“In mezzo a queste quattro mura scolastiche”
di Claudio Donzelli
Nel recente dibattito sulla scuola, sorto nel clima surreale che stiamo tutti vivendo con apprensione in questi giorni di Coronavirus, ho visto con preoccupazione rispuntare – dopo le stagioni della “scuola delle tre i” (2008) di berlusconiana memoria (impresa/informatica/inglese) e della “buona scuola” del governo Renzi, col suo Piano Nazionale Scuola Digitale (2015) – il mito dell’informatica come elemento ormai imprescindibile della didattica contemporanea, declinato ora con la formula dell’educazione a distanza.
Non vorrei essere frainteso: è palese che l’uso degli strumenti digitali, in continua evoluzione, costituisca oggi un’arma potentissima per l’efficacia della comunicazione e del dialogo tra docente e studente. Pur tuttavia si tratta, appunto, di “strumenti”: la didattica “da remoto” non potrà mai sostituire quel magico momento di empatia che viene a crearsi tra il professore e la sua classe durante l’ora di lezione.
Nella mia esperienza, legata all’insegnamento della Storia dell’Arte nella scuola secondaria superiore, ho avuto modo di attraversare un mondo in cui, dalle diapositive proiettate su un muro bianco, dalla macchina da scrivere, dagli appunti scritti a mano e dalle schede cartacee, in breve tempo si è arrivati alla videoscrittura su PC o iPad, ai database, alle immagini digitali, quindi alla condivisione sempre più veloce tramite Internet, all’uso di notebook, cellulari, tablet e videoproiezioni di filmati o conferenze, ecc. Tutto ciò ha certamente ampliato le mie potenzialità di comunicazione, ma non ha certamente mutato il pensiero di fondo che ha guidato il mio approccio alla didattica.
Nell’emergenza di questi mesi, penso che gli insegnanti e gli studenti delle nostre scuole possano testimoniare quanto gli sia venuto a mancare quel rapporto umano che quotidianamente li ha sin qui legati all’interno dell’aula scolastica, nel bene e nel male: a volte, anche con scontri tensioni e incomprensioni, più spesso con fertili discussioni e gratificazioni reciproche, in grado anche di travalicare il mero aspetto scolastico della “didattica per competenze”.
La lezione di scuola non è semplice trasmissione del sapere, ma equivale a una vera e propria rappresentazione teatrale, con un docente/attore che deve sapersi conquistare ogni giorno il favore e l’attenzione del suo pubblico, la classe che ha di fronte. In questo complesso rapporto interattivo si stabilisce un legame che è allo stesso tempo collettivo e individuale, mirato a un gruppo con le sue dinamiche e, contemporaneamente, alle singole persone.
Tutti gli insegnanti sanno bene che, all’inizio dell’anno scolastico, specie nelle classi di nuova formazione, il primo periodo è quello più faticoso, perché dedicato a conoscersi reciprocamente, a prendere le misure, a calibrare ogni tipo d’intervento; si tratta di un vero e proprio corteggiamento da parte del docente che deve accattivarsi la fiducia dei propri allievi, farli “innamorare” della materia insegnata, emozionarli, sorprenderli continuamente: il grado della sua passione viene perfettamente percepito da chi ascolta, e fa la differenza; l’apprendimento avviene per contagio e chi insegna, si fa testimone di ciò che trasmette.
Anche tono e inflessione della voce hanno la loro importanza: attraverso la capacità di affabulazione, bisogna arrivare al cuore di ogni studente e in ciò lo spazio fisico – come insegna la prossemica – è fondamentale per stabilire il contatto, per catturare l’attenzione, per creare il giusto clima. Spesso è necessario alzarsi dalla cattedra e camminare tra i banchi, non certo per rimproverare l’allievo disattento, ma per rispondere a quel bisogno di considerazione richiesto da ogni singolo studente, come dire: mi sono accorto di te, mi sto prendendo cura di te. A questo proposito, una delle maggiori gratificazioni che ho avuto nella carriera d’insegnante è stata quella di arrivare gradualmente, sia pure con fatica, al superamento della paura della vicinanza o del “contatto fisico” con allievi che soffrivano di autismo.
Nella logica dell’inclusione in cui, tra mille difficoltà, si colloca positivamente la Scuola pubblica in Italia, sappiamo che da qualche anno il consiglio di classe provvede a redigere un piano educativo individuale (PEI) per gli allievi che presentino le caratteristiche di bisogni educativi speciali (BES): ora, a parte il fatto che il numero di questi casi tende oggi a crescere notevolmente nelle classi – disabilità, allievi stranieri, dislessia, discalculia, disagio familiare, economico, sociale, ecc. – ritengo che ogni studente abbia bisogno di un’attenzione speciale da parte del docente.
Anche il momento della verifica dell’apprendimento non può limitarsi a un test, un questionario a domande aperte o chiuse, un “vero-falso”, con buona pace della docimologia e dei criteri “oggettivi” di valutazione. Il colloquio orale è un momento fondamentale dell’interazione didattica (anche con la classe), in cui insegnante e allievo si relazionano direttamente: il primo – anche attraverso mille segnali, fatti di lessico, sguardi, gesti, ecc. – deve cogliere le difficoltà di comprensione ed esposizione da parte del suo interlocutore e aiutare a risolvere; allo stesso modo lo studente, in quel momento, valuta le proprie capacità, prende coscienza dei suoi deficit, ma anche dei suoi progressi, acquista progressivamente fiducia in se stesso, mette a punto il suo linguaggio, costruisce le sue sicurezze proprio attraverso il superamento delle difficoltà. Per l’insegnante, è un momento importante di verifica dell’efficacia della propria didattica: solo in questa circostanza egli può determinare quanto e come sia stato recepito il suo insegnamento, sia da parte del singolo studente, che dell’intera classe.
Giustamente, l’insegnamento è stato paragonato al fenomeno del “transfert” che avviene in psicoanalisi, in quanto in grado di suscitare la voglia di conoscenza: chi tra noi non ha il ricordo di uno o più insegnanti che hanno svolto un ruolo fondamentale nel farci scattare dentro l’amore per il sapere? Se la Scuola riesce a suscitare in chi la frequenta il piacere della scoperta, della lettura, della scrittura, della cultura, ecco penso abbia raggiunto finalmente il suo scopo.
Non vedo come tutto questo possa avvenire efficacemente con la fredda intermediazione di un monitor, la voce metallica che attraversa le connessioni più o meno precarie di cui ognuno di noi può disporre, le interrogazioni e, peggio, le verifiche fatte con questionari on-line. Non mi sembra che tutto ciò possa costituire il formidabile modello della Scuola del futuro, una Scuola a distanza, a meno di non prevedere anche la progressiva e triste sostituzione di un tutorial virtuale alla figura dell’insegnante, illudendosi sull’efficienza di questo tipo di trasmissione del sapere.
Certo, occorre investire sempre più nella strumentazione didattica, ma senza perdere l’obiettivo di fondo: stabilire quel legame emotivo tra insegnante e allievo che può avvenire al meglio solo all’interno delle “quattro mura scolastiche” – come diceva lo spassosissimo professor Aristogitone di Alto gradimento1 – vale a dire con un’interazione fisica “tangibile”.
Vorrei concludere questa breve riflessione con le parole di Massimo Recalcati, che mi sento di condividere pienamente, tratte da un suo bellissimo libro (L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2004), la cui lettura raccomando vivamente a docenti e studenti:
“Se tutto sospinge i nostri giovani verso l’assenza di mondo, verso il ritiro autistico, verso la coltivazione di mondi isolati (tecnologici, virtuali, sintomatici) la Scuola è ancora ciò che salvaguarda l’umano, l’incontro, le relazioni, gli scambi, le amicizie, le scoperte intellettuali, l’eros. Un bravo insegnante non è quello che sa fare esistere nuovi mondi? Non è quello che crede che ancora un’ora di lezione possa cambiare la vita?”.
Claudio Donzelli ha insegnato Storia dell’Arte nei Licei; ha 63 anni e vive a Torino.
1 https://www.youtube.com/watch?v=zGJRLowqW0w
Mi sono ritrovata in questa descrizione del “fare scuola”. Essendo anch’io un’insegnante, spero di riprovare, appena sarà possibile, le stesse sensazioni di cui si parla in questo articolo. Dico “riprovare” perché durante lezioni che mi sono veramente riuscite ho sempre sentito tra me e i miei allievi la stessa empatia di cui qui si parla.
Concludo ora questo bel contributo di Claudio Donzelli e rispondo qui con alcune domande, che però sono scaturite anche dalla lettura dell’altro articolo che costituisce l’altra metà della mela di ieri, “Salvini, la ministra, Google e il Papa” di Giuseppe Lanciano. Quindi sarei felice se anch’ egli si sentisse chiamato alla riflessione comune.
Sono uno studente, naturalmente anch’io alle prese con la didattica a distanza, che nel caso universitario ha trovato un terreno su cui attecchire in maniera apparentemente più spontanea e , di nuovo apparentemente, meno contraddittoria.
Ho sentito spesso in questo periodo che il motivo per cui le lezioni online all’università funzionano (consideriamo solo i casi che funzionano, ce ne sono molte che non funzionano), risieda nella maggiore responsabilità degli studenti e nella maggiore elasticità dei docenti nell’utilizzo di strumenti informatici a cui erano in parte già abituati. Sembra quasi una conferma della maturità a cui è giunta la tecnologia in nostro possesso, che presto potrà diventare strumento integrato strutturalmente a supporto della didattica standard. Questa sembra essere un’ opinione condivisa da molti studenti, che hanno risposto positivamente a questa nuova forma.
Ora, qui arriva il primo paradosso, come mai sembra che una piattaforma riesca a sostituire così bene quei momenti, che in questo articolo sono descritti in modo efficace ed appassionato?
La risposta che io do, forse semplicistica e di certo basata unicamente sulla mia esperienza, è che la didattica universitaria ne è del tutto assente nelle sue condizioni normali. Ma proprio del tutto. Non per questo le università sono prive di docenti in gamba, che problematizzano il loro ruolo in relazione agli studenti, così come la scuola, con tutti i suoi problemi, ha al suo interno molte realtà educative “virtuose”. Semplicemente sono casi isolati, che se anche fossero numerosi, non possono raggiungere una massa critica positiva. Il disinteresse per gli aspetti educativi che pure sono parte integrante di un’ istruzione di livello più avanzato e l’ancor più grande disinteresse verso la creazione di una comunità di ricerca che si fondi sulle persone che ne fanno parte, a me è sempre sembrato palese. Quindi Zoom, Meets, Hangouts, Skype, Whatsapp et similia si rivelano strumenti efficaci e addirittura considerati arricchenti da molti studenti, proprio perchè questi non hanno alcun termine di paragone rispetto a ciò che veniva loro offerto prima della quarantena.