipi) esiste anche il dolore fisico. – Ma — mi si potrebbe obiettare — anche prima avevamo la morte e la malattia sotto gli occhi, ogni giorno. Guarda i morti per tumore, guarda i mendicanti che si accampano nelle piazze delle nostre città –. Sarebbe, credo, una voce alla quale dare ascolto. Ma il fatto è che noi siamo portati a classificare queste situazioni sotto l’etichetta dell’eccezione. La morte, il dolore fisico, la fame: anomalie alla regola o a quella che dovrebbe essere la regola, e cioè la vita, la salute e la prosperità. Se da una parte questo modo di ragionare testimonia un atteggiamento socialmente meritorio — la nostra civiltà che, a parole, vuole creare un mondo nel quale il dolore sia marginale — dall’altro, mi sembra che poggi su una premessa ontologica errata.
Nell’universo, la vita è la vera eccezione. Abitiamo un pianetino che galleggia in un universo di morte, dove il freddo e il buio sono l’unica regola; e il calore delle stelle non riscalda, incenerisce. Eppure, e qui sta il punto, ciò non sminuisce la vita, ma anzi l’esalta: la terra è una bellissima eccezione, una fiammella tanto più preziosa quanto più l’universo la contraddice. Senza continuare su binari cosmici, spero di aver dato l’idea di un’altra posizione possibile. Accettare la presenza costante della morte (e questo, spero sia chiaro, a prescindere dall’emergenza odierna) non significa soltanto aderire intellettualmente a una corrente filosofica: vuol dire, soprattutto, vivere in equilibrio. Personalmente, non vorrei morire come il Mazzarò della novella, invidioso che la vita continui mentre lui è destinato a spegnersi.
Sorella morte, davvero, è la grande assente del secolo ventunesimo. È raro che la senta chiamare per nome; non si dice: – è morto –, ma: – è scomparso –. I bambini, in molti casi, non sono ammessi ai funerali, perché ne potrebbero essere turbati; mentre è proprio quel turbamento che indirizza all’età adulta. Che sia proprio per la rimozione della morte che l’Occidente vive, oggi, come in una perenne adolescenza? Non so se in passato la morte rientrasse nell’orizzonte esistenziale degli uomini: mi verrebbe da rispondere di sì, pensando alle danze macabre medievali, o alla religiosità popolare, che meditava su inferno e paradiso molto più di quanto oggi non accada; persino la chiesa cattolica, ormai, sembra dare sempre meno spazio alla prospettiva ultraterrena.
Come ho detto all’inizio, non voglio tirare nessuna conclusione diretta riguardo all’emergenza che stiamo vivendo. Al contrario: queste poche parole vengono da una riflessione personale sulla nuova società (spero temporanea; ma, se in futuro, ci fosse un’altra pandemia?) che abbiamo costruito nelle ultime settimane, e hanno voluto, nelle poche battute a disposizione, vagliare una visione della vita che andrebbe sottoposta a esame anche qualora dalla Cina non fosse arrivato alcun virus. Non credo che la pandemia, di per sé, ci stia insegnando qualcosa, come pure molti sostengono: essa, se ragioniamo in questi termini, non è che uno specchio. Se, come si dice, l’emergenza virale ci riguarderà a lungo, bisognerà imparare a convivere, prima che con il virus, con le nostre prospettive, qualunque esse siano. La pandemia ha rivelato spettri che credevamo lontani; sta a noi accettare che esistono, prenderne le misure e ricominciare, consapevolmente, a vivere.
Lorenzo Moscardini, studente di Lettere, ha 22 anni e vive a Roma
[1] Mi rifaccio, per facilità di consultazione, ad Aśvaghoṣa, Le gesta del Buddha, Adelphi, Milano 2011; la tradizione intorno alla vita del Buddha, com’è noto, è piuttosto articolata e molte sono le varianti.
[2] Leopardi, Zibaldone, pp. 216-217.