Il fixing del contagio

di Michele Mezza


    La nuova chiusura di Wuhan ci conferma che il virus non si sradica, ma si mitiga, come ci spiegava Tomas Pueyo nel saggio più lucido ed esemplificativo di questa tragica stagione.

    L’obiettivo, scrive Pueyo, è quello di appiattire la gobba, per rendere gestibile e non più emergenziale la risposta sanitaria. Se questa è la prospettiva, ulteriormente allungata da quanto ci ha detto il Ministro della Sanità Speranza, che ci avverte che per l’arrivo del vaccino dovremo attendere nel migliore dei casi un anno, allora dovremo attrezzarci a convivere socialmente con la pandemia.

    Tutto dipenderà dal cosiddetto R0, erre con zero, che è l’indicatore che misura la contagiosità di un singolo portatore del contagio, anche se asintomatico. 

    Sarà il vero fixing della nostra vita prossima, l’indicatore che ci dirà come vivremo e se potremo continuare a lavorare e in che condizioni. Riuscire a calcolarlo, a tracciarlo, a prevenirlo significherà poter gestire con meno disagio l’attesa del vaccino, quell’altalena che ci attende fra quarantene improvvise e parentesi, più o meno lunghe, di semi-normalità. Se non riusciremo a dare certezza, credibilità, efficacia a questo modello di vita su misura rischieremo lo sfrangiamento totale, il microribellismo individuale, la sopravvivenza fai da te.

    Già avvisaglie ci dicono che una componente, e nemmeno la più retriva, del capitalismo finanziario e tecnocratico morde il freno. L’Economist ha apertamente chiesto una svolta produttivistica, che metta pure in conto un bilancio alto di perdite, ma che rimetta in moto l’economia. È una destra darwiniana che sta prendendo forma, che scompone lo schieramento culturale e politico, attraversandolo, con suggestioni diverse ma convergenti. L’attacco è proprio alla credibilità di un governo riconosciuto e istituzionale, di una sede pubblica di gestione della crisi. Il maglio con cui si cerca di sfondare la porta della governabilità democratica dell’emergenza è l’incertezza circa l’efficacia di una strategia unitaria. Persino il titolare del massimo potere istituzionale, quale è Donald Trump, sembra occhieggiare alla soluzione dell’ognuno per sé.

    La minaccia è che accada quello che si sta vedendo proprio negli Stati Uniti, in cui la complessità e l’ampiezza dell’epidemia, rispetto alla rigidità del sistema gerarchico e mercantile della sanità americana, rendono la dinamica del virus ingovernabile. Stiamo parlando di una prospettiva di possibili 200 mila decessi, con un rischio che si avvicina a un milione. Una mattanza senza precedenti sul suolo americano, che paradossalmente potrebbe spingere, invece che verso un’opposizione a questa logica criminalmente liberista, proprio nella direzione di un divincolarsi da ogni regola e legge per arrangiarsi ciascuno da sé. Un ritorno all’istinto del far west, mai realmente estirpato da quel paese. 

    Anche in Italia i numeri sembrano molto più crudi e spietati di quanto non dicano le tabelle ufficiali. Per la Lombardia c’è chi ipotizza un numero di morti superiore di almeno quattro volte a quello calcolato ufficialmente, con punte che a Bergamo e nel bresciano sarebbero addirittura di dodici volte superiori ai conteggi ufficiali. 

    Siamo dunque solo all’inizio di una lunga e macabra quadriglia, in cui il contagio ballerà attorno a noi. Dovremo abituarci a tenere costantemente gli occhi sugli indicatori dell’emergenza, sui grafici dei trend, per capire quando tornare in quarantena. Sarà quel fixing, come lo abbiamo definito, che quotidianamente ci informerà di cosa sta accadendo nelle nostre città, nelle nostre scuole, nelle nostre aziende. Misurare il contagio sarà una funzione decisiva, la base del governo di un paese. Il segno del comando. Sarà come battere moneta, come amministrare giustizia, come gestire i canali di informazione televisiva. Sarà quanto mai confermata, come principio massimo di autorità, la metafora che Mauro Magatti nel suo saggio Oltre l’Infinito (Feltrinelli, Milano, 2019) pone a base della nuova società computazionale: è certo quel che è vero, e vero quel che è misurabile. Anzi, questa formula sarà corretta con un più drastico participio passato: è vero quel che è misurato. È l’atto del misurare, del calcolare, del dare una grandezza certa ad un fenomeno invisibile quale il contagio, a rappresentare e concentrare il potere di governo. L’economia già da tempo è figlia esclusivamente di questo potere computazionale. La politica lo è diventata, con l’irruzione sulla scena del microtargetting elettorale, come ci ha mostrato Cambridge Analytica, in grado di riformattare l’opinione pubblica. Lo Stato ci si sta piegando con lo tsunami del virus globale.

    Nel suo profetico libro Spillover, David Quammen ci spiega come l’epidemia sia decifrabile solo con il linguaggio della matematica. Il contagio, scrive, è riassumibile in una figura matematica, un vero grafo, un insieme di connessioni da cui si ricavano regole e proporzioni precisamente calcolabili. Solo un modello numerico, che colga le cadenze e le regolarità del fenomeno, permette di circoscriverlo e spegnerlo.

    Così l’epidemia diventa una grande scuola per il potere, ne estremizza i linguaggi, le procedure, le titolarità. Era stata la religione, nel corso delle epidemie medievali e dei primi secoli dell’era moderna, a proporre il sistema valoriale a cui ricorrere per dare una risposta alla domanda di protezione. Nel corso delle epidemie che si alternarono nei secoli successivi alla caduta dell’Impero Romano il Papato fu duramente insidiato nel suo esclusivo primato teologico da santi o santoni in competizione fra loro nel concedere indulgenze o minacciare penitenze per scongiurare la collera divina, di cui il contagio era inevitabilmente la conseguenza. La Chiesa si scompose in mille frammenti. In ogni comunità, il più abile fra i mediatori con Dio poteva mettersi in proprio, proclamandosi unico vettore della salvezza.

    Poi, lungo l’arco del Seicento, toccò alla nascente borghesia mercantile scalzare i troni centrali nella lotta alle infezioni che venivano da Oriente. Prima al nord poi al sud dell’Italia, la peste spinse corporazioni e signorie a dare forma a un nuovo potere terapeutico, con l’istituzione di commissioni sanitarie e cordoni di isolamento che resero il controllo del territorio più capillare e riconosciuto: i porti divennero più moderni ed efficienti nelle ispezioni delle merci e le dogane più affidabili. 

    Con il passaggio al XIX secolo, fu direttamente la politica a far uso delle infezioni di massa per ridisegnare le città e uniformare i servizi verticali, come la sanità e la scuola. E un secolo fa, quando la più grande epidemia contemporanea, la spagnola, decimò le popolazioni europee già alle prese con il primo conflitto mondiale, la coincidenza con la guerra amplificò inevitabilmente l’effetto nefasto dell’epidemia, che uccise fra i 50 e i 100 milioni di persone nel mondo. Numeri che nella loro enormità testimoniano la vaghezza delle misure di contrasto. Si sperimentarono allora le prime quarantene di intere città e regioni, con la chiusure di scuole e fabbriche per interi mesi; tutto però risultò scarsamente utile, perché largamente approssimativo: il morbo devastò interi continenti. Si capì subito che senza un coordinamento globale non sarebbe stato possibile soffocare il contagio. Ma la guerra che infiammava il mondo non era certo lo scenario ideale per tessere la tela della cooperazione.

    Arriviamo così, dopo l’insorgere di focolai locali e “marginali” (giacché nella nostra considerazione quello che non tocca l’Occidente è sempre marginale), ai giorni nostri, prima con le esperienze asiatiche della Sars e della Mers, e oggi con la pandemia senza confini del Covid 19.

    Oggi siamo ad un passaggio di fase. La democrazia sembra cedere il passo. Da tempo era in incubazione la pretesa di una classe di scienziati del calcolo di avere mano libera nelle istituzioni. La potenza che gli algoritmi hanno mostrato nella risoluzione di problemi di ogni genere, anche di quelli più complessi e socialmente rilevanti, sembra preludere al graduale passaggio del potere dalle mani dei rappresentanti a quelle dei calcolanti.

    Negli anni 90 uno straordinario e profetico filosofo sociale come Paul Virilio aveva già parlato di “democrazia automatica”.  Dopo l’11 settembre, l’incombere del terrorismo globale autorizzò gli stati ad appoggiarsi ad agenzie di consulenti che guidavano decisioni vitali. Negli ultimi decenni, l’estendersi della forza di meccanismi di intelligenza artificiale nell’analisi e raccolta di dati pulviscolari ha  promosso – o almeno ha contribuito ad affermare – un vero e proprio dominio, come lo ha definito nell’ultimo suo scritto Remo Bodei, dei grandi monopolisti del calcolo (il cosiddetto Gafam: Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft), che hanno accumulato capacità computazionali e massa di dati tali da permettere la piena trasparenza ai loro occhi di ogni variabile economica e sociale. Una visibilità che non è mai stata nell’orizzonte del sistema di mercato, il quale ha dovuto accollarsi i rischi connessi alla implementazione di ogni decisione. Ed è proprio nella presunzione di poter annullare il rischio la più forte giustificazione che questi gruppi tecnologici oggi accampano per legittimare il loro dominio. In un romanzo visionario come Il Cerchio di Dave Eggers, il capo del fantomatico social globale che raccoglie l’intera popolazione terrestre può dire a una stupita neo-assunta: “ma se noi sappiamo tutto di tutti, a che ci serve la democrazia?” La domanda che oggi echeggia nel gorgo del coronavirus è solo in apparenza meno retorica: “come e chi deve sapere tutto di questa pandemia, per poter evitare che essa produca ancora migliaia di vittime nel pianeta?” 

    In queste settimane gli stati si sono arrabattati per colmare il gap che li separa dal modello de Il Cerchio. Oggi bisogna sapere molto, se non tutto, per fronteggiare un fenomeno che non a caso ha la stessa fisionomia, potenza diffusiva, vocabolario e meccanismi di relazione della rete. Internet e coronavirus sono cugini, se non proprio fratelli. L’infezione che spaventava i nostri informatici fino a Natale era solo quella di un malware o di un hacker intrusivo. Ora il mondo si sta strappando i capelli per capire come decifrare questa nuova rete, come disegnare il grafo degli asintomatici che diffondono il virus. Paolo Giordano nel suo instant book Nel Contagio (Einaudi) ci dice che “il contagio è un’infezione della nostra rete di relazioni”. Quali relazioni si sono infettate per prime, e con quali conseguenze? Pensiamo a ciò che è accaduto in Lombardia da fine gennaio, quando già su Google trends erano evidenti i segnali di una lunga incubazione di sintomi influenzali che sulla rete venivano rilevati con un frequenza di cinque volte superiore alla media degli ultimi 5 anni. Pensiamo a cosa ha significato l’incidente ferroviario del Frecciarossa, il 6 febbraio, alle porte di Milano, con il congestionamento di tutto il piano di trasporto locale, che toccava proprio le tappe ormai tragiche del contagio: Codogno, Lodi, la cintura milanese, Bergamo, Brescia. Pensiamo ancora al focolaio acceso dalla partita Atalanta-Valencia, il 19 febbraio. Tutte queste relazioni indotte e moltiplicate dalle circostanze locali, come hanno prodotto contagio? Sono domande che ancora oggi rimangono senza risposta. E sono buchi neri che stanno minacciando la democrazia. Uno stato, un sistema, una classe politica che non dà la sensazione di sapere come e quando poter rispondere a questi interrogativi non è in grado di reclamare rappresentanza e rispetto.

    Tanto più se attorno a noi si moltiplicano i centri di calcolo del fenomeno: centri di ricerca, gruppi universitari, agenzie internazionali, addirittura banche, o istituti finanziari stanno quotidianamente battendo la moneta dei dati, estendendo, complicando, confondendo lo scenario. E poi i veri titolari di queste informazioni, il Gafam che abbiamo già incontrato. Sono loro che detengono l’intera gamma delle risposte. Non solo quantitative: “quanti e come hanno cercato in rete quelle parole-chiave e cosa hanno comunicato fra loro?”; ma anche dinamiche: “come si sono mossi?”; e infine, e soprattutto, qualitative: “quali sentimenti, emozioni, sintomi hanno denunciato e combinato fra loro?”

    Questo mondo parallelo, questo universo riservato e privato, è la vera caverna di Aladino. Google si è reso conto di non potersi sottrarre allo sforzo contro il contagio, e spontaneamente ha addirittura annunciato che libererà dati utili per geo-referenziare nelle zone nevralgiche i comportamenti sospetti. Dati che risultano ad oggi del tutto inutilizzabili senza avere i contesti di ricerca e le parole-chiave per interrogare i data base. Ma non è di questo che si tratta. Non si può affidare in appalto la zecca. Accadeva nel medioevo, in cui banche private battevano moneta. Non a caso era il tempo delle signorie. Oggi sono passati quattro secoli dalla Pace di Westfalia, in cui sono nati gli stati moderni. Una comunità nazionale si costituisce in stato se ha il controllo delle funzioni sensibili di una società: sicurezza, informazione e amministrazione. Carl Schmitt diceva che era il monopolio della violenza a connotare uno stato. Oggi è l’autonomia e sovranità nella gestione dei dati. Senza poter gestire l’accessibilità, la trasparenza e la condivisibilità dei dati della sua comunità, uno stato è alla derivata di altri poteri. Lo aveva capito, all’inizio del ‘900, Rudolf Hilferding quando, nel suo saggio sul Capitale finanziario, aveva sostenuto che uno stato che non controlli la formazione e la mobilità della massa finanziaria non ha alcuna identità. Oggi, come sostiene Shoshanna Zuboff nel suo Capitalismo della Sorveglianza, sappiamo che senza interferire con quel reticolo di controllo e pianificazione sociale che gruppi privati esercitano sulla base dell’esclusivo controllo dei nostri dati individuali non è concepibile l’autonomia democratica di un’entità pubblica.

    Il contagio ha reso esplicito questo limite. Il contagio è mappabile solo combinando i dati dei social e delle piattaforme con le celle telefoniche e i dati dei servizi locali. Non a caso il GDPR, il regolamento europeo, contempla un unico caso per sospendere i vincoli di privacy individuale e autorizzare l’uso delle black box degli OTT: l’epidemia.

    La combinazione della funzione computazionale – è vero solo quel che è misurabile – con la domanda assoluta di sicurezza – puoi decidere solo se mi guarisci – sta riproponendo un’antica categoria di statualità, lo stato terapeutico, che oggi si identifica con l’efficienza con cui viene prevista e circoscritta la pandemia. 

    Il conflitto che separa la Lombardia dal Veneto, due regioni a guida leghista, ci dice che sulle ideologie e gli interessi prevalgono le rappresentanze dirette. I veneti hanno privilegiato la tutela dei singoli, lavorando sulla prevenzione del fenomeno, come si è visto a Vò; mentre i lombardi hanno lavorato sul controllo degli apparati, puntando sulle cure ospedaliere, a valle del fenomeno. Due opzioni indotte dalla diversità del tessuto socio-economico, che ha spinto perfino lo stesso a percorrere strade differenti.

    Siamo di fronte a una minaccia per l’intero quadro politico. La domanda di sicurezza prevale su qualsiasi identità, soprattutto nelle aree sociali intermedie, dove si combina con la frustrazione della perdita di un primato economico. È quella forma di sovversivismo dei ceti medi, di cui parlava Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere. Un sovversivismo che la rete sostiene, con la sua capacità di riprodurre e duplicare funzioni essenziali della governance statale, come le relazioni, i saperi, la circolazione di denaro e di prodotti.

    Il terreno di confronto e conflitto di questa crisi di autorità è la potenza computazionale, la capacità di misurare e calcolare una minaccia quale il contagio. Quando fra qualche tempo saremo di nuovo fuori dalle nostre case, solo una bussola che ci indica come e dove muoversi potrà permetterci di avvicinarci alla normalità. E quando avremo avviato questa normalità, solo la certezza, la fiducia che sapremo fronteggiare un eventuale nuovo allarme potrà garantire rispetto, obbedienza e lealtà istituzionale. La credibilità, la reputazione, la capacità di prevenzione e di analisi saranno le basi della democrazia. Senza uno stato che apra radicalmente un ragionamento sull’uso sociale dei dati, sulla trasparenza, condivisione e negoziabilità di tutti i dati, non reggeremo alla rissosità e alla corporativizzazione delle quarantene. La privacy, in questa logica, diventa null’altro che la tendina sull’oblò della cabina del Titanic che sta andando a fondo. Potremo anche tirarla per non farci vedere mentre affoghiamo, ma affogheremo.


Michele Mezza è docente di New Media all’Università Federico II di Napoli; ha 66 anni e vive a Roma.



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