L’epidemia, i migranti, gli untori

Rappresentazioni dello straniero durante l’emergenza di coronavirus

 

Di Giovanni d’Ambrosio

 

Il motoscafo entra nel porto di Lampedusa intorno alle 23 di domenica 16 febbraio. A bordo ci sono sedici persone. Si tratta di quattro famiglie libiche, in fuga dalla guerra. Oltre alle forze dell’ordine, ad attenderli al molo c’è una troupe di Rete4 che si avvicina, chiede in inglese da dove arrivano, quanti sono. «Arriviamo dalla Libia, siamo in sedici, tutte famiglie», risponde sorridente l’unico tra i nuovi arrivati che mastica un po’ di inglese. Non sa che il giorno dopo, assieme alle altre famiglie, sul programma “Quarta Repubblica”, saranno tra i protagonisti di un programma sull’emergente epidemia di coronavirus in Italia. Il titolo del servizio che li riguarda è Coronavirus. Il pericolo che arrivi con gli sbarchi”. All’epoca era stato segnalato solo un caso di coronavirus in Egitto e gli “sbarchi”, come pretende il lessico dell’invasione, sono rari, a causa delle condizioni meteo spesso sfavorevoli per le traversate in questo periodo dell’anno. Alcuni abitanti di Lampedusa vengono intervistati dalla giornalista che chiede quali siano le procedure di controllo sanitario. «Quali controlli?», risponde qualcuno. «Se la malattia arriva in Africa siamo tutti morti», dice qualcun altro. Lampedusa è un paese piccolo, la sera in molti parlano del servizio. Secondo questo tipo di rappresentazioni, l’Africa è spesso rappresentata come la culla di malattie misteriose e letali, scomparse nella civile e addomesticata Europa. La sensazione di pericolo è incrementata dagli interventi degli ospiti in studio e dal servizio successivo: migranti con la tubercolosi che «lasciano, o meglio scappano», come affermano nel servizio, i centri di accoglienza. Intanto il centro di prima accoglienza di contrada “Imbriacola” di Lampedusa accoglie in quei giorni poco meno di un centinaio di migranti. Spesso escono, vanno in paese per chiedere informazioni o comunicare con le loro famiglie, dir loro che ce l’hanno fatta, che sono arrivati. Fuori dall’ufficio di Mediterranean Hope, un programma per migranti e rifugiati della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, si formano spesso gruppetti di persone intenti a parlare concitati in lingue sconosciute. Una macchina anonima si ferma di fronte all’ufficio, dal finestrino la voce di un uomo grida in direzione degli operatori «Non potete tenerli qua, ci attaccano le malattie!».

      Si instaura l’equazione tra migranti e malattie. Tra il ritorno di patologie mortali, sconosciute, e gli sbarchi. Insomma, si identifica la minaccia: lo straniero untore. Nelle prime fasi della diffusione dell’epidemia in Italia abbiamo assistito allo sforzo di rafforzare questi nessi sfruttando una rappresentazione già esistente nel senso comune. Il migrante descritto come agente diffusore del morbo non è infatti un’immagine emersa solo nell’Italia alle prese con il coronavirus, ma è uno stereotipo che non ha perso, negli anni, nessuna possibile occasione per manifestarsi, alimentato dalla narrazione delle destre.

        Nel febbraio 2014 scoppia in Africa Occidentale una grave epidemia di ebola. Non passa molto tempo che i giornali sovranisti nostrani, insieme con esponenti di spicco della destra, lanciano l’allarme. IlGiornale.it, il 17 aprile dello stesso anno, pubblica un articolo dal titolo esplicito: «Ebola e Tbc sbarcano con gli immigrati». Nell’articolo si ammettono le basse probabilità di una diffusione del contagio in Italia, ma il pericolo potrebbe arrivare da un’altra patologia «praticamente debellata negli anni Ottanta, per poi tornare a crescere», la tubercolosi. Ovviamente le cause del supposto aumento sarebbero «la crescente immigrazione da paesi ad alta epidemia». I dati esposti da IlGiornale.it sono ovviamente smentiti dai report pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità[1] sulla situazione delle malattie infettive in Italia, ma qui, come spesso accade, la rappresentazione della realtà conta più della realtà stessa. Matteo Salvini lo stesso anno affida a Facebook numerose sue dichiarazioni in cui mette in guardia dal pericolo costituito dai continui sbarchi in Italia di persone provenienti dall’Africa. Ne cito solo uno, del 17 settembre, a titolo d’esempio: «Migliaia di morti in Africa per EBOLA. L’Europa se ne frega, ma gli sbarchi di clandestini hanno già riportato in Italia TUBERCOLOSI e SCABBIA… fermare Mare Nostrum e difendere i confini, prima che l’epidemia inizi a UCCIDERE anche in casa nostra!». Anche la scelta delle parole in maiuscolo è indicativa: ebola, tubercolosi, scabbia, uccidere. Semplice. Nel tentativo, probabilmente, di rispondere al diffondersi di mistificazioni simili, l’UNHCR in collaborazione con Open Migration pubblica un articolo in cui smentiscono l’intreccio strumentale e causale tra malattie e flussi migratori. «Associare l’arrivo dei migranti e dei rifugiati al ritorno di malattie sconosciute o debellate è una storia che fa sempre parecchia presa sulla popolazione», scrive l’autrice Claudia Torrisi[2]. Di fatto questa impropria associazione esiste e può essere riassunta con le parole dell’uomo nell’auto a Lampedusa: «gli immigrati ci portano le malattie». Espressione perfettamente descritta da una vignetta recentemente pubblicata di un “disegnatore sovranista” in cui è ritratto un gommone carico di persone nere, tutti uomini. Uno di questi al posto della testa ha una rappresentazione grafica del virus, mentre in lontananza si vede la prua di una nave ONG che, con tanto di bandiera rossa, nel fumetto afferma: «Un attimo! Ora vi portiamo in Italia!»[3].

       Torniamo ad oggi. Anche in questa occasione, nelle prime fasi dell’epidemia di coronavirus gli stranieri siano stati oggetto di una iper-esposizione mediatica. I primi ha subirne le conseguenze sono stati gli appartenenti alla comunità cinese in Italia, o chiunque fosse anche solo assimilabile fisiognomicamente a quell’area geografica. A Napoli, Roma, Torino e in altre città della penisola è un susseguirsi di aggressioni, violenze rivolte al diffusore del morbo, al nemico. Ma su quale base si forma il pregiudizio che associa gli stranieri alla diffusione delle malattie? L’untore della contemporaneità non sembra essere troppo diverso dalle descrizioni di passate epidemie. In un saggio di Giulia Calvi sulla peste a Napoli del 1656 emergono le caratteristiche tipiche sui cui si costruisce il mito ricorrente del diffusore del morbo. Egli spesso è legato allo spazio minaccioso della mobilità, è una persona che vive negli angoli bui, negli interstizi della città e del corpo sociale. Il perfetto untore è associato a un immaginario sociale le cui caratteristiche sono la sporcizia, l’impurità, la mobilità. Sono accusati i soldati stranieri, le donne, i vagabondi, i venditori ambulanti, i forestieri, i sovversivi. Nelle ultime fasi dell’epidemia a Napoli, una cronaca dell’epoca riportata nel testo dall’autrice, descrive infatti che tutti «li forestieri che non vestono alla spagnola vivono in una grandissima inquietudine». L’autrice definisce astorico il comportamento sociale e le strategie di governo durante un’epidemia. Spesso infatti accade di riscontrare caratteristiche simili in epoche e luoghi distinti. L’individuazione di un nemico responsabile della diffusione del morbo assume su di sé due importanti compiti: in primis si tende a identificare il problema intorno alle origini dell’epidemia come fatto proveniente dall’esterno della comunità e non dall’interno. Questa tendenza deriva probabilmente dalla percezione secondo cui le epidemie siano un qualcosa portato da fuori. In secondo luogo, per combattere le spinte disgreganti che si scatenano durante un fenomeno epidemico, si cerca di canalizzare la rabbia sociale nei confronti dell’untore, della minaccia, del nemico. Ovviamente non è mio interesse proporre parallelismi storici azzardati, ma semplicemente mettere in risalto una certa rappresentazione dello straniero che oggi, ai giorni dell’epidemia, si mostra ai nostri occhi nella sua evidenza. Nell’Italia alle prese con l’emergenza costituita dall’epidemia di coronavirus, il migrante, lo straniero per eccellenza nella nostra storia politica recente, emerge come il perfetto untore della contemporaneità.

       Non stupiscono quindi le dichiarazioni del governatore leghista del Veneto Zaia, che su un canale televisivo locale accusa i cinesi: «Mangiano topi vivi», dice. È un dato di fatto, prosegue nell’intervista, senza bisogno di giustificazione alcuna, che i cinesi non abbiano la stessa «cultura dell’igiene» dei veneti e, per estensione, degli italiani. Non stupisce, ancora, che ai naufraghi salvati dall’Ocean Viking e dalla Sea-Watch 3 sia stata imposta la quarantena preventiva di 14 giorni una volta sbarcati nei rispettivi porti assegnati dalle autorità. «Un eccesso di precauzione», dice in un’intervista sempre a Quarta Repubblica il sindaco di Pozzallo, per evitare preoccupazioni alla popolazione inquieta a causa del pericolo del contagio proveniente dall’Africa. Quell’eccesso di precauzione non è stato adottato nei confronti di nessun’altra imbarcazione, turistica o commerciale, entrata nei porti italiani nel periodo subito precedente o successivo alle misure adottate per le navi impegnate in operazioni SAR – Search and Rescue.

       Quanto scritto finora si riferisce al prima. Prima che iniziassero le restrizioni alla mobilità all’estero e poi su tutto il territorio nazionale. Prima che iniziassimo a subire sui nostri corpi le conseguenze dell’epidemia. Prima di renderci conto che il nemico – per usare il lessico guerrafondaio in voga nella lotta contro l’epidemia – era interno alla comunità nazionale e non esterno. Mentre scrivo, la Alan Kurdi, nave dell’ONG tedesca Sea-eye, ha salvato nel Mediterraneo centrale circa 150 naufraghi provenienti dalla Libia e aspetta l’assegnazione di un porto sicuro dove concludere le operazioni di soccorso. Pochi giorni fa è stato pubblicato un articolo su La Stampa in cui l’autore commenta la partenza della nave dal porto spagnolo in cui era ormeggiata e l’invio dalla Farnesina al ministero degli esteri tedesco di una “nota verbale” in cui si afferma che l’Italia, essendo alle prese con l’emergenza di coronavirus, «non è in grado di farsi carico delle azioni della “Alan Kurdi”». Le motivazioni esposte a giustificazione di questa presa di posizione sono varie. Le strutture sanitarie, già al collasso, non riuscirebbero a farsi carico anche dei migranti approdati. Poi, le forze dell’ordine, indaffarate nei pattugliamenti e controlli per far rispettare le misure di distanziamento sociale, verrebbero impegnate e distratte nelle operazioni di sbarco dei migranti. Inoltre, una volta scesi a terra, i migranti dovrebbero passare un periodo di quarantena in edifici che potrebbero essere adibiti ad altri più nobili scopi. Infine, l’articolo evidenzia che «Nel pieno di una emergenza, con un Paese sull’orlo della crisi di nervi, lo sbarco di qualche centinaia di migranti in Sicilia o a Lampedusa rischia di trasformarsi nel detonatore di un’esplosione di rabbia incontrollata»[4].

       In seguito alla diffusione della malattia su tutto il territorio nazionale, individuare chi sia il responsabile dell’aumento dei contagi è diventato via via più difficile. Dal momento che l’untore può essere chiunque diventa più complesso distinguerlo dalla massa dei cittadini “decorosi”. Inizialmente indicato come minaccia per la salute pubblica perché associato a un immaginario sociale legato all’ambito della mobilità, della sporcizia, dell’incuria, dell’impurità, negli ultimi giorni si assiste a un leggero riadattamento del discorso che riguarda lo straniero rispetto al mutamento del contesto. Se egli è più difficilmente accusabile di essere responsabile della malattia, rimane l’evergreen: il migrante è un pericolo per la sicurezza pubblica. Egli continua a essere indicato come minaccia all’integrità di un corpo sociale descritto come gravemente ferito, intento a leccarsi le ferite e impossibilitato a farsi carico di altri – comunque potenzialmente malati perché arrivano dall’Africa. Lo straniero, sebbene non più causa della diffusione del virus, diventa veicolo di un’infezione sociale di pari gravità che lo Stato, in un momento di debolezza come quello attuale, non riesce a contrastare. In altre parole, mentre il corpo fisico è sostituito dal corpo sociale, il migrante resta la causa della malattia. L’immaginario precedente non è quindi completamente sostituito o eliminato, ma integrato da nuove parole e politiche. L’8 aprile, il Ministero delle Infrastrutture, insieme con il ministero degli Esteri, degli Interni e della Salute, ha provveduto a firmare un nuovo decreto in cui si afferma che in Italia, a causa dell’emergenza e fino alla fine di essa, i porti «non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di Place of Safety (“luogo sicuro”) […] per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area SAR italiana». L’ultima frase sembra descrivere esattamente la situazione che sta vivendo la Alan Kurdi, che si trova in acque internazionali di competenza SAR maltese, e sta chiedendo dal primo salvataggio l’assegnazione di un porto sicuro.

       Chi governa, così come l’autore dell’articolo de La Stampa, probabilmente pensa che un aumento degli arrivi dalla Libia possa innescare qualche tipo di risentimento popolare. Torna il mito dello straniero untore, che ci porta le malattie. Caratteristica che fa parte di un immaginario ben più ampio e complesso da cui si alimenta il discorso razzista contemporaneo. In tutti i casi, il migrante è una minaccia all’integrità del corpo sociale, e come tale bisogna escluderlo, monitorarlo, seguirlo, detenerlo. Includerlo ed escluderlo allo stesso tempo. Riepilogando, i motivi individuati che giustificano questa accusa sono tre. In un momento iniziale lo straniero è considerato il vettore della diffusione del morbo. Quand’anche i fatti tentino di negare questa affermazione, il pregiudizio rimane, come dimostra la decisione del sindaco di Nettuno (Roma) di impedire il trasferimento di alcune decine di migranti da un centro di accoglienza della Capitale, in cui un ospite era stato diagnosticato positivo al virus, al suo Comune. Oppure la decisione di dichiarare i porti italiani “non sicuri”. Lo straniero appena sbarcato, inoltre, può anche essere identificato come un peso insostenibile per un sistema sanitario sotto pressione. Infine, lo straniero è un pericolo perché potrebbe innescare la rabbia popolare ed essere la causa disgregante di un corpo nazionale che rischia di implodere a causa delle sue contraddizioni.

       Intorno a Lampedusa il mare è tornato calmo. È insieme alle onde basse sono tornati anche gli arrivi di persone provenienti dalla Libia e dalla Tunisia. In meno di 24 ore circa 150 persone sono approdate autonomamente sull’isola. Oggi, 8 aprile, alcuni abitanti hanno iniziato a innervosirsi, si sente un uomo urlare di fronte al palazzo del Comune. Si crea un assembramento di circa un centinaio di persone, in deroga a qualsiasi tipo di decreto. Vogliono che i migranti abbandonati sul molo Favarolo in attesa del trasferimento in Sicilia siano mandati via al più presto. «Ci fanno morire tutti», «è una vergogna, noi siamo chiusi in casa e questi continuano ad arrivare!», gridano entrando in panetteria. Un uomo in mezzo alla folla dice «Ma sono umani, come noi!». Il suo accento è straniero, lo insultano «che vuole questo spagnolo», sento dire a qualcuno. Un agente della finanza lo fa allontanare. Non sono ovviamente tutti, ma solo alcuni degli abitanti di un’isola che spesso si è dimostrata accogliente e solidale. Probabilmente gli arrivi dall’Africa con la bella stagione aumenteranno, probabilmente i pregiudizi stratificati negli anni e continuamente riadattati al contesto giustificheranno misure più restrittive verso la popolazione straniera in Italia. Probabilmente oggi a Lampedusa, nonostante il sole, era un buon giorno per restarsene a casa.


Giovanni D’Ambrosio è studente, ha 25 anni e vive a Torino



[1] https://www.epicentro.iss.it/tubercolosi/TubercolosiItalia

[2] https://www.unhcr.it/risorse/carta-di-roma/fact-checking/rifugiati-salute-dalla-tbc-alla-scabbia-dati-smentiscono-gli-allarmi-infondati.

[3] https://alfiokrancic.com/2020/02/14/primo-caso-di-coronavirus-in-africa/

[4] https://www.lastampa.it/politica/2020/04/03/news/torna-in-mare-la-nave-alan-kurdi-della-ong-tedesca-sea-eye-l-italia-alla-germania-gestitela-voi-1.38673252

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