Una crisi senza precedenti
Riproduzione sociale e rigenerazione della vita sotto il capitalismo durante la pandemia da Covid19
di Alessandra Mezzadri
Al lavoro!
Mentre la crisi sanitaria del Covid19 si fa più intensa, appare sempre più chiaro che il collasso della produzione globale probabilmente supererà quello di qualsiasi recessione degli ultimi 150 anni – cioè dell’intera storia del capitalismo. L’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) stima che la crisi porterà alla distruzione di 195 milioni posti di lavoro. Quindi, dopo aver analizzato l’epidemiologia della pandemia da Covid19, l’attenzione dei media ora è sempre più focalizzata su come far ripartire il motore dell’economia globale. Stiamo ancora piangendo i nostri morti, ma sembra essere arrivato il momento di discutere di come si possa garantire la sopravvivenza economica che, sotto il capitalismo, è basata su produzione e lavoro. Qui nel Regno Unito, da dove scrivo questo articolo, getting Britain back to work, ovvero ‘rimettere il Regno Unito al lavoro’, sta diventando il nuovo mantra del governo, anche se il suo stesso leader si sta ancora riprendendo dal virus. Discussioni simili stanno avvenendo in tutto il mondo, perché la pandemia è ora chiaramente passata dall’essere una minaccia sanitaria globale all’essere una minaccia economica globale. Eppure, riportare il mondo ‘al lavoro’ non è un compito semplice, se bisogna mantenere il distanziamento sociale. Il capitalismo globale è basato sulle interazioni sociali. Infatti, la sua fase globale ha puntato alla cancellazione del distanziamento sociale, non solo tra i lavoratori, ma anche tra stati, mercati, prodotti e consumatori. Però, al momento, il modo in cui siamo abituati a rigenerare la vita sotto il capitalismo potrebbe letteralmente ucciderci, e questa non è un elemento trascurabile nella spiegazione dell’impasse della crisi generata dal Covid19. Si dovrebbe piuttosto partire da qui per analizzarla. Infine, prima di diventare una crisi di produzione, questa pandemia ha creato una crisi sistemica nell’ambito della riproduzione sociale (che è il modo in cui riproduciamo le nostre vite e le basi del sistema economico, ndr.). Come argomentato da Tithi Bhattacharya, la pandemia ha mostrato la centralità nel funzionamento del capitalismo delle attività che rigenerano la vita. In più, ha anche mostrato il valore della cura, e, allo stesso tempo, le severe disuguaglianze sofferte da comunità e individui diversi. Da tutti i punti di vista, questa è una crisi riproduttiva senza precedenti.
La pandemia come crisi della riproduzione sociale
La teorica femminista Nancy Fraser ha osservato come il capitalismo, nelle sue differenti fasi, sia sempre stato sostenuto da specifici regimi di riproduzione sociale; ovvero da un insieme di relazioni sociali e di istituzioni in grado di rigenerare la vita nel regime capitalista attraverso i suoi vari momenti storici. Ad esempio, in buona parte del mondo occidentale, la fase globale neoliberale ha visto l’ascesa di un sistema mercificato, basato sul mercato, di riproduzione sociale – anche se, come mostra chiaramente la pandemia, le minacce che questo pone alla vita variano significativamente a seconda del sistema sanitario nazionale, con notevoli differenze, per esempio, tra il sistema sanitario privatizzato negli USA e quelli pubblici negli stati europei come l’Italia, la Germania, o la Francia. L’ascesa e l’istituzione del regime riproduttivo neoliberale non solo sono stati strumentali allo sviluppo del modello di produzione neoliberale – ad esempio, con l’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro – ma piuttosto, ne sono stati co-costitutivi. Ne consegue che la crisi presente non è “solo” una crisi di produzione: è una crisi ben più profonda legata alla riproduzione sociale. In ogni caso, questa è una crisi straordinaria, nel senso che per proteggere la vita dobbiamo minare la sua stessa base economica, senza alcuna alternativa ad oggi disponibile. Per questo motivo, i richiami che incitano le persone a ‘tornare al lavoro’ non riescono però a spiegare come ciò dovrebbe accadere. Questa crisi è unica per almeno tre fattori: l’impossibilità di continuare a sfruttare il lavoro, la commistione tra tempo di lavoro retribuito e tempo dedicato alla riproduzione sociale, e la realtà e gestione politica della morte su larga scala.
L’impossibilità di sfruttare
Prima di tutto, la crisi attuale preclude la possibilità di uno sfruttamento capitalista su larga scala. Il noto motto secondo il quale sotto il capitalismo ‘è meglio esser sfruttati che non esserlo’ non ha mai avuto più senso di ora. Dal momento che la maggior parte di questo pianeta assicura la propria sussistenza vendendo la propria forza lavoro, l’impossibilità di continuare a farlo minaccia la vita stessa, anche qualora venga risparmiata dal Covid19. Inoltre, punto cruciale, durante le crisi passate, il capitalismo è riuscito a socializzare le perdite economiche, scaricandole sui lavoratori, sullo stato, o su entrambi. Questo è ciò che è accaduto durante la crisi del 2008, quando le banche occidentali vennero de facto salvate dai governi nazionali, mentre i lavoratori – sia nel Nord che nel Sud del mondo – dovettero portare il peso della crisi economica: i più fortunati pagando tasse più alte a fronte di salari reali più bassi e di servizi pubblici ridotti per i tagli; i meno fortunati perdendo il lavoro e magari anche la casa (acquistata con mutui subprime). Nella crisi attuale, il capitale non può ancora trasformare la propria crisi in una crisi del lavoro. Migliaia di fabbriche sono chiuse e in molti paesi la produzione della maggior parte dei beni e dei servizi non essenziali si è fermata. Sia i datori di lavoro che i lavoratori hanno dovuto simultaneamente lasciare il mercato e tornarsene, letteralmente, a casa. Non è mai accaduto prima, nella storia del capitalismo, che il collasso economico sia stato così imponente, nonostante inizialmente nessuna risorsa, fisica o finanziaria, sia stata distrutta – dato che non c’è stata né una guerra, né un iniziale collasso del mercato, anche se ovviamente i mercati ora stanno reagendo. Questo è ciò che accade quando si rimuove lo sfruttamento da un sistema globale che se ne nutre per sopravvivere. La pandemia ha inconfutabilmente mostrato la centralità del lavoro umano nella produzione di ogni forma di valore. Come spiegato da Silvia Federici, il corpo umano – e la forza lavoro che contiene – è la più grande macchina mai ‘inventata’ dal capitalismo.
Ironicamente, nella sua incapacità di sfruttare e superare la sua attuale crisi riproduttiva, il capitale sta trasformando la riproduzione sociale stessa in una nuova frontiera politica e di mercato, per trovare nuove fonti di profitto e consenso elettorale. Così, nel Regno Unito, la necessaria produzione di ventilatori sembra venir posticipata dai tentativi del governo di scegliere quali produttori debbano ottenere l’appalto. Negli USA, la promozione da parte di Trump dell’idrossiclorochina come cura efficace per il Covid19 – nonostante il debole consenso scientifico – tenta di ammansire rapidamente l’opinione pubblica al fine di riaprire l’economia. Soprattutto, questo gioco economico e politico viene usato contro gli sforzi a favore della vita da parte dei lavoratori e delle lavoratrici impegnati nella riproduzione sociale, e, in particolare, degli assistenti sanitari che, ovunque – dal Regno Unito, agli USA, Italia, Iran, India, e molti altri luoghi – non hanno l’equipaggiamento protettivo di cui hanno bisogno.
Commistione tra tempo di lavoro remunerato e tempo riproduttivo
Il secondo fattore che rende questa crisi unica è la commistione tra il tempo di lavoro remunerato e il tempo dedicato alla riproduzione. In realtà, questa è già una caratteristica del lavoro informale in ampie aree del Sud Globale, dove le case ospitano una vasta varietà di attività economiche destinate a mercati domestici e internazionali. Tuttavia, i modi in cui questa indistinzione tra i due tempi viene accelerata ed intensificata per una grossa percentuale della popolazione mondiale sotto il lockdown del Covid19 non ha precedenti. L’imposizione dei lockdown ha mostrato ancora di più le terribili disuguaglianze del mondo in cui viviamo. Infatti, mentre ci viene ripetuto continuamente di stare a casa, la prima disuguaglianza ad emergere è quella che colpisce chi non ha una casa, o chi non riesce ad arrivarci facilmente. Le immagini drammatiche dei senzatetto americani a Las Vegas separati spazialmente nei parcheggi, o dei milioni di lavoratori migranti in India che tornano a piedi ai propri villaggi – a causa dell’interruzione del trasporto pubblico e degli sgomberi dai quartieri industriali – mostrano come il messaggio ‘state a casa’ difficilmente produca risultati universali. E anche quelli abbastanza fortunati da avere una casa in cui tornare possono esser costretti ad affrontare difficoltà molto diverse. Mentre i media occidentali dedicano molto spazio alle difficoltà delle classi medie nel gestire lavoro retribuito e istruzione a distanza dei figli – io stessa come docente universitaria privilegiata rientro in questa categoria – molti hanno già perso il proprio lavoro. Altri potrebbero essere bloccati in contesti domestici pericolosi – il tasso di violenze domestiche è arrivato alle stelle in tutto il mondo durante la pandemia – o semplicemente in case piccole e poco confortevoli dove la sopravvivenza, più che la combinazione tra lavoro retribuito e lavoro domestico, è la vera sfida. Come si poteva immaginare, le esperienze del lockdown sono fortemente connotate da differenze di classe, genere e razza e testimoniano il fatto che non siamo tutte e tutti “sulla stessa barca”. Infatti, non lo siamo mai stati sotto il capitalismo. La quarantena stessa è possibile solamente perché ineguale e basata sull’esclusione: confinati in casa, ma senza coltivare il nostro cibo né capaci di soddisfare da soli le nostre necessità, possiamo vivere solo grazie a chi lavora nei magazzini, ai postini e ai corrieri, ai contadini e, in generale, ai lavoratori impiegati nella catena agro-alimentare. Molti di questi lavoratori essenziali ricevono a malapena il salario minimo, nonostante siano loro ad assicurare la nostra riproduzione sociale durante i lockdown.
La tragedia e le politiche di morte di massa
Il terzo, e forse il più importante e terribile, indicatore di come questa crisi differisca da qualsiasi altra crisi, è la morte, il suo tasso e le sue politiche di gestione. Questa è la prima crisi della riproduzione sociale che si mostra in questo modo, dato che, letteralmente, se ne muore. È vero, il capitalismo globale ha sempre mostrato indifferenza per la vita della maggioranza dei lavoratori. Gli schiavi neri venivano quotidianamente fatti lavorare fino a morire di sfinimento, mentre i lavoratori industriali vivevano vite brevi e sviluppavano diverse malattie. Eppure, questa è la prima pandemia planetaria vissuta nell’era del capitalismo globalizzato – nonostante le molte similitudini e pur essendo più letale, l’influenza spagnola del 1918 si sviluppò in un mondo decisamente meno interconnesso e meno avanzato da un punto di vista medico –, dove la morte di massa sembra colpire ogni classe. Se l’è preso pure Boris Johnson il virus, no? Ciononostante, gli alti tassi di mortalità non hanno cancellato l’orrore della differenza tra classi nell’accesso alla salute. Ancora più che in tempi “normali”, in questa pandemia la necropolitica del capitalismo stabilisce chi vive e chi muore. Negli USA, ad esempio, le persone di colore hanno molta più probabilità di morire a causa del Covid19. Sono più poveri e si ammalano più facilmente del resto della popolazione degli Stati Uniti, più propensi ad avere il diabete, ipertensione, o problemi al cuore – tutte comorbidità pericolose – e ad essere cacciati dagli ospedali per mancanza di un’assicurazione sanitaria privata. Il dibattito sulle condizioni di salute preesistenti di per sé è stato discriminatorio rispetto ad età e dis/abilità. D’altra parte, il sistema di cura neoliberale interpreta il diritto alla vita in termini di sopravvivenza del più forte e del più “meritevole”. Alti tassi di mortalità tra le persone più anziane sono stati presentati come inevitabili e dovuti a condizioni di salute preesistenti piuttosto che agli effetti del virus. Ma un cittadino anziano investito da una macchina mentre attraversa la strada non muore di vecchiaia, anche se cammina lentamente. Il punto è che la mancanza di ventilatori salvavita e di letti in ospedale ha prodotto in molti paesi delle politiche hobbesiane. Nel Regno Unito, alcuni medici di base sono arrivati a suggerire apertamente di seguire il protocollo DNR (Do not resuscitate, ordine di non rianimazione) per le persone autistiche in età di lavoro o per i bambini malati. Nella lotta per la vita, homo homini lupus. Nel mondo, questa disuguaglianza nell’accesso alla salute coincide con l’esacerbarsi delle disuguaglianze esistenziali. Nel Sud Globale, la ricerca mostra che più che la pandemia in sé, fame e stenti rischiano di uccidere migliaia di persone. Per milioni di lavoratori indiani nell’economia informale, guadagnarsi da vivere durante la pandemia sarà impossibile. Questa pandemia sta anche rafforzando la discriminazione di casta, e alcune famiglie Dalit sono state attaccate fisicamente con l’accusa di non aver seguito le indicazioni del governo relative alla quarantena. In Kenya, la chiusura dei mercati informali può determinare povertà di massa e portare alla distruzione delle scorte di cibo. C’è preoccupazione per la sussistenza nell’economia informale anche in America Latina dove, ironicamente, per ora i servizi essenziali nelle baraccopoli vengono garantiti dai signori della droga o da gang criminali, i quali impongono lockdown locali per diminuire i tassi di mortalità tra i ‘loro’ poveri.
Un nuovo mondo o un nuovo incubo?
Complessivamente, l’impossibilità di continuare a sfruttare, la fine della distinzione tra tempo di lavoro retribuito e tempo riproduttivo, la tragedia e le politiche discriminatorie legate alla gestione della morte di massa, hanno determinato una crisi riproduttiva senza precedenti nella recente storia del capitalismo. Per ora non si vede la fine di questa crisi, non riusciamo ad immaginarci il grand finale. Arundhati Roy ha spiegato che le pandemie ci forzano a immaginare il mondo in un nuovo modo, dal momento che rappresentano un portale tra vecchio e nuovo mondo, che segna l’inizio di una nuova era. Impareremo, cambieremo? Il prossimo regime di riproduzione sociale adottato dal capitalismo sarà più compatibile con il sostentamento della vita anche durante le crisi? Speriamo. Tuttavia, i dibattiti attuali sulle strade da intraprendere per uscire dal lockdown – basate su ‘immunità di gregge’ e sulla creazione di passaporti di immunità – sembrano indicare in modo agghiacciante un futuro basato su una mercificazione ancora più aggressiva dei caratteri riproduttivi di individui e società, che potrebbero innescare nuove diseguaglianze basate sull’ ‘immunocapitale’.
(traduzione di Ginevra Anastasia Caponi e Bruno Montesano)
L’articolo è stato pubblicato in inglese su Developing Economics il 20 Aprile 2020
Alessandra Mezzadri, 45 anni, Londra, professoressa di Economia dello Sviluppo (SOAS)