Ce la faremo. Politica, società ed economia ai tempi del Covid-19

Ce la faremo. Politica, società ed economia ai tempi del Covid-19

Di Bruno Montesano


Chi non ce l’ha fatta e non ce la farà


    Come in ogni momento di difficoltà, le classi dirigenti usano le crisi per ricreare quella comunità fittizia – ma dagli effetti assai reali – che è la nazione. Questa operazione serve a stabilizzare le perturbazioni che potrebbero mostrare il fondo vuoto su cui poggia la comunità nazionale – l’assenza di un’origine comune, l’inconsistenza dell’ideologia della cultura comune. Priva di fondamenti, questa comunità immaginata necessita infatti di continui miti mobilitanti. Negli editoriali, nelle interviste, nei discorsi pubblici, quasi tutti i relatori fanno riferimento alla tempra italiana, al carattere forte, allo spirito di sacrificio, al coraggio del popolo italiano che possono così tenere insieme chi dal diverso destino sociale è separato. L’esito di queste affermazioni è stato il motto “Ce la faremo”, ritmato dal canto dell’inno nazionale e impresso sulle bandiere tricolori.

    In questo ce la faremo però si cancellano le differenze che il “noi” di chi parla vorrebbe tacere. Il soggetto che parla è la figura idealizzata del popolo italiano, maschio, eterosessuale e bianco. Analizzare chi faccia parte di questa astrazione consente così di mostrare l’involontario cinismo di una simile affermazione. Nella comunità patriottica così rafforzatasi, molte sono le contraddizioni silenziate e mistificate. Non è facile vedere chi non ce l’abbia fatta o chi non ce la farà. Gli esclusi di ieri sono gli esclusi di oggi. Dai detenuti nelle carceri ai migranti nei CPR o respinti in Libia, dai senzatetto ai lavoratori agricoli in nero, da chi ha problemi psichici a chi non ha alcun sussidio e versa nell’indigenza, dalle bambine e i bambini alle donne e alle soggettività LGBTQI+ che vivono in famiglie violente. 

    Forse “farcela”, vorrebbe dire ricomporre la comunità di chi è escluso da quel soggetto nazionale fintamente omogeneo. Dal soggetto che si ripete che ce la farà perché ce l’ha già fatta. La comunità a venire che risulterebbe da un diverso processo di costruzione della soggettività sarebbe sempre incompleta ed instabile nella sua composizione, ma sarebbe sicuramente più umana e meno tetra di quella nazionale. La comunità nazionale costantemente evocata da media e politica è composta da tante persone che fanno sacrifici enormi negli ospedali o nei settori essenziali, così come dal loro doppio spettrale, quello dell’attivismo rancoroso, dal basso, di chi partecipa alla delazione di massa, plaude alla discrezionalità della polizia, assiste immobile al Parlamento bloccato, approva in massa e acriticamente l’operato del governo (quasi due terzi del paese, secondo Nando Pagnoncelli), apprezza che le ONG abbiano smesso di intervenire nel Mediterraneo, forse temendo di essere ancora più inchiodate al loro ruolo di nemici della patria. 

    Gli elementi della crisi in atto erano già presenti in forma più o meno latente. Pertanto, è necessario ragionare tanto sul prima quanto sul dopo, evitando il facile uso di stabilire momenti epocali di cesura. Ad ogni modo, in questo contesto di “prigionia” di massa ed emergenza, le forme di vita e di governo, nonché l’economia – che è il modo con cui riproduciamo la nostra vita materiale – risulteranno necessariamente trasformate dalla crisi. Nelle prossime righe proveremo a tratteggiare quali siano gli aspetti più rilevanti di queste trasformazioni. 


Governo, controllo e prevenzione


    Rispetto al mutamento del regime politico in cui viviamo, nel dibattito critico le valutazioni sullo stato d’eccezione e la biopolitica si sono susseguite vertiginosamente. Tanti si sono avventurati nell’astrazione di modelli di reazione politica – a volte con terribili ragionamenti culturalisti-, contrapponendo chi impone la quarantena e offre un sistema sanitario pubblico e chi invece sminuisce il pericolo, o punta sull’immunità di gregge e sul darwinismo sociale. Anche se già agli inizi era difficile ipotizzare che dei politici si assumessero la responsabilità di sacrificare centinaia di migliaia di cittadine e cittadini alla morte per pandemia. E infatti, le misure prese in seguito da Johnson – poi paradossalmente anch’egli contagiato – e il piano di Trump sembrano aver smentito questa ipotesi, per quanto la condizione del sistema sanitario statunitense preluda a migliaia di morti.

    Rispetto allo stato d’eccezione, evocato da Giorgio Agamben, ci sembra utile l’intervento del giurista Gaetano Azzariti che giustifica l’attuale stato d’emergenza facendo riferimento all’articolo 16 della Costituzione, ma sottolineandone la necessaria limitatezza temporale. “È una prassi conforme a quanto la costituzione ha stabilito? Direi di no. Sono atti illegittimi? Anche in questo caso darei una risposta negativa.” Azzariti lamenta però il silenzio e l’inadeguatezza della risposta parlamentare, paventando il rischio che per ragioni di efficienza emerga un nuovo modello di governo, più rapido ma non più democratico. Ne risulterebbe uno stato d’eccezione permanente, ben diverso da quello teorizzato da Agamben (Homo Sacer, Einaudi, 1995 e Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, 2003) che, attraverso Carl Schmitt, iscrive l’eccezione nel “normale” funzionamento delle democrazie rappresentative. Per Agamben, la condizione normale delle democrazie è quella del bando sovrano, nella doppia accezione di presa e abbandono dei cittadini ad esso sottoposti. Negli ultimi trent’anni, la condizione dei migranti – nuda vita privata di diritti in balia dell’arbitrio della polizia e della detenzione nei campi, nei CPR – si presta a descrivere questo rapporto. La loro condizione apparentemente rappresenterebbe un’eccezione, ma in realtà costituisce il limite che illumina il funzionamento dell’ordinamento politico, dove i diritti e le garanzie possono sempre venire sospesi. Secondo il filosofo, negli ultimi anni c’è stato disvelamento della vera natura della sovranità come eccezione. Così, per restringere le libertà civili, se prima si è fatto ricorso alla minaccia del terrorismo, oggi si usa la pandemia. 

    Questa riflessione, se illumina alcune questione, forse ne oscura altre, come il conflitto tra diverse logiche oggi in campo. Inoltre, a negare la gravità della pandemia è buona parte della classe imprenditoriale del nostro paese, con Confindustria impegnata a far pressione per tenere aperte le aziende. Nonostante il focolaio della pandemia sia avvenuto nelle zone con maggior concentrazione di attività produttive. Scioperi e battaglie politiche hanno posto un freno alla loro indifferenza per la salute pubblica. Ma il pessimismo di Agamben, comunque, mette in luce alcuni meccanismi all’opera durante il lockdown. Oggi l’epidemia, con il correlato uso del linguaggio di guerra, fornisce infatti la giustificazione necessaria allo stato d’eccezione e di “mobilitazione” di massa. Gli organi di informazione partecipano spesso a questo clima di paura diffusa, sforzo etico, sacrificio e disciplinamento, spesso tacendo degli aspetti più preoccupanti di questa condizione. In paesi dove la tripartizione dei poteri è minacciata e la libertà di stampa è seriamente compromessa, la situazione è ancora peggiore. E come sempre, a farne le spese sono i marginali, gli oppositori politici e il nemico pubblico dell’Europa bianca – dove per bianchezza si intende una costruzione ideologica che prevede una gerarchia interna -, il migrante. I governi autoritari stanno infatti legando la diffusione del virus agli stranieri. Ma anche in Italia, i migranti salvati dalla Sea-Watch 3 e dall’Ocean Viking sono stati sottoposti a isolamento, prima che iniziasse la quarantena per tutti i cittadini, mentre le imbarcazioni commerciali o turistiche non sono state toccate da simili disposizioni. Un sovrappiù discriminatorio di attenzione si concentra sulle vite ineguali dei migranti, non da oggi visti come untori. Dopo l’osceno spettacolo a cui abbiamo assistito al confine tra Grecia e Turchia, dove bande di neo-fascisti giravano impunite a caccia di stranieri, in diverse regioni la psicosi da pandemia ha favorito l’azione di altri gruppi di estremisti di destra a caccia dell’untore. Sandro Mezzadra sostiene che spesso accada che vengano attivate pratiche discriminanti che, con la giustificazione della sicurezza, trasformano i soggetti a rischio nel rischio stesso. “Politiche di frontiera restrittive mettono a rischio le vite delle popolazioni vulnerabili per le quali la mobilità è un mezzo di sopravvivenza”. Questo avviene ad esempio con il trattenimento di migliaia di persone in luoghi chiusi e dove le condizioni igieniche sono pessime, come le isole greche o i campi in Libia, dove il virus si sta diffondendo. A questo si riferisce Medici senza frontiere sottolineando l’estrema pericolosità di luoghi simili e chiedendone l’immediata evacuazione. 


Economia e pandemia


    Se il modello dell’eccezione e della crisi è parso un ottimo strumento di governo per disciplinare maggiormente le società e accelerarne – o sigillarne – la trasformazione neoliberale, più di qualche dubbio sorge in relazione ad una forma compiuta di stato d’eccezione permanente nell’attuale crisi.
L’economia globale era considerata da molti economisti già in marcia verso una crisi simile a quella del 2008. Il coronavirus, agganciandosi a problemi strutturali, ha fatto detonare molte delle contraddizioni che covavano sotto la cenere. La pandemia sta mettendo sotto pressione le economie di diversi paesi – ed in particolare i servizi (trasporti, turismo, ristorazione e cultura in particolare), mentre l’e-commerce e i giganti della Silicon Valley crescono – scuotendo definitivamente il mercato globale. La catena del valore globale presenta diverse strozzature – in particolare legate al lockdown della “fabbrica del mondo”, la Cina, ma non solo. Secondo alcune stime del Fmi, la contrazione del Pil mondiale potrebbe aggirarsi intorno all’1,6%, passando dal 2,6 all’1%. Per il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres – che chiede un’interruzione dei conflitti armati generale-, bisogna mobilitare almeno il 10% del Pil mondiale, ossia 9 trilioni di dollari. Per Bloomberg, nel caso peggiore la perdita sarà di 2,7 trilioni. L’ILO stima che si potrebbe arrivare a 195 milioni di disoccupati. In risposta, il G20 qualche settimana fa ha discusso di mobilitare 5.000 miliardi. Oltre che a causa della guerra dei prezzi tra Russia, Arabia saudita e Stati Uniti, il prezzo del petrolio sta calando vertiginosamente perché è una materia prima pro-ciclica e questo metterà in gravi difficoltà i paesi a basso reddito che vivono di esportazioni di idro-carburi. Il Fmi ha ragionato di raddoppiare il fondo di emergenza di 50 miliardi per aiutare i paesi in via di sviluppo, che hanno assistito ad una massiccia fuga di capitali. Intanto, Trump ha stanziato 2.000 miliardi (10% del Pil) per far fronte alla crisi – che alcune stime quantificano tra il 12 e il 40% del Pil. La Germania ha impegnato circa 550 miliardi, la Francia prevede fino a 300 miliardi di garanzie sui prestiti e ne spende 45, mentre la Spagna ha stanziato 17 miliardi a cui aggiunge 100 miliardi di garanzie. Intanto, il governo italiano ha stanziato 29 miliardi e promette di raggiungere i 50 totali, a cui aggiunge 400 miliardi di garanzie e una decina di miliardi di fondi strutturali europei. La crescita del Pil italiano dovrebbe ridursi del 3,4%, secondo Goldman Sachs, mentre per il Fmi il Pil italiano diminuirà dello 0,6% mentre il debito pubblico salirà al 137% del Pil – ma altre stime parlano del 150%. Per il Cerved, il 10% delle imprese non riaprirà. Tutto dipende dalla risposta che la UE metterà in campo. A fronte di una riduzione del PIL dell’Unione Europea del 2,5% – secondo le stime della Commissione europea -, la BCE ha lanciato un Programma di acquisto per l’emergenza pandemica di 870 miliardi di euro (il 7,3% del Pil dell’area dell’euro), ma ancora non è chiaro quale sarà la risposta complessiva della UE. Come è intuibile, i dati – e le politiche – sono in continua evoluzione.

    Mario Draghi – che registra ancora una volta una capacità di direzione politica molto più avanzata di quella delle élite del nostro paese – ha consigliato di fare debito per sostenere imprese e redditi, di fatto sconfessando la linea a lungo in voga nella UE. In tal senso, tra le varie proposte, anche quella di usare la BEI (Banca Europea Investimenti) e il FEI (Fondo Europeo per gli Investimenti) per rilanciare gli interventi di sostegno alle imprese, con un particolare occhio per l’innovazione volta alla transizione ecologica. Oltre che sugli eurobond, molti economisti e banchieri centrali si interrogano sul reddito di base, da dare direttamente a tutti i cittadini, per sostenere redditi e domanda. Hong Kong ha già stanziato un “reddito di quarantena”, gli Stati Uniti e l’Australia pure, mentre il Canada, la Nuova Zelanda e la Spagna si apprestano a fare lo stesso. In Germania, Irlanda e Regno Unito se ne discute. In Italia, un reddito di emergenza forse verrà varato, ma non sarà sufficiente a contenere un tracollo che minaccia di essere peggiore di quello del 2008. Investimenti nella sanità e nelle infrastrutture, una patrimoniale e un aumento delle aliquote marginali, una severa regolamentazione delle imprese salvate e della finanza sono quanto mai necessari. L’imprevedibilità della situazione è estremamente elevata e strumenti non convenzionali sembrano essere l’unica ipotesi possibile. Trovandosi davanti ad uno shock sia della domanda che dell’offerta, le misure adottate fino ad ora risultano essere inadeguate. Tanto una politica monetaria espansiva quanto l’austerità sostenuta da molti fino a ieri – oggi spesso riconvertitisi ad un temporaneo keynesisimo – non bastano o sono addirittura controproducenti. 


Quello che resta


    Questa crisi, come molte crisi, porta alcune contraddizioni ad esplodere. L’attuale quarantena non può pertanto esser valutata solamente in negativo. L’uso delle tecnologie, dopo esser stato sperimentato su larga scala come sostituto delle relazioni sociali, influenzerà l’istruzione, il mondo del lavoro e le forme di vita. Si vedrà se accentuerà solo le forme di controllo e alienazione o favorirà processi di innovazione e partecipazione nella società e nella produzione. Il supposto ritorno dello stato e della politica – seppur minacciati dal sapere tecnico e scientifico – sembrano essere elementi del mutamento in corso. Ma la trasformazione è avvenuta prima della crisi, con la fine del multilateralismo statunitense, con le guerre commerciali per l’egemonia tecnologica, con il protezionismo più o meno simulato, con l’irrigidimento dei confini, con il rafforzarsi delle logiche identitarie tese all’esclusione e all’emarginazione dello straniero. Lo stato, in modo per lo più mistificatorio, è tornato in campo a difesa dei cd. perdenti della globalizzazione, dei margini contro il centro della finanza, dei flussi di merci e denaro, dei movimenti di persone. Eppure, sotto questa patina di bugie e urla, già covava l’instabilità economica e politica a cui oggi assistiamo. Il mito della democrazia digitale e il populismo nazionalista potrebbero venire ridimensionati in favore di un ritorno allo stato dei partiti, con i corpi sociali ri-legittimati – dopo la fase tecnocratica e poi renziana e grillina. O forse a venirne rilegittimato sarà solo il potere pubblico, in ossequio ai ragionamenti hobbesiani sulla paura e il sovrano. Governare solo con DPCM e con un parlamento bloccato non è positivo, come non lo è l’allargamento dei poteri di polizia o l’ipertrofia del diritto penale. Ma non pare che ciò abbia suscitato grosse polemiche. Eppure, l’elogio delle lotte operaie da parte di Conte – che rimane figura estremamente discutibile anzitutto per l’anno di governo con Salvini – e la successiva modifica della lista delle attività essenziali forse indicano un ritorno di qualche forma di dialettica non solo mediatica tra società e istituzioni. Ma le 15.000 deroghe concesse alle imprese in Veneto e le continue pressioni di Confindustria – appoggiate dal governatore Zaia – non promettono per il meglio. Sul fronte europeo invece, la posizione del governo è sicuramente più seria tanto di quella muscolare e ridicola di Salvini, quanto di quella reverente dei governi di centro-sinistra. La politica a lungo è regredita a rappresentare il “comitato d’affari della borghesia” di marxiana memoria, catturata senza mediazioni da parte del potere economico. In tempi di catene globali del valore, non è necessariamente un fatto positivo in sé il ritorno di un conflitto regolato dagli stati nazione in un quadro keynesiano-welfaristico, come alcune tendenze portano ad intendere. Ma bisogna sottolineare che la pandemia si sta sviluppando in un contesto di assalto alla democrazia liberale portato avanti dall’estrema destra. Pertanto, l’intervento pubblico, integrato alla cooperazione sovranazionale che la pandemia – e il cambiamento climatico – impone, e stimolato dalle battaglie dei movimenti sociali, può e deve tornare a esser visto come lo strumento al servizio dei molti per realizzare la giustizia sociale e garantire un’effettiva libertà individuale. Il potere politico ha una autonomia relativa – frutto delle pressioni sociali e della necessità di trovare compromessi tra interessi divergenti nella società – ma questa sembrava esser svanita nell’ultimo trentennio. Sembrava perché non bisogna dimenticare che a de-regolamentare l’economia furono i governi nazionali. Non c’è mai stato un conflitto stato-mercato in termini binari quindi, dal momento che il secondo necessita del primo per funzionare. Al contempo, le logiche che muovono i due aggregati di potere possono incontrarsi, sovrapporsi ma anche confliggere.

    Resta da capire che spazio si aprirà per la politica intesa come lotta della “parte dei senza parte” (Jacques Rancière, Il Disaccordo, Meltemi 2007), ai tempi della quarantena che ne riduce i margini d’azione ma non di solidarietà. Alcune iniziative sono sorte, da quella di assistenza agli anziani, a quelle per il reddito di quarantena per coprire gli esclusi dal Cura Italia o per la verità sulle morti in carcere, nonché per la regolarizzazione degli stranieri presenti nel paese, così come con la diffusione delle disposizioni sanitarie in più lingue. I 37 miliardi di tagli alla sanità difficilmente potranno esser giustificati in futuro, così come sarà difficile sostenere che il mercato sia lo strumento più efficace per regolare la società, come iniziano ad affermare tanti politici, economisti e scienziati politici neoliberali. Emergono in alcuni paesi misure fino a poco tempo fa impensabili, come la regolarizzazione dei richiedenti asilo in Portogallo o il reddito di base in Spagna. Mentre in Italia si ragiona di regolarizzare i lavoratori stranieri che garantiscono il funzionamento della filiera agro-alimentare, definita dalla ministra Teresa Bellanova “pulita” senza pudore e senza coerenza logica con il riconoscimento della necessità di una regolarizzazione. La ministra poi rilancia la proposta della Alleanza cooperative agroalimentari di precettare i percettori del reddito di cittadinanza affinché lavorino nei campi, dato che i migranti iniziano a scarseggiare. I disoccupati e i beneficiari del welfare dovrebbero andare a fare i lavori che persino i migranti non vogliono fare più. Sopra gli stranieri e sotto la comunità operosa nazionale, stanno i “lazzaroni”, chi vive di espedienti a spese dello stato.

    L’ambivalenza però è la cifra delle crisi. Essere tutte e tutti portatori di pericolo acuisce sì la paranoia sociale, la claustrofilia, accentua le distanze nelle relazioni, ma potrebbe – grazie al ribaltamento dei punti di vista – produrre maggior consapevolezza quando si guarda a chi ha un’altra cittadinanza. O forse no. La mentalità paranoica e delatoria sviluppata in questo periodo potrebbe rimanere anche dopo la fine della quarantena. Egualmente, la solidarietà nazionale che si voleva scalfire con l’autonomia differenziata forse potrà esser mantenuta e rilanciata su una scala più ampia. Infatti, come è evidente, il virus non conosce confini e forse, quindi, le istituzioni sovranazionali potrebbero trarre una nuova legittimazione dalla presa d’atto dell’inutilità e dannosità dei sovranismi. D’altro canto, può avvenire anche il contrario, come Orban, Modi, Johnson, Bolsonaro e Trump ci mostrano. I sovranismi possono rafforzarsi facilmente se efficaci e universalistiche politiche sociali non verranno presto adottate. La sospensione di Schengen, se in parte comprensibile, non fa sperare per il meglio. Come non dà buona prova di sé il comportamento tenuto fino ad ora da parte delle élite conservatrici della Germania e dai paesi del Nord Europa. Gli eterni temi del dibattito sul futuro del continente riguardano la riforma del Fiscal compact, l’istituzione degli eurobond, di una politica industriale e fiscale comune, l’istituzione del Pilastro Sociale Europeo – che preveda anche un reddito di base, o euro-dividendo – e il varo di un Green New Deal. Approvando queste misure si potrebbe rafforzare quell’incerto esperimento di democrazia transnazionale che è la UE. Fallire, sappiamo che vorrebbe dire tornare alla barbarie degli stati nazione. Non è detto che alcuni di questi progetti non si realizzino, come già la rottura dell’asse franco-tedesco, la sospensione della disciplina sugli aiuti di stato e del Patto di stabilità, l’approvazione di 100 miliardi per lo schema contro la disoccupazione europeo – il “Sure” – e la pressione di 14 paesi membri su 19 per i corona-bond indicano. Ma può anche accadere che il punto di caduta venga trovato su un Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) con condizionalità deboli, che così non aprirebbe a nessuna maggior integrazione comunitaria successiva. A seconda delle reazioni dell’Europa – purtroppo ancora da intendere come “organizzazione dell’ostilità reciproca tra gli europei” (Caracciolo) – sarà possibile capire se da questo caos sistemico la Cina la assorbirà nella propria area di influenza, se ne ingloberà solo parti o se la Ue manterrà una sua autonomia relativa, a fronte del declino isolazionista statunitense. 

    Never let a crisis go wasted, questo il motto nella crisi precedente. Bisognerà capire se questo diverrà il principio di chi prova a redistribuire la ricchezza e realizzare forme di eguaglianza al di là degli stati nazione, o se, come già accaduto, di chi è ricco e sfrutterà la situazione per accrescere la propria fortuna secondo il modello del capitalismo delle catastrofi descritto da Naomi Klein (Shock economy, Rizzoli, 2007). Il cambiamento climatico mette in pericolo l’esistenza umana sul pianeta ma non è avvertito in termini così gravi nei paesi occidentali perché, per ora, gli effetti peggiori si scaricano su altre parti del pianeta, perché il momento della catastrofe è differito nel tempo e perché costa troppo ripensare il modello di sviluppo e gli stili di vita. Il tempo ci dirà se questa crisi sarà solo una di una lunga serie o se, progressivamente, svilupperemo nuove forme di vita, per riuscire a vivere oltre il disastro ecologico.



Bruno Montesano è studente presso la School of Oriental and African Studies (Soas); ha 24 anni e vive a Roma



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