. . . Sotto l’ombra di un bel fior

Sotto l’ombra di un bel fior

 

Perché rompere il silenzio sulla morte

 

di Anna Coluccino

 

La morte e io abbiamo una relazione di lungo corso. La sua presenza è costante nella mia storia e nei miei pensieri. Ecco perché, in questi giorni, ho l’impressione di cavarmela meglio di altri, probabilmente anche grazie all’abitudine che ho di vivere in condizioni di allerta costante, in uno stato d’assedio permanente, in balia di venti che sospirano l’incessante memento mori. Eppure, non posso distrarre il pensiero dal considerare la situazione di chi muore di questi tempi, in solitudine, sapendo che la comunità ha indiscutibilmente deciso di tradire il patto sociale che esiste tra vivi e morti da migliaia di anni. La promessa che, al momento della morte, ci si riunirà per celebrare la vita, raccontare la storia, stringersi nel ricordo del defunto e riscoprire il senso dell’esistere sapendo di morire.

 

    Scrivo a cavallo tra il sabato e la domenica di Pasqua, scrivo da non credente, perché non ritengo che il diritto di piangere i propri morti sia un’esclusiva delle religioni organizzate che pure celebrano, quasi tutte, un rito legato al lutto collettivo, alla morte-rinascita, sia essa letterale o metaforica. Scrivo di passaggio, percorrendo il solco che, attraverso i giorni della morte, conduce al giorno della resurrezione; il solco che, dalla cattività in terra sommessa, conduce alla liberazione in terra promessa. Sono pure i giorni in cui si è chiamati ad accettare il sacrificio più grande e, alla pronuncia dell’Eccomi, corrisponde la più straordinaria delle ricompense. 

 

    Al di là del significato che la Pasqua ha per i credenti delle varie religioni monoteiste, chiunque può compiere l’esercizio intellettuale e spirituale di riflettere sul significato profondo del lutto, tanto sul piano storico che su quello filosofico. Possiamo pensare a questi giorni come al tempo in cui l’umanità celebra la dolce e cruda ironia della vita che, per paradosso, acquista vero senso solo potendo finire, solo correndo abbracciata alla morte. Da sempre, troviamo consolazione al vivere temendo la morte sapendo che nulla avrebbe lo stesso intenso sapore se dovesse durare per sempre. Ma, soprattutto, ci aiuta raccontare le storie dei morti, ripetere che i defunti risorgono in chi resta, seppure in pezzi, in frammenti dispersi di memorie, in luoghi ideali e immaginari. È per tenere a mente tutto questo che gli esseri umani celebrano, da millenni, i riti funebri.

 

    Già sento le opposizioni razionali che dicono che non è il momento per le dissertazioni romantiche di stampo foscoliano; ché, tanto, all’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate dal pianto, il sonno della morte non è men duro. Non sarebbe perciò il tempo, ora, di perorare la causa persa dei diritti dei morti. Ma solo qualcuno parecchio indifferente alla storia del pensiero e delle azioni umane potrebbe sostenere che la questione del “come” stiamo affrontando e gestendo la morte e l’elaborazione del lutto sia un non-problema, un fatto triste, certo, ma non risolvibile altrimenti e che, perciò, non merita eccessiva attenzione.

 

    Nella società umana esistono molte forme di patto, impegni che le nuove generazioni si assumono nei confronti delle vecchie. Esiste, ad esempio, il patto sociale. Per cui ci preoccupa molto, e a ragione, il problema che i giovani che oggi lavorano e pagano le pensioni, domani potrebbero non godere del medesimo trattamento. Poi c’è il patto educativo, per cui la comunità garantisce un’istruzione gratuita e di qualità ai giovani affinché diventino persone consapevoli dei propri diritti e doveri nei confronti della collettività. Quindi ci siamo attivati perché ai bambini e alle ragazze, al di là delle circostanze, fosse garantito l’accesso alla conoscenza, all’educazione, agli strumenti intellettuali ed emotivi che nutrono la loro identità. Non ci preoccupa affatto invece, o comunque non globalmente, come collettività, di star tradendo il patto che i vivi onorano da sempre nei confronti dei morti. Perciò non ci è sembrato importante sforzarci di immaginare forme di rito compatibili con le esigenze mediche.

 

    Come ricordavano Franco Arminio e Vito Mancuso, in uno splendido dialogo offerto in occasione dell’evento Prendiamola con

filosofia, le società umane si sono storicamente definite tali a partire dalla celebrazione di riti funebri. E questo perché seppellire qualcuno, preoccuparsi di ornare il suo cadavere, testimonia la nostra presa di coscienza rispetto all’evento della morte e le diverse forme di reazione a quella rivelazione. Questo significa che, oggi, negando la necessità di salvaguardare questi riti, stiamo rinunciando a una porzione significativa della nostra umanità. Se esiste un fondamento, un principio che definisce la nostra essenza di specie è l’attitudine a portare il lutto, l’attenzione che abbiamo sempre prestato al momento della morte, la necessità di celebrare la vita che si spegne, di onorare la storia dei defunti, di esprimere e raccontare il dolore per la perdita e la persistente gioia dell’incontro. I riti funebri aiutano a distaccarsi, a prendere coscienza di quanto accaduto e testimoniano anche un impegno solenne da parte della comunità: “Quando toccherà a te, non ti lasceremo andare nel silenzio e nell’indifferenza, come se non fossi mai esistito”.

 

    In questi giorni, la mia mente è tornata spesso a carezzare il ricordo di quando, oltre vent’anni fa, la mia nonna materna mi portò ad ammirare il loculo che aveva acquistato per sé, nel cimitero del suo paese natìo. Mia nonna andava fiera del fatto d’essere riuscita ad alleggerirci del carico pratico e burocratico legato alla sua morte, d’aver risolto per tempo le questioni materiali, consentendoci di onorare la sua dipartita senza eccessive preoccupazioni. All’epoca, ero presa nelle prime battute di una guerra che combatto ancora oggi, quella con la costante consapevolezza della morte. Non godevo perciò della necessaria lucidità per cogliere il vero senso di quanto accadeva. Mi limitai ad osservare l’ansia cominciare a prendermi, a sentire come appesantiva e accelerava il battito del mio cuore, come tracimava inesorabilmente dagli occhi. Non volevo piangere. Sapevo che nonna si sarebbe sentita in colpa pur non avendo commesso alcun errore. Piansi, comunque, silenziosamente, spergiurando che fosse tutto a posto. Mi colpì con la brutalità di uno schiaffo a mano aperta l’evidenza della mia inadeguatezza nell’affrontare la morte, specie vedendola tremare accanto alla stoica capacità di lei di conviverci naturalmente, senza soffrire e, anzi, continuando a preoccuparsi soprattutto di rendere le cose più facili per noi. Certo, la forza di nonna si alimentava alla fonte della fede sincera in un disegno divino, fede che io ho presto perso in favore di un modello razionale, colmo di dubbi cui non esiste risposta.

 

    Le frequenti visite ai cimiteri hanno caratterizzato la mia infanzia e la mia giovinezza. In particolare, mi dedicavo spesso, con nonna, alla cura delle tombe di famiglia. Dopo averla aiutata a pulire, a cambiare l’acqua ai fiori, a posizionare quelli freschi, mentre lei pregava io andavo alla ricerca di tombe abbandonate cui donare i fiori che, appositamente, acquistavamo. Inventavo storie per ognuno di quei volti sconosciuti, la cui immagine, fissa in una posa fotografica, resisteva allo scorrere del tempo.

    Quando il pensiero di una morte che spegne i sensi, i pensieri, la memoria e tutto quanto cominciò ad assalirmi, gradualmente, smisi l’abitudine di visitare i cimiteri di famiglia. Per lungo tempo, mi sono persino rifiutata di partecipare ai funerali. Ho perso anche quello di mio nonno paterno, che tanto ho amato: una vigliaccheria che non mi perdono. C’è voluto un po’ perché capissi che non era la razionalità a tenermi lontana dalla celebrazione della morte: era la paura di doverla affrontare, era il desiderio di anestetizzare, silenziare meglio possibile la pena e l’angoscia di una fine che comunque risuona, più o meno avvertita, in ogni vivente.

    Oggi, quella di andare per cimiteri è tornata a essere una pratica cui mi dedico e che uso come forma di terapia. Ho anche ricominciato a partecipare ai funerali perché ho compreso, finalmente, qualcosa che per mia nonna e tanti altri dev’essere istintivamente ovvio: i funerali sono dedicati a chi trapassa, ma sono rivolti a chi resta. Per cui poco importa se si creda o meno in una vita oltre la morte o se si ritenga che tutto finisca nel nulla eterno. È chi vive ad aver bisogno di essere accompagnato, tenuto per mano, guidato all’abbandono, a mollare la presa. E, in questo senso, essere sollevati da questioni pratiche consente di concentrarsi sul dolore, di dedicarsi alla propria pena. I riti funebri non onorano soltanto il defunto ma i ricordi che lascia, quei brandelli di esistenza disseminati negli altri. 

 

    Alla luce di tutto questo, come può la nostra specie sospendere questi riti con tale, pacifica risolutezza, senza ripensamenti o reazioni di sdegno da parte delle persone? Che ci è successo? Quand’è che siamo diventati prede del freddo calcolo, votati alla pura efficienza? Non credo sia tutta colpa del dominio della tecnica, giacché la tecnica -per definizione- si candida a fornire surrogati, che possiamo o meno ritenere adeguati, ma non elimina nulla, neppure i riti, piuttosto li reinventa. La tecnica, ad esempio, non ha “ucciso Dio”, si è “fatta Dio”. Lo ha rimpiazzato, non eliminato.

E allora perché non si è trovata una forma, un modo per tener vivo il rito funebre? Credo il problema abbia più a che fare con la questione della performance, ossia con il fatto che le nostre società siano votate alla produttività e al consumo senza sosta. Qualsiasi cosa impedisca all’immensa ruota per criceti in cui siamo intrappolati di continuare a girare va eliminata. Il pensiero della morte, la vibrante consapevolezza di una fine inevitabile svela tutta l’insensatezza di una vita dedicata al produci-consuma-crepa, evidenziando con devastante chiarezza che il tempo speso a produrre oggetti privi di valore, a svolgere lavori svuotati di senso, ad arricchirsi senza sapere o poter godere di nulla di ciò che davvero conta è tempo perso. Tenere in vita l’idea della morte curandosi del lutto collettivo non conviene, quindi, a un’altra delle divinità contemporanee: il Mercato.

 

    L’attuale ostentazione di distacco clinico e il desiderio di sterilizzare la morte non emergono, improvvisi, dalla crisi pandemica. Sono il prodotto di una società che afferma la sua presunta superiorità su quelle del passato dichiarando di essere orientata secondo criteri puramente razionali, legati al freddo calcolo, alla convenienza, senza farsi prendere dalle emozioni, senza mai perdere lucidità. Ma, così come la brevità è cosa diversa dalla sintesi, essere razionali è cosa diversa dall’essere lucidi. Uno straordinario momento di lucidità, d’improvvisa e piena comprensione, può portare al panico. Eppure il panico è anche un evento irrazionale, giacché frutto di pre-occupazione, di un’anticipazione o, comunque, dell’angoscia per qualcosa che non ha a che fare con un imminente pericolo. La storia della parola “lucido” racconta di una tensione verso la luce che ambisce alla chiarezza della visione. La storia della parola “razionale” rimanda al calcolo, al pensiero computazionale. Chi ripone la sua fede assoluta nel pensiero razionale per stabilire quali scelte sia opportuno compiere si affida, in molti sensi, allo stesso “pensiero magico” che tanto denigra. Vale a dire che spera che la forza della sua fede nella razionalità renda razionali, per magia, le cose e gli esseri del cosmo, quando è palese che tutto è preda di vicende, impulsi, desideri, circostanze irrazionali e caotiche, in cui i rapporti di causa-effetto non sono sempre visibili o comprensibili.

 

    Dire che “bisogna essere razionali”, e quindi accettare che le persone muoiano di morte orribile, completamente sole, sapendo che nessuno onorerà il rito del saluto, del racconto, significa chiudere gli occhi di fronte a una necessità oggettiva della nostra specie, inscritta nella sua storia, nella sua antropologia e nell’inconscio collettivo. Non si tratta di una soluzione lucida e dell’unica possibile per evitare la diffusione del contagio; si tratta di una decisione facile, efficiente, poco impegnativa, con un ottimo rapporto costi-benefici, a patto di calcolare nella colonna dei costi unicamente quelli materiali. Una decisione masochistica che, oggi, pochi sembrano riconoscere nella sua ferocia solo in virtù di un’illusione di necessità. Del resto, dobbiamo combattere una morte virale, che ci importa della morte per crepacuore? Cosa conta la tenuta psichica delle persone o le loro esigenze emotive, spirituali? Tutti problemi di terz’ordine, se confrontati, che so, agli interessi economici che hanno sostenuto la decisione di tenere aperte svariate attività produttive affatto essenziali.

 

    Una persona lucida non smetterebbe di tendere verso la definizione di possibili soluzioni ai problemi che si presentano, verso una maggiore chiarezza della visione complessiva; non si accontenterebbe di classificare come irrilevante, una volta e per tutte, l’esigenza di elaborare collettivamente il lutto, di intrecciare la propria mano a quella dell’amata che muore fino a sentirla scivolare via, lasciando infine libere e più sole le dita di chi resta. Non basta il mantra del “ci sono altre priorità” a dimostrare di aver fatto, davvero, tutto il possibile per rispettare il patto. Chi è davvero lucido non ha bisogno di alzare barriere, di scavare fossati tra sentimento e ragione. 

    Tutto ciò che esiste co-esiste. La realtà non si esprime quasi mai in termini di “o/o”, ma più spesso in termini di “e anche”. C’è bisogno di contenere i contagi, di evitare assembramenti; c’è bisogno di distanziamento sociale. E c’è bisogno anche di non disertare il patto sociale tra vivi e morti, di coltivare un avvicinamento emotivo, di non ignorare quella sofferenza solo perché ci pare, al momento, di seconda categoria. Tornerà invece a perseguitarci se continueremo a contare i morti come si fa con le pecore, di notte, senza fermarci a chiedere che fine abbia fatto, in tutto questo, la nostra umanità.

 

    La morte è una compagna spaventosa ma fedele. Non tradisce nessuno. Da quando per i nostri antenati divenne chiaro che questo era l’appuntamento cui nessuno poteva mancare e che lo strazio del distacco aveva bisogno di attenzione e raccoglimento, di essere visto e riconosciuto, ogni società umana ha ideato le sue strategie  di elaborazione del lutto.

Oggi, la definizione della società che ci apprestiamo a ricostruire, al termine di questo eccezionale momento storico, passa anche dalla qualità della nostra reazione ai colpi inferti all’anima del mondo oltre che alla sua economia.

 

 

 

Anna Coluccino, autrice e insegnante, ha 39 anni e vive in provincia di Torino, è originaria di Avellino.

 

 

 

 

 

2 pensieri riguardo “. . . Sotto l’ombra di un bel fior

  • 19/04/2020 in 7:06 pm
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    Il mio pensiero concretizzato con parole di ineguagliabile bellezza, grazie.

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    • 19/04/2020 in 7:30 pm
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      Grazie infinite.

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