Agricoltura e mobilità ai tempi della pandemia

Agricoltura e mobilità ai tempi della pandemia

di Camilla Macciani 

 

L’emergenza sanitaria globale ha avuto tra le sue principali conseguenze quella di limitare fortemente il movimento delle persone sia tra diversi stati che all’interno degli stessi territori nazionali. Le restrizioni al movimento messe in atto dai governi hanno dimostrato quanto la mobilità delle persone sia fondamentale per il funzionamento dell’economia. In particolare, in Italia queste restrizioni hanno evidenziato il ruolo centrale della mobilità per il funzionamento del settore agro-industriale, su scala internazionale, nazionale e locale.

 

Immigrazione e agricoltura: una relazione consolidata

Il contributo essenziale dei lavoratori stranieri nel settore agro-industriale italiano è ormai noto anche a coloro che fino a poco tempo fa non ne erano consapevoli. Si stima che 370.000 lavoratori impiegati regolarmente in agricoltura siano stranieri (CREA 2019); a questi è necessario aggiungere chi è impiegato senza un regolare contratto di lavoro, per un totale di 405.000 lavoratori (secondo le stime CREA 2017) ora probabilmente aumentato come risultato dei Decreti Sicurezza. Tra questi, circa la metà (secondo le stime dell’Osservatorio Placido Rizzotto al 2017 erano il 47%, ma in crescita nell’ultimo biennio) sono lavoratori non comunitari (tra cui i paesi principali di provenienza sono Marocco, India, Albania, Senegal). La restante parte è composta da lavoratori comunitari in parte stagionali in parte sedentari, principalmente provenienti da Romania (110.000), Polonia e Bulgaria (circa 12.000 lavoratori rispettivamente). Le restrizioni al movimento ed il rischio di non poter far rientro al proprio Paese hanno fatto venire meno la disponibilità di molti dei lavoratori comunitari stagionali. Confagricoltura ha stimato dalle 200.000 alle 250.000 persone in meno, nonostante il segretario generale della Flai-Cgil Giovanni Mininni abbia definito questa stima esagerata. Tuttavia, è indubbio che le restrizioni al movimento abbiano determinato una consistente carenza di manodopera per quanto riguarda i cittadini comunitari che normalmente possono circolare liberamente.

L’associazione ambientalista Terra! Onlus e la Flai-Cgil il 20 marzo hanno colto l’occasione per lanciare una lettera-appello rivolta al Presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio e ai Ministri dell’Agricoltura, del Lavoro, dell’Interno, della Salute e del Sud chiedendo di agire per tutelare la salute dei braccianti che abitano nei ghetti attraverso un provvedimento straordinario di regolarizzazione. Questa richiesta si inserisce nell’ambito di una serie di istanze orientate a una più ampia di riforma delle politiche migratorie che dal 2017 è confluita nella legge di iniziativa popolare Ero Straniero, in discussione in Parlamento.

     Nelle ultime settimane, la ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova ha più volte dichiarato di essere favorevole ad un provvedimento di regolarizzazione che coinvolga tanto i richiedenti asilo in attesa di un esito alla propria domanda, quanto chi sia sprovvisto di qualsiasi permesso, a patto che vi sia la disponibilità di un datore di lavoro ad assumerli. Anche il Sottosegretario alle Politiche Sociali e al Lavoro, Steni di Piazza (M5S), si è espresso favorevolmente in tal senso. Tuttavia, per il momento la Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese non si è espresso e non sono stati proposti provvedimenti di regolarizzazione, al di là dell’estensione fino al 15 giugno dei permessi in scadenza tra il 31 gennaio e il 15 aprile.

Le misure di contenimento e restrizione al movimento non hanno evidenziato esclusivamente la dipendenza del settore agro-industriale dai lavoratori di origine straniera, ma hanno messo in luce il ruolo centrale della mobilità per il funzionamento del settore agro-industriale.

 

Il lavoro agricolo come “pratica migrante”

Se i lavoratori di origine straniera sono diventati una colonna portante del settore agro-industriale italiano a partire dagli ’90, le migrazioni in agricoltura non nascono con il loro arrivo. Infatti, in Puglia, come in altre regioni d’Italia, la migrazione interna rappresenta una costante del lavoro agricolo già dal 1800. Allo stesso modo, alcune fasce di lavoratori migranti seguono oggi percorsi di migrazione interna sulla base della stagionalità. Questo fenomeno di migrazione ha portato lo storico Piero Bevilacqua (Storia dell’emigrazione italiana, Volume 1, Donzelli 2001,) – già intervenuto su questo blog per parlare delle moderne forme di esclusione –  a definire il “lavoro agricolo, di per sé, come una pratica migrante”.

     A causa delle misure di contenimento, migliaia di lavoratori si sono trovati impossibilitati a spostarsi da una regione all’altra con il cambiare delle stagioni, rimanendo bloccati in condizioni precarie senza possibilità di lavorare. È quanto sta avvenendo, per esempio a Rosarno, dove la stagione delle arance volge al termine e la disperazione per l’assenza di lavoro e di mezzi di sussistenza monta ogni giorno di più.

Il rapporto tra mobilità e agricoltura tuttavia non riguarda solo la migrazione interna ma anche il ruolo centrale del trasporto sul luogo del lavoro, con particolare riferimento ad alcuni distretti produttivi, come quello del Tavoliere delle Puglie. Numerose analisi sul fenomeno del caporalato moderno, come quella sviluppata dall’attivista e parlamentare Pietro Alò (Rifondazione comunista), hanno evidenziato il ruolo centrale del trasporto nella funzione di intermediazione svolta dai caporali. La caratterizzazione che Alò (Il caporalato nella tarda modernità, Wip Edizioni 2010) ha dato del caporale moderno come “autista-bracciante-trasportatore”, è in parte ancora valida, sebbene questa figura si collochi oggi in un sistema di organizzazione “gerarchica” (vedi infografica). Nonostante la Ministra Teresa Bellanova ami ribadire che “non esistono filiere sporche” e che molte aziende operano nella legalità, è innegabile che il sistema, specialmente in alcune aree come la Provincia di Foggia, sia altamente dipendente dall’intermediazione dei caporali. In quella zona, oggi come alla fine degli anni ’90, i tentativi di avviare un servizio di trasporto alternativo a quello dei caporali sono rimasti in gran parte senza esito positivo. Inutile sottolineare che i pulmini con i quali quotidianamente i braccianti si recano al lavoro non possono rispettare alcun genere di misure sicurezza in tempi normali, figuriamoci ora.

La necessità di giustificare il proprio spostamento con un modulo ‘formale’ nell’ambito delle restrizioni imposte dalle misure di contenimento si scontra evidentemente con la realtà di un settore basato sulla mobilità e su meccanismi di intermediazione informale. Da questo ne discende che anche chi fosse disponibile a lavorare, anche potenzialmente con un permesso di soggiorno, trova oggi più difficoltà a causa delle limitazioni agli spostamenti e all’incremento dei controlli da parte delle forze dell’ordine.


La crisi: possibilità da cogliere o opportunità mancata?

Il 2 aprile The Rising Majority, una coalizione di movimenti formata nel 2017 negli USA con l’obiettivo di sviluppare strategie collettive tra forze impegnate in vari ambiti tra cui giustizia climatica, economica e sociale, femminismo, immigrazione, ha ospitato in un dialogo-conferenza online con Angela Davis e Naomi Klein, insieme ad alcuni attivisti del movimento. Tema principale del dibattito è stato evidenziare come la crisi sanitaria ed economica attuale stiano allo stesso tempo rendendo evidente la natura razzista del capitalismo e mettendo in luce il ruolo essenziale di determinate categorie di lavoratori e servizi per la sopravvivenza dell’intera società. Come accennato anche da Bruno su questo blog, Klein ha in particolare sottolineato che la shock doctrine (Shock economy, Rizzoli 2007), colonna portante di ciò che lei stessa ha definito come disaster capitalism, sia stata sviluppata proprio per limitare il potenziale di trasformazione in senso progressista che si apre nei momenti di crisi. Alcuni economisti neoliberali teorizzarono dunque una risposta che fosse funzionale al mantenimento dello status quo dei gruppi dominanti e all’ulteriore polarizzazione dei profitti. Ogni disastro o crisi -siano essi economici, politici, o naturali- rappresentano dunque allo stesso tempo una possibilità e un rischio, potendosi trasformare in un momento di liberazione radicale o in un’opportunità mancata. 

La situazione attuale, determinata dalla crisi di manodopera in ambito agricolo, rappresenta una grande possibilità per aprire uno spazio di confronto su diversi punti, partendo dall’accresciuto potere contrattuale dato dall’urgenza che il settore agro-industriale ha di manodopera e dalla posizione di visibilità che l’agricoltura e i suoi lavoratori hanno acquisito in questo momento. Se in tempi normali è stato possibile perseguire una riduzione costante dei salari in virtù della disponibilità pressoché illimitata di manodopera pronta ad accettare un salario sempre più basso, per quanto riguarda l’agricoltura soprattutto in seguito all’ingresso in UE dei Paesi dell’Est, oggi il meccanismo appare interrotto. Non è possibile giocare eccessivamente al ribasso poiché i lavoratori dall’Est hanno smesso di arrivare. Questo rappresenta il momento ottimale per fare pressione per ottenere una regolarizzazione che coinvolga più di 560.000 persone ad oggi prive di permesso di soggiorno (secondo le stime della Fondazione ISMU erano 562.000 al gennaio 2019) e maggiori diritti e tutele per i lavoratori del settore agricolo. Allo stesso tempo, il ruolo centrale della mobilità per il settore agricolo dovrebbe aprire uno spazio di riflessione per quanto riguarda il ‘dogma’ della residenza, divenuto negli ultimi anni uno degli ostacoli principali al rinnovo del permesso di soggiorno, anche in presenza di contratto di lavoro.

È vero che l’unico decreto firmato ad oggi dal Ministero dell’Interno in materia, strumentalizzando la crisi sanitaria per chiudere i porti, va in direzione totalmente opposta a quella auspicata, facendo intravedere una deriva securitaria che si intende seguire in ambito di politiche migratorie e di diritti delle persone migranti.

Allo stesso tempo, diverse campagne lanciate nell’ultimo mese sul tema dei diritti dei braccianti stranieri stanno riscuotendo considerevole attenzione e supporto da più fronti (tra cui quella già citata di Terra! Onlus e Flai-Cgil ma anche la raccolta promossa da Aboubakar Soumahoro). Questi strumenti possono rivelarsi estremamente importanti se usati in funzione di rivendicazione e supporto a forme di organizzazione sia sindacali sia autonome, e non in un’ottica di mera assistenza.

Fare leva in questo momento sull’essenzialità per il comparto agro-industriale del contributo dei lavoratori migranti ancora in posizione precaria o irregolare, può rappresentare il punto di svolta di una lotta che va avanti da decenni. Se persa, questa occasione si tramuterà in un’altra opportunità mancata.

 

 

 

 Camilla Macciani; è attivista e fotografa, ha 25 anni e vive a Firenze.

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