Una zattera per la fase 2
di Assunta Viteritti
Ilaria Capua, la scienziata virologa italiana che lavora all’Università della Florida e che con il suo lavoro ha contrastato l’epidemia Aviaria del 2003, in una lezione tenuta per gli studenti liceali che si preparano per la maturità sulla piattaforma “Maestri d’Italia”[1], ha parlato del confinamento (lockdown) come di una “zattera in cui tutti siamo saliti” ma ancora non sappiamo per arrivare dove.
La zattera è una formidabile metafora per indicare che siamo saliti su un mezzo di riparo e attendiamo di intravedere una terra in cui poter cominciare di nuovo con intanto la paura di naufragare. Non siamo, però, tutti sulla stessa zattera: ogni comunità, ogni regione, ogni nazione si è costruita la propria, più o meno traballante, ognuno la sua. Il virus ci costringe a comportamenti che non tutti possono adottare nello stesso modo e non ha azzerato le differenze; anzi, molti non hanno neanche una zattera su cui traballare. Stare sulla zattera ci costringe a questo strano isolamento vagante che non ci impedisci di riflettere e di parlare.
In questo inaudito esperimento globale non siamo solo in attesa, stiamo valutando cosa fare, siamo impegnati a non abbandonare lo studio, a curare la nostra quotidianità, a scacciare pensieri non utili e nocivi, a allontanare le paure, a prenderci cura dei nostri anziani, a far giocare i bimbi, a parlare con i figli, a parlare con i partner, a cercare il conforto degli amici, a lavorare per non far fermare il paese e le nostre comunità. Il silenzio delle strade non è il silenzio delle case nelle quali si parla, ci si informa, si discute e si cerca una tranquillità per quanto effimera e vulnerabile.
Il silenzio degli umani nelle strade fa spazio a altri versi, forme viventi e odori, che non possiamo sentire ma che accrescono attorno a noi. La natura è viva, e possiamo avvertirla in tutte le sue forme. Il virus è un prodotto del nostro mondo, di una foresta violata, di un mercato di animali vivi in cattività; noi umani che abbiamo aggredito in modo insensato gli ecosistemi ne abbiamo accelerato la corsa con una mobilità vorace e inarrestabile, e ora questa necessaria immobilità per quanto sacrificante, disturbante, rischiosa è forse anche uno strano dono.
In queste zattere gli scienziati, i medici, i professionisti, gli operatori, i sindaci, gli amministratori hanno immense responsabilità e spesso ci chiediamo se sono in grado di prendere decisioni adatte, se sono capaci di coordinarsi, se sono in grado di guardare lontano e di non far rischiare il naufragio. Quali azioni non ordinarie sono in grado di portare a compimento? Sentono viva e pienamente la responsabilità che hanno? Le tante commissioni, nazionali e regionali, sono una enorme scommessa, sommano certamente competenze cruciali e rilevanti; ma non è la sola somma delle competenze che porta i risultati: contano le pratiche, quello che faranno insieme, come si parleranno virologi e scienziati politici, come si coordineranno economisti e infettivologi, come saranno orchestrati campi epistemici diversi che poca consuetudine di cooperare hanno in un sistema che ha percorso (e anche contrapposto) percorsi mono-disciplinari. Questo è uno scenario inedito: la politica chiama a raccolta la scienza tutta per cercare soluzioni capaci di gestire le conseguenze della pandemia. La scienza e la politica sono entrate anche loro nella zattera.
Il viaggio di questa zattera inizia da lontano. Negli studi sociali sulla scienza e la tecnologia un primo importante studio che mostra come si relazionano società e scienza è quello di Bruno Latour che racconta il Pasteur. La prima edizione di quel lavoro è del 1984, e viene tradotto in Italia nel 1991[2]. Un lavoro importante che presenta una esplorazione dettagliata di storia sociale della scienza facendo vedere l’ascesa della figura di Pasteur e le corrispondenti trasformazioni dei microbi dall’invisibilità alla loro visibilità e potenza sociale. Latour esplora una spiegazione sociale della scienza e fornisce la base per le sue teorie che portano a una nuova visione in cui scienza e società non sono separate ma sono l’una connessa profondamente con l’altra. Attraverso l’analisi del lavoro di Pasteur Latour ci mostra l’alleanza necessaria tra sfera pubblica e scienza. Nell’esperimento pubblico di Pouilly-le-Fort del 1881 mostra in una arena pubblica, una fattoria, come il suo vaccino può sconfiggere il batterio del carbonchio negli animali. Cosa fa Pasteur? Allea la comunità scientifica (gli igienisti, i batteriologi, i veterinari) e porta la scienza pratica nello spazio pubblico. A quell’evento partecipano coltivatori, giornalisti, decisori pubblici, popolazione comune, animali, microbi, tecniche: tutti erano in gioco. La scienza dei vaccini di Pasteur per essere riconosciuta e legittimata aveva necessità dello spazio pubblico e della costituzione di una rete sociale e materiale capace di stabilizzare una conoscenza che era tecnico-scientifica quanto sociale. Cosa ci racconta quella storia? Pasteur interpreta in modo pubblico l’agire della scienza che per affermare se stessa agisce con la collaborazione della sfera sociale e politica.
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Pasteur (al centro con zucchetto e grembiule) prova il suo vaccino antrace su ovini a Pouilly-Le-Fort, Francia, nel 1881. Inietta loro il carbonchio ematico (malattia) dopo che li aveva precedentemente vaccinati contro di esso.
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Assunta Viteritti è docente di Sociologia dell’Educazione alla Sapienza. Ha 56 anni e vive a Roma.
[2] Latour, Bruno, 1991 I microbi: trattato scientifico-politico, Editori riuniti