Il caso Russia

La possibilità di risvolti autoritari di contorno alla pandemia è un dato di fatto ormai assodato. Ce lo dimostra Viktor Orbán, nel silenzio generale della democratica Europa, rotto solo da una timida dichiarazione d’intenti di Ursula Von der Leyen. Oltre i confini dell’Unione, tuttavia, qualcun altro non ha esitato ad approfittare di questa occasione. Un mese fa, Putin ha sfruttato la minaccia della pandemia con invidiabile tempismo per rafforzare il proprio consenso, quando in Russia la diffusione del virus sembrava ancora relativamente lontana. Da poco i contagi hanno iniziato ad aumentare esponenzialmente, e con loro vengono alla luce i punti critici della gestione dell’emergenza da parte del Cremlino.

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Il virus e l’Europa. Intervista ad Angelo Bolaffi

Nell’intervista “Il virus e l’Europa” Angelo Bolaffi ragiona da un lato sulle ragioni per cui l’Europa, almeno ad oggi, si è mostrata disunita nel fronteggiare la crisi coronavirus; e dall’altro, sulle differenze fra il lockdown tedesco e quello italiano, e sui limiti che una politica di lockdown necessariamente presenta.

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Una zattera per la fase 2

Ilaria Capua, la scienziata virologa italiana che lavora all’Università della Florida e che con il suo lavoro ha contrastato l’epidemia Aviaria del 2003, in una lezione tenuta per gli studenti liceali che si preparano per la maturità sulla piattaforma “Maestri d’Italia”[1], ha parlato del confinamento (lockdown) come di una “zattera in cui tutti siamo saliti” ma ancora non sappiamo per arrivare dove.
La zattera è una formidabile metafora per indicare che siamo saliti

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Covid-19, democrazie e disuguaglianza

“La povertà è gerarchica, lo smog è democratico”. Così scrive Ulrich Beck nel suo libro La società del rischio. Verso una seconda modernità (Carocci, 2000). Il dibattito attorno a quella frase è attuale e lo dimostrano le recenti mobilitazioni organizzate da Fridays for Future ed Extinction Rebellion che hanno caratterizzato tutto il 2019 e che attraverso lo slogan “Cmate Justice Now” ponevano il tema del rapporto tra la democrazia e la crisi climatica.

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Il fixing del contagio

La nuova chiusura di Wuhan ci conferma che il virus non si sradica, ma si mitiga, come ci spiegava Tomas Pueyo nel saggio più lucido ed esemplificativo di questa tragica stagione. L’obiettivo, scrive Pueyo, è quello di appiattire la gobba, per rendere gestibile e non più emergenziale la risposta sanitaria. Se questa è la prospettiva, ulteriormente allungata da quanto ci ha detto il Ministro della Sanità Speranza, che ci avverte che per l’arrivo del vaccino dovremo attendere nel migliore dei casi un anno, allora dovremo attrezzarci a convivere socialmente con la pandemia. Tutto dipenderà dal cosiddetto R0, erre con zero, che è l’indicatore che misura la contagiosità di un singolo portatore del contagio, anche se asintomatico. 

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Crisi organica

È opinione assai diffusa che la crisi del coronavirus sia la più grave e traumatica, tra quelle che hanno scosso il nostro paese, almeno dai tempi della Seconda Guerra mondiale. L’affermazione ha – come vedremo – un contenuto di verità incontrovertibile, ma la sua generica enunciazione si presta a pericolosi fraintendimenti. In effetti è questo il rischio che si corre, se ci si affida al giudizio dominante. Si dice: «La crisi è oggettiva; la sua ineluttabilità è sotto gli occhi di tutti; è prodotta dall’invasione di un nemico esterno che adopera armi letali a noi per ora ignote; in attesa di indagarne le ragioni, non ci si può attardare né dividere sulle

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