L’immaginario collettivo ai tempi del Coronavirus

L’immaginario collettivo ai tempi del Coronavirus

Di Angela Norelli

 

    Ci troviamo ad assistere negli ultimi tempi ad una esasperazione della militarizzazione del linguaggio. Penso al virus come nemico da combattere, ai medici in prima linea, all’echeggiare dell’inno d’Italia, alla pubblicità per l’arruolamento di volontari della Croce Rossa, al riferimento all’ora più buia di Churchill… Insomma, credo che ciascuno possa continuare la lista con gli esempi che preferisce. 

    Durante le prime settimane di lockdown, quando l’Italia era ancora l’unico Paese in Europa ad aver deciso di impedire la mobilità dei cittadini se non per comprovati casi di necessità, circolava in rete un articolo, condiviso con me con le migliori intenzioni, che credo offra un buon esempio dei possibili effetti della militarizzazione del linguaggio.  L’articolo, firmato da Roberto Buffagni, è intitolato “Epidemia Coronavirus, due approcci strategici a confronto” ed è reperibile in rete su diverse piattaforme. Vale come esempio, ma credo che ciascuno possa sottoporre ad un’analisi simile articoli o opinioni espresse su altri canali. 

    Il testo di Buffagni abbonda di termini bellici, lo fa esplicitamente e «squisitamente». A partire da un presupposto più che condivisibile, ossia che la gestione dell’epidemia non appartiene al dominio medico-scientifico quanto a quello etico-politico, si propone di spiegare gli «stili strategici» di gestione del virus nei diversi Paesi. Un’analisi se non altro precoce, in quanto i numeri dei contagi erano molto differenti negli Stati presi in considerazione, ma nonostante questo piuttosto assertoria. Venivano identificate due strategie:

[1] non si contrasta il contagio, si punta tutto sulla cura dei malati (modello tedesco, britannico, parzialmente francese), [2] si contrasta il contagio contenendolo il più possibile con provvedimenti emergenziali di isolamento della popolazione (modello cinese, italiano, sudcoreano).

    Nel presentare un’analisi delle ragioni etico-politiche alla radice di queste strategie, Buffagni ha utilizzato uno schema manicheo che il progressivo livellarsi delle differenze tra i provvedimenti dei Paesi ha inficiato in breve tempo. Per la condotta dei Paesi “buoni” che sceglievano di occuparsi dei malati (tra cui il nostro), Buffagni adduceva motivazioni principalmente etico-religiose (alla base dei provvedimenti cinesi vi sarebbero state le massime del pensatore Sun Tzu, per cui non devono esistere differenze tra superiori e inferiori, oppure il confucianesimo con il suo rispetto per gli anziani; mentre a fondamento del comportamento italiano vedeva un «pacifismo» instauratosi nel secondo dopoguerra, nonché la nostra «sensibilità» cristiana). Al contrario, i “cattivi” stati del modello 1, e qui riporto il testo che su diversi siti è stato addirittura sottolineato:

Gli Stati che adottano il modello 1, dunque, non agiscono come se i loro concorrenti fossero avversari, ma come se fossero nemici, e come se la competizione economica fosse una vera e propria guerra, che si differenzia dalla guerra guerreggiata per il solo fatto che non scendono in campo gli eserciti

    Se il metodo 1 sacrifica vite umane per avere un vantaggio sugli altri Paesi che sono «nemici», il metodo 2 (quello dei Paesi buoni) «esigerebbe, per essere coerentemente effettuato, il dispiegamento di una vera e propria dittatura, per quanto morbida e temporanea, in modo da garantire l’unità del comando e la protezione della comunità dallo scatenamento delle passioni irrazionali, cioè da sé stessa».

    Se non altro Buffagni abbandona il consueto indicativo scientifico e si concede un condizionale, unica magra consolazione, mi pare, per questa frase in merito alla quale mi sento di esprimere dei giudizi:

  • interessante l’appello alla coerenza logica per l’approdo alla dittatura, penso al discorso sull’ideologia fatto da Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo: «L’argomento più persuasivo a tale riguardo, e caro a Hitler come a Stalin, era: non si può dire A senza dire B e C e così via, sino alla fine dell’alfabeto».

  • Già sentita l’attenuante di «temporaneo» accanto al termine dittatura, direi che è una storia vecchia e piuttosto ipocrita. 

  • Curiosa la necessità di una dittatura «morbida». Se deve essere morbida perché la necessità di una dittatura? Che poi… una dittatura morbida? 

  • Agghiacciante l’appello ad una razionalità che noi non riusciamo a vedere ma l’unità del comando sì e che infatti ci deve proteggere da noi stessi.

    Mi sembra che a forza di usare questo linguaggio bellico, questa opposizione «noi-loro/nemico-nemico» è inevitabile che cominci ad insinuarsi nell’immaginario collettivo l’idea di uno Stato repressivo e autoritario. Una nota positiva per il testo di Buffagni è l’aver reso questo meccanismo tanto limpido ed esplicito. Il modo in cui lo liquida e conclude il pezzo trasmette però una certa angoscia: «right or wrong my country» non è esattamente ciò che volevo leggere dopo l’evocazione dell’immaginario di cui sopra. 

    Credo che in questo momento storico sia importante lasciarsi impressionare non solo dal numero dei contagiati e dei morti di cui ogni giorno veniamo a conoscenza, ma anche dal massiccio e diffuso utilizzo di termini e mezzi che rimandano all’immaginario della dittatura, quindi tutte quelle volte che vengono ulteriormente limitate le nostre libertà personali, che si militarizzano le strade per effettuare controlli, che si usa un linguaggio bellico. Va bene stare a casa, ma non stiamoci troppo rilassati. Se non riusciamo più a impressionarci della militarizzazione dei toni, significa che abbiamo ormai fatto nostro un immaginario pericoloso di cui qualcuno si potrà servire un domani, e non per fare un film. È in occasione dell’emergenza sanitaria che Viktor Orbán ha preso i pieni poteri in Ungheria. Tra i primi provvedimenti (antivirus?) c’è l’abolizione degli studi accademici e universitari sul tema gender e il divieto di modificare il documento di identità in seguito al cambio di sesso.

    Oggi non dubito ovviamente che un’emergenza ci sia. Mi limito a seguire le notizie e a fidarmi di chi ha più competenze di me, e anzi sono grata a tutti coloro che attraverso il proprio lavoro e le proprie competenze si stanno esponendo in prima persona per salvare quante più vite umane possibili. Di certo questa mia riflessione non vuole essere un’esortazione a disobbedire alle misure finora predisposte, né indurre un senso di sfiducia nei confronti delle ragioni che le hanno determinate. Più che altro, la mia è una sollecitazione affinché queste ragioni restino sempre limpide e accessibili, di modo che il “limitarsi a seguire le notizie” possa ancora essere considerata una pratica di cittadinanza attiva e non un mero tentativo di interpretazione statistica attuabile ogni giorno a partire dalle 18.00.

    Se oggi l’emergenza c’è, nulla toglie infatti che un domani possa sopraggiungere un nuovo “nemico invisibile”, che magari solo il mio Paese sarà in grado di vedere, (ma della cui esistenza non dubiterò perché ormai nel mio immaginario noi siamo i buoni con la morale e gli altri i nemici che ci vogliono conquistare), che porterà alla necessità dell’istituzione di un nuovo Stato d’emergenza, il quale a sua volta richiederà l’unità dei cittadini e il sacrificio di alcuni diritti e libertà personali per evitare il male peggiore del sacrificio di vite umane (anche questa divisione assiologica non è banale e meriterebbe di essere tenuta in considerazione per quello che è: opinabile). Se il nemico sarà vero e il pericolo reale, o se questo dovesse costituire solo un pretesto per l’accentramento del potere, nulla cambierebbe sul piano dell’immaginario cui viene fatto riferimento. Sulle conseguenze non immaginarie ma reali, direi che invece qualcosa cambierebbe. 

    In questo senso, non credo che siamo di fronte a una radicale riconfigurazione dell’immaginario dovuta al Coronavirus. La violenza del linguaggio, la terminologia aggressivo-difensiva con cui si fa ad esempio riferimento ai migranti (non “approdano” ma “sbarcano”, per dirne una che passa più spesso inosservata) sono tutti elementi che denotano un andare dell’immaginario collettivo verso quella direzione già da tempo, aiutato sicuramente dai media televisivi e del web. Certamente, si potrebbe obiettare, il Coronavirus ha portato ad una riconfigurazione radicale delle nostre abitudini quotidiane e dunque ha cambiato il nostro immaginario: dobbiamo lavorare da casa, isolarci, uscire il meno possibile, entrare in contatto con altre persone solo virtualmente. Ma siamo sicuri che questa sia una riconfigurazione radicale? Soprattutto per quanto riguarda l’immaginario, non direi. 

    Se pensiamo alla parola “contatto”, è evidente come il termine si sia emancipato da tempo dalla dimensione fisica che sembrava costituirne la connotazione principale. Ciascuno di noi sul cellulare ha una lista di contatti, ci si può scambiare un contatto, si può contattare una persona telematicamente, si può restare in contatto, e senza che tutto ciò abbia nulla a che fare con il senso del tatto, e a prescindere dal Coronavirus.

    Lavorare da casa: per la mia generazione non sembra essere una novità:

Secondo uno studio americano il 47% dei millennial è affetto da workaholism, ovvero dalla coazione al lavoro continuo per eludere il senso di colpa di essere “improduttivo”. La differenza è sostanziale rispetto ai componenti della generazione X (i nati tra il 1965 e il 1980), per cui il dato scende al 33% e dei baby boomers (i nati tra il 1945 e il 1964) dove si ferma al 16% del totale. Secondo la statistica il 42% dei millennial è disposto a lavorare anche durante le ferie.  In Italia non va meglio: uno studio congiunto delle università di Trento e Bologna, su un campione di 311 liberi professionisti e 325 lavoratori dipendenti ha rilevato che la maggior parte presenta i sintomi del workaholism, che da un lato portano a scompensi emotivi come rabbia, pessimismo e depressione con forti ricadute sulle relazioni sociali e sentimentali e dall’altro portano scompensi fisici come mal di testa, deficit dell’attenzione e del sonno.

    A questo proposito sono molti i miei coetanei, me inclusa, che non condividono questo senso di noia, o questa percezione apparentemente condivisa dell’avere molto tempo e nulla da fare. Nonostante la quarantena, restiamo oberati di impegni e scadenze che non riusciamo a soddisfare come vorremmo. Sicuramente ci è stato concesso più tempo, ma non a sufficienza perché sia divenuto possibile concedersi una pausa improduttiva senza sensi di colpa. 

   In merito al sentimento di incertezza nei confronti del futuro dovuto alla crisi economica, anche in questo caso, per chi come me ha cominciato a pensare e fare scelte sul proprio futuro proprio negli anni successivi alla crisi del 2008, non costituisce una novità.

    Per quanto riguarda l’isolamento, il grande protagonista dell’immaginario legato al Coronavirus, mi sembra che già da tempo facesse parte della tavolozza lessicale con la quale eravamo soliti dipingere la società contemporanea. 

    Non mi si fraintenda, non sto facendo questi paragoni per cercare di sminuire la gravità, l’eccezionalità e la portata epocale di quanto sta accadendo con la diffusione del virus. Questo resta un indubbio e innegabile dato di fatto. Ma poiché sto proponendo un discorso sull’immaginario, ossia sulle grandi narrazioni collettive della nostra contemporaneità, veicolate e rese possibili dai media, è importante vedere se quanto sta accadendo comporterà un radicale mutamento delle modalità con le quali partecipiamo a questo grande racconto o se per lo più esse rimarranno immutate. Il punto di vista scelto è quello che riguarda la maggior parte delle persone in questo momento, che più che vivere direttamente il dramma del virus, ne vengono a conoscenza tramite i media. Se i giornali cartacei fossero stati, come una volta, la fonte principale delle notizie, probabilmente l’immaginario collettivo avrebbe risentito di un mutamento maggiore. Se internet non fosse esistito, il nostro immaginario avrebbe subito un cambiamento forse drastico. Ma che invece, nonostante l’assurdità e impensabilità della nostra attuale condizione, l’immaginario collettivo non stia mutando più di tanto, lo dimostra anche ad esempio un progetto come quello di Gabriele Salvatores, il cui proposito è proprio quello di elaborare una narrazione collettiva di questo momento storico. Invitando chiunque lo desideri a contribuire al suo prossimo film con l’invio di un video girato a casa in questi giorni, Salvatores sicuramente realizzerà un lavoro diverso, nuovo, che racconterà una realtà inedita; ma il film rimarrà irrimediabilmente una copia del suo precedente Italy in a day, realizzato con le stesse modalità collaborative. Anche il progetto di Gabriele Muccino non sembra distanziarsi più di tanto dal modello di Salvatores. Forse questi film racconteranno benissimo l’immaginario collettivo, forse saranno belli ed emozionanti, ma dubito che immagini e modalità narrative ci colpiranno per la loro atipicità.

    Per quanto riguarda il bollettino giornaliero delle vittime, ovviamente la questione è diversa. Le fosse comuni a New York, le salme portate via da Bergamo sui mezzi dell’esercito, costituiscono delle immagini-choc senza precedenti alle quali non eravamo abituati. Eppure, quando ho visto al telegiornale i video delle bare allineate, ho avvertito uno strano senso di familiarità. Ricordo limpidamente il video dell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa pieno delle bare del naufragio del 3 ottobre 2013, data in cui poi è stata istituita la giornata del migrante. Forse, ripensandoci adesso, quelle sono le immagini più potenti che mi abbiano mai raggiunta, ma il video che ho visto io godeva di un’«autenticazione», per usare un bel concetto proposto da Pietro Montani (Laterza, 2010), che le immagini diffuse dai media non avevano. Quel video mi era stato consegnato da Costantino, che ho conosciuto quando avevo 18 anni ed ero a Lampedusa. Mi aveva raccontato di come il 3 ottobre, uscito a pesca con un amico per una battuta ai tonnetti, si era ritrovato ad afferrare e portare in salvo sulla sua barca dodici ragazzi che stavano affogando nel mare di naftalina che li rendeva così terribilmente scivolosi. Il bilancio di quell’evento è stato 368 morti e 155 sopravvissuti, 12 dei quali erano quelli salvati da lui. Il video dell’hangar che Costantino ha voluto darmi non mostrava nulla che le videocamere istituzionali non avessero inquadrato, anzi, probabilmente mostrava meno. Ma quelle immagini costituivano una narrazione differente, entravano nel mio immaginario con un’altra prepotenza. Quella camera mossa con cui piangendo Costantino aveva ripreso le bare mi aveva raggiunta con un altro senso di realtà e resta per me indelebile. 

    Nell’interpretazione di Montani «autenticare» significa ricondurre le immagini alla loro capacità di farsi esperire come testimonianza del fatto reale, contrastando «uno degli effetti tendenziali delle nuove tecnologie della visione», che consiste nel

progettare (alla lettera: di proiettare, di metterci davanti agli occhi) un mondo indifferente. Un mondo che avrebbe ridotto, o addirittura perso, il requisito dell’alterità […]. Un mondo che, sempre più ampiamente e capillarmente assimilabile al suo simulacro riproducibile (sempre più dipendente da un afferramento intuitivo amministrato dalla tecnica), non riuscirebbe più a farsi sentire nella sua differenza e ci renderebbe pertanto indifferenti nei confronti della referenzialità dell’immagine, che tuttavia non verrebbe in alcun modo sospesa. Non sto parlando, sia chiaro, della vulgata postmoderna – ridicola e fuorviante – della sentenza nietzscheana sul “mondo divenuto immagine”. Sto parlando di una pratica del riferimento che potrebbe pretendere di esercitarsi – cioè di dire qualcosa a proposito del mondo – in un regime di in-differenza.

    Quelle del 3 ottobre non sono le uniche immagini di bare di migranti negli hangar degli aeroporti che si sono susseguite nei nostri telegiornali; rimane aperta la questione sul ruolo che esse hanno ricoperto nella delineazione del nostro immaginario collettivo. 

    In effetti, si potrebbe obiettare che per quanto simili, le immagini di quelle bare non costituiscono un buon precedente nella nostra narrazione collettiva, perché i migranti sono percepiti come soggetti lontani, i cui vissuti sono troppo diversi dai nostri. Ciò che sembra essere nuovo nell’immaginario legato al Coronavirus è il fatto che potenzialmente potrebbe colpire ognuno di noi, se non stiamo bene attenti a coprirci quando andiamo a fare la spesa. 

    È un dato di fatto tuttavia che il nostro Paese, da ben prima che il Coronavirus si diffondesse, sia afflitto da una patologia che ogni tre giorni miete una vittima in salute e spesso nel fiore degli anni. Una patologia che (nonostante gli sforzi? Magari!) nel nostro avanzato mondo occidentale ancora uccide. Mi riferisco al patriarcato e ai femminicidi. Vorrei qui ricordare Marianna Manduca, le vicende giudiziarie l’hanno riportata alla nostra attenzione in questi giorni, che è stata uccisa dal marito nell’ottobre del 2007 dopo averlo denunciato per 12 volte: un femminicidio di cui lo Stato, fino alla sentenza di qualche giorno fa, non si assumeva la responsabilità. Per debellare un virus certo prima è necessario dargli un nome, e se non possiamo accettare chi ancora dice che il Coronavirus «è solo un’influenza», mi domando per quale motivo venga trascurato che qualche giorno fa Salvatore Cuzzocrea, il rettore dell’Università di Messina, si sia espresso su un femminicidio parlando di “dramma da convivenza forzata”

    Non tutte le morti sono considerate ugualmente dai nostri media, né dal nostro Governo, e non tutte ci fanno orrore allo stesso modo, ma non sarebbe male se questa pandemia ci facesse diventare più sensibili circa le responsabilità che la politica ha sulle nostre vite, e sulle nostre morti. E per nostre intendo nostre, cioè di noi esseri umani.

    Se i media ci rendessero partecipi non solo del presente, del dato delle 18, ma anche del futuro, del possibile, se ci offrissero degli approfondimenti su ciò che sta dietro alle decisioni che influenzano così tanto le nostre vite, se sollecitassero maggiormente i politici affinché divulgassero queste informazioni, anziché presentarci il decreto quotidiano bello e pronto (questa famosa Fase 2 sembra un fascicolo top-secret) penso che, evitando di alimentare un deleterio terrore (termine anche questo ormai inevitabilmente legato alla dittatura) potrebbero rendere possibile un immaginario diverso. Tutti possiamo fare la nostra parte, ma essendo massivi i media hanno una responsabilità in più. Una democrazia sana ha bisogno di cittadini informati e attenti, non impauriti.  Di mezzi di comunicazione di massa e non armi di distrazione di massa. Ancora una volta il linguaggio bellico è buono solo per la retorica.

 

Angela Norelli è studente di filosofia e montaggio cinematografico; ha 24 anni e vive a Roma.



Un pensiero riguardo “L’immaginario collettivo ai tempi del Coronavirus

  • 13/04/2020 in 1:31 pm
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    Complimenti! Le sue riflessioni sono assai condivisibili e ricche di buon senso. Condivido in toto! Grazie.

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