Covid-19, democrazia e disuguaglianza

di Edoardo Sturniolo

 

         “La povertà è gerarchica, lo smog è democratico”. Così scrive Ulrich Beck nel suo libro La società del rischio. Verso una seconda modernità (Carocci, 2000). Il dibattito attorno a quella frase è attuale e lo dimostrano le recenti mobilitazioni organizzate da Fridays for Future ed Extinction Rebellion che hanno caratterizzato tutto il 2019 e che attraverso lo slogan “Cmate Justice Now” ponevano il tema del rapporto tra la democrazia e la crisi climatica. Per rendere quel dibattito ancora più attuale, sostituiamo nella citazione di Beck la parola “smog” con la parola “virus”. Quella frase però assume un significato particolare che non può spiegarci il complesso e articolato ragionamento di Beck, ma che può essere utile per interrogarsi sul presente.

        La prima parte della frase non credo abbia bisogno di alcuna presentazione: il mondo è fatto di persone ricche e persone povere, e tra loro esiste una relazione gerarchica che attraversa ogni sfera del reale.  È infatti sull’espressione “il coronavirus è democraticoche mi voglio soffermare. Questa proposizione – traslando la teoria di Beck espressa in relazione ai fenomeni ambientali e climatici – afferma che il coronavirus colpisce, in potenza, qualunque persona senza fare alcuna distinzione di tipo socio-economico. C’è da fare però una precisazione: a differenza del fenomeno della deforestazione o di un uragano, per fare degli esempi, il coronavirus una distinzione la fa (né a livello economico né a livello sociale): una persona anziana ha più possibilità di una persona giovane di contrarre il virus e di subirne i suoi effetti mortali, e lo stesso vale per un soggetto immunodepresso o con gravi patologie pregresse. Ma, semplificando, di malati o di persone anziane ce ne sono sia tra i poveri che tra i ricchi. Se poi gettiamo un veloce sguardo a come il coronavirus si è diffuso nel mondo, ci rendiamo conto in breve tempo che il confine o la nazione sono concetti che il virus non concepisce e di conseguenza non rispetta. Oltrepassare nazione e confini, scardinare gerarchie sociali, superare le disuguaglianze economiche, queste sono le caratteristiche del democratico Covid-19. E come non essere d’accordo se guardando il telegiornale ci accorgiamo che Boris Johnson, Paulo Dybala, e altri personaggi importanti della politica, dello sport o dello spettacolo sono stati contagiati.

      Soffermiamoci ora sulla parola democrazia. Beck sembra intendere con democrazia non tanto un’architettura politica e sociale, ma piuttosto una condizione comune definita in potenza. Più che democrazia è forse ciò che un sociologo chiamerebbe uguaglianza delle opportunità, in questo caso negativa. Usando la metafora più comune tra gli esperti del settore è come se tutti partissimo dalla stessa linea in una gara che non è volta al raggiungimento di una meta, ma piuttosto alla fuga disperata dal virus. Una fuga che non ci obbliga solamente a guardarci da chi ci rincorre, ma anche da chi corre con noi, colpevole di essere un possibile untore. L’accezione che sembra trapelare dall’affermazione di Beck non mi soddisfa, motivo per cui provo a ripercorrere alcuni elementi per me rilevanti del concetto. La parola democrazia – di origine greca – indica il potere (kratos) del popolo (demos). Questa dicitura assume nel tempo significati diversi, ma si può tracciare, per tutto il corso dell’antichità, una caratteristica comune che è quella della partecipazione del popolo alla vita comune della città. Quando gli intellettuali tornano a parlare di democrazia, passati dei secoli, la parola assume un significato diverso inglobando il nascente pensiero liberale nella sua definizione. Le diverse manifestazioni con cui il concetto di democrazia si storicizza rendono difficile trovare una definizione esaustiva del termine. Norberto Bobbio propone una definizione che – a mio parere – meglio rappresenta l’idea di democrazia più vicina al nostro tempo. Il filosofo non tenta di descrivere il contenuto, ma preferisce definirne le regole del gioco, il chi e il come, e postula sei universali procedurali: tutti devono avere gli stessi diritti politici; ogni voto deve pesare allo stesso modo; il voto deve essere libero e formatosi autonomamente in un contesto concorrenziale tra partiti; la presenza di più partiti con diverse proposte; la presenza della regola della maggioranza; e la tutela della minoranza. Ho quindi una definizione esaustiva che si sofferma sull’aspetto procedurale del contesto politico, ma queste parole nulla dicono sul contesto sociale e nulla spiegano delle conseguenze di quelle procedure. Se accettassimo che il politico determina il sociale in modo unidirezionale forse potremmo sostenere che quelle condizioni bastano a passare da un assetto istituzionale democratico a una società democratica. La premessa non regge: se non posso risolvere il dibattito acceso legato all’influenza del politico sul sociale e viceversa quanto meno posso negarne l’unidirezionalità. Neanche l’affermazione regge: il farsi storico della democrazia, quanto meno quella occidentale, ci mostra una società in cui le disuguaglianze aumentano e in cui ricchezza e potere si concentrano nelle mani di pochi. Se ciò accade la conseguenza o la causa – senza tornare al dibattito sopra espresso – è che le decisioni politiche vengono prese da pochi. Nelle settimane passate abbiamo assistito alla presa dei pieni poteri da parte di Orban in Ungheria legata alla situazione emergenziale. Questa situazione per quanto contestualizzata rimane indice di una tendenza quanto mai attuale e – con mille sfumature diverse – anche diffusa.

      Avendo chiarito cosa intendo per democrazia nel politico serve provare a ragionare sulla democrazia nel sociale. Riprendo il secondo universale procedurale proposto da Bobbio, e cioè quello secondo il quale ogni voto deve avere lo stesso peso, per ragionare sulla concretizzazione di tale condizione. Il medesimo peso del voto di ogni persona non è solo una formalità dell’uno vale uno, ma è una condizione sostanziale in cui tutti nei processi decisionali valgono allo stesso modo. Il ragionamento proposto si può inoltre allargare riferendolo oltre che al voto a tutto ciò che concerne le decisioni prese all’interno di una comunità. Raggiungere un livello assoluto di simmetria di potere tra tutti può essere utopico, ma il fatto che non sia raggiungibile non implica che non sia avvicinabile. Una medesima condizione che non può essere ridotta a una singola sfera – pena la parzialità della condizione stessa – ma che deve guardare a ogni contesto. Seguendo il ragionamento di Pierre Bourdieu, svolto nel libro Forme di capitale (Armando, 2015), potremmo ridurre queste asimmetrie di potere e risorse a tre diverse forme di capitale: economico, culturale e sociale. Più si riduce la differenza delle tre forme di capitale posseduta da soggetti diversi più si riducono le disuguaglianze, avvicinandosi a una società democratica. In tal caso l’interpretazione più adeguata che si può dare al democratico dell’affermazione di Beck è “non è diseguale”. E questo penso possa valere sia per lo smog che per il coronavirus.

        Infatti sostenere che il coronavirus non sia diseguale implica due tipi di conseguenze: la prima è che in fondo non è poi così vero che un virus colpisca tutti senza fare distinzioni. Mentre il coronavirus si addentrava nelle città italiane le prime forme di precauzione e protezione non erano disponibili. L’importanza di beni come mascherine o gel disinfettanti, e la loro non disponibilità per tutta la popolazione ha permesso che i prezzi si alzassero in modo esorbitante non garantendo la possibilità del loro acquisto da parte di tutte le persone. Ma questo non è tutto, penso ad alcuni lavoratori costretti a continuare il loro lavoro, non per la necessità sociale dello stesso, ma per l’impossibilità di rinunciare al loro stipendio. I fattorini del food-delivery, cosiddetti rider, hanno continuato e continuano a lavorare per le strade deserte delle nostre città portando ogni genere di prima necessità – e non solo – all’interno delle nostre abitazioni. E tutto ciò senza che le aziende per le quali lavorano forniscano loro le protezioni sanitarie necessarie. Questi soggetti sono per la maggior parte categorie socialmente deboli come migranti e studenti-lavoratori. Lo stesso vale per migliaia di operai che sono stati costretti a lavorare nelle prime settimane di diffusione del contagio in nome della paura di una crisi economica causata dall’ipotetico blocco della produzione. Uno dei casi di cui molto si è scritto nelle testate giornalistiche è stato quello dei lavoratori di Amazon che continuano a operare per garantire ogni servizio offerto dalla multinazionale di Bezos. Lavoratori già sfruttati prima che il coronavirus permeasse nelle nostre vite. Queste persone sono sicuramente maggiormente esposte al contagio non solo dei grandi imprenditori che possiedono le aziende sopra citate, ma anche di una grossa classe media che per i più disparati motivi ha avuto il privilegio di poter rimanere a casa e – in alcuni casi – di continuare a percepire uno stipendio o attraverso le diverse forme di tutela contrattuale o attraverso la possibilità di lavorare da casa. Il mondo del lavoro è solo una delle lenti che possiamo usare per individuare queste disuguaglianze. Di soggetti socialmente esclusi ce ne sono molti e tutti hanno più possibilità di essere contagiati: ci sono i clochard abituati a vivere in strada appoggiandosi alle reti di volontariato o assistenza per mangiare e dormire, i carcerati protagonisti nelle scorse settimane di numerose rivolte causate dall’inadeguatezza delle misure sanitarie preventive attuate nei centri di detenzione, gli anziani che vivono nelle case di riposo esposti eccessivamente a un possibile contagio di massa. Le differenze esistono e sono determinate non dalle caratteristiche endogene del virus, ma da quelle intrinseche e strutturali della società. Il sintomo non va ricercato nelle persone che ci circondano, ma nella società in cui viviamo. Naom Chomsky scrive nel suo libro Media e Potere (Bepress, 2014):

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.

         Oggi ci dovremmo sentire immersi in quest’acqua che si scalda consapevoli di non essercene resi conto in tempo e di non avere da soli le forze per uscirne.

         La seconda conseguenza della mia affermazione è che il coronavirus non deve essere elemento che riproduce le disuguaglianze. Penso di poter dire senza troppe remore che nella nostra società così non è. Il virus riproduce le disuguaglianze sia da un punto di vista strettamente sanitario che economico-sociale. Prima sostenevo che anche vari personaggi famosi hanno contratto il virus. La disponibilità dei tamponi per verificare la positività al virus non è stata concessa a tutti, cosa che potevamo aspettarci, ma non è stata concessa inizialmente neanche a tutti gli operatori sanitari entrati in contatto con pazienti positivi, ai loro familiari, e a chiunque convivesse o fosse entrato in contatto con persone positive. Tanto meno è stata garantita la possibilità a chi lavora nelle farmacie e nei supermercati, elementi indispensabili in questo periodo, di verificare la loro negatività nonostante entrino in contatto con moltissime persone e siano sia soggetti a rischio che potenziali rischi per le persone che incontrano. Non c’è stato invece nessun dubbio a fare i tamponi ai vari Paulo Dybala o Boris Johnson, e anche di farli più volte con il passare del tempo per verificare l’andamento della loro terapia. Riconosco un elemento populista in tale discorso, ma non nell’accezione negativa che diamo abitualmente a questo termine. Non vuol essere una contrapposizione sterile e funzionale a qualche astratto potere forte, ma un riconoscere come la disponibilità economica e la rilevanza pubblica abbia inciso sulla garanzia di ricevere adeguate cure mediche. A pagare i costi della crisi è chi ha meno risorse – non solo economiche – a disposizione. Quando parliamo di crisi non parliamo soltanto di crisi sanitaria, ma anche della conseguente crisi economica. Mi sembra opportuno chiedersi chi dopo la fine della pandemia si dovrà sobbarcare i costi economici e sociali. Siamo circondati ovunque da “andrà tutto bene” o da bandiere italiane e ci viene raccontato che dobbiamo tenere duro e rimanere uniti nella speranza di tornare il prima possibile alla normalità. Mi chiedo cosa si intenda per normalità. Ci sono persone che stanno perdendo i propri cari, ci saranno persone che perderanno il lavoro, chi non potrà – e a volte già non può – permettersi di pagare l’affitto, chi non riesce nemmeno a trovare i soldi per fare la spesa. Per salvaguardare la comunità si sacrificano le vite di molte persone, si sacrifica la loro possibilità di vivere una normalità, si parla di un tutto – la comunità – senza spiegare che in quel tutto una parte rimane fuori: ci saranno nuovi esclusi e non saranno pochi. Trovare soluzioni non è semplice, applicarle ancora meno. Ma in questo momento manca la volontà, manca la prospettiva di guardare a una società meno diseguale, e quindi più democratica.

         Tornando alla metafora della corsa mi risulta difficile confermare che tutti siamo partiti dalla stessa linea, e anche fosse stato così non sarebbe bastato. Ci serve ridurre le disuguaglianze generate dalla diversa distribuzione di risorse e capitali – intesi nei termini di Bourdieu – per correre insieme senza scattare in avanti e senza rimanere indietro. Non ci dev’essere concorrenza, ma solidarietà. Lo storpio non viene lasciato indietro in quanto sfortunato e una persona sovrappeso non viene lasciata indietro in quanto responsabile del suo destino. Nessuno corre per sé o per i suoi cari, si cammina come si fa in montagna quando si è in gruppo: al passo del più lento e se qualcuno non ce la fa da solo lo si aiuta. Anche se l’obiettivo rimane la meta, non conta solo arrivarci, ma arrivarci insieme e arrivarci tutti. Solo così saremo abbastanza veloci da riuscire tutti insieme a saltare fuori dalla pentola, senza scordarsi poi di guardare chi ha acceso il fuoco; questo dovrebbe voler dire democrazia.


Edoardo Sturniolo, studente di scienze politiche e sociali all’università degli studi di Torino, ha 22 anni e vive a Torino.





 

 

 

 

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