L’Ordine dei Pensieri

di Ginevra Anastasia Caponi

 

    Per persone simili a me, concedersi delle passeggiate e toccare gli esseri umani non è un lusso, ma piuttosto una necessità. Si potrebbe replicare che è una necessità per tutti, ed effettivamente credo che lo sia, ma voglio spiegarvi perché lo è per me. Nel mio caso infatti si tratta spesso di un lavoro, a volte involontario, ma necessario per guadagnare il mio mantenimento psicofisico. E come tutti i lavori al momento in difficoltà, anche questo soffre gravi conseguenze.

    Sono una persona abbastanza attiva, ho diversi progetti in atto, vado all’università, mi piace socializzare e ascoltare le storie degli esseri umani che mi circondano. Eppure, capita che io non mi muova dal letto per ore. È come se ogni mattina dovessi affrontare una scelta che sono cosciente cambierà radicalmente l’andamento della giornata: sforzarmi dopo una nottata di sonno scarso, non restare bloccata nei miei pensieri ossessivi e alzarmi per affrontare quell’ansia che andrà via solo se mi concentro su altro, oppure restare immobile nel letto sapendo già che mi sentirò scombussolata fino a sera. Soffro di un disturbo ossessivo compulsivo. Il DOC in genere si manifesta in vari modi; i più comuni sono un bisogno compulsivo (appunto) di pulire ogni superficie esistente, lavarsi le mani un’infinita quantità di volte, riorganizzare, controllare di aver spento il forno ecc. Per spiegare in parole povere questo meccanismo, direi che tendenzialmente entrano in gioco schemi molto forti di colpa e responsabilità. 

    “Se non pulisco questa superficie potrebbero esservi dei germi, potrei contaminarmi, potrei morire, o peggio ancora potrei contaminare qualcun altro e la mia colpa non verrebbe mai espiata, e sarei un essere deplorevole”. In questo caso, una persona vive tutti i giorni ciò che alcuni stanno vivendo adesso temporaneamente nel periodo circoscritto dell’epidemia di Covid19. Qualcun altro pensa “se non organizzo queste cose in maniera simmetrica, la mia famiglia subirà una catastrofe”. E il punto è che il corpo comincia a credere a questi rituali e a questi pensieri, generando quindi uno stato d’ansia che porta l’individuo a formulare un pensiero estremamente importante per la comprensione di questo disturbo: “se sento quest’ansia, vuol dire che tutto ciò è vero – le emozioni che provo sono troppo forti per essere sbagliate”. 

    Una delle terapie principali messe in atto per curare questo disturbo si chiama Esposizione e Prevenzione della Risposta, secondo la quale l’individuo affetto da DOC si dovrebbe esporre a quest’ansia evitando di completare la compulsione, la quale altrimenti lo porterebbe ad un senso di tranquillità troppo breve che in realtà finirebbe per accrescere proprio quell’ansia – infatti ci sarà sempre un millimetro fuori posto o quella polverina di troppo illuminata da un raggio di sole.

 

    La mia forma di DOC è un po’ diversa, è estremamente interiorizzata, riguarda il modo in cui organizzo il mio pensiero e il modo in cui immagino. Se penso a qualcosa, poco dopo divento una sorta di Digos del mio stesso pensiero. Mi chiedo subito: “ho pensato questa parola, o quest’altra?”, poiché (secondo il mio schema fortemente problematico) una parola implica che io sia una tale persona oppure un’altra. Mi chiedo: “quale pensiero ho generato prima, questo o quell’altro?”, schema che generalmente si conclude con “il mio primo pensiero era negativo, di conseguenza sono una persona orribile, immeritevole”. Il punto è che, finché non trovo una risposta, non posso fare nessuna cosa di quelle che devo fare. O meglio, posso, ma ancora non riesco. Quindi, se ciò mi accade la mattina mentre sono a letto, in procinto di cominciare la giornata, non riesco ad alzarmi. È imperativo restare nel letto immobile a ripercorrere tutto il mio pensiero per trovare la risposta. Credo sia chiaro a tutti che la risposta non c’è, perché il cervello umano è troppo veloce per tracciare ogni parola che genera.

    Come combatto tutto ciò? Terapia cognitivo-comportamentale, farmaci, affetti splendidi. Eppure non basta, è una lotta che conduco ogni giorno da anni, e non smette di essere difficile. Quindi, per me è fondamentale avere un minimo di impegni che mi obblighino ad uscire di casa e a interagire con gli esseri umani. 

    In assenza di queste possibilità, allo stato vivo nella mia testa, tantissimo. Ogni videochiamata Skype per me è conforto e sofferenza allo stesso tempo. Conforto, perché comunico con qualcuno; sofferenza, perché sono già disabituata e non ce la faccio a mantenere l’ordine di tutto ciò che penso mentre ascolto gli altri. Avvertimento: l’obiettivo non è mantenere l’ordine, ma dimenticarsi che ci sia un ordine da mantenere, accettare che l’ordine non c’è e coltivare ciò che invece è rilevante nella mia vita; ma entrando in isolamento il mio cervello è tornato ai suoi problematici meccanismi. Ciò vuol dire che mentre interagisco virtualmente, a un certo punto mi impallo, comincio a sentire ansia: non ho capito esattamente cosa abbia detto l’altra persona e mi sembra fondamentale cogliere proprio quella parola saltata nel malfunzionamento di Skype; perciò costringo il mio interlocutore a ripetere daccapo tutta la frase più volte (con la scusa di una scadente connessione) –  non sia mai che io mi sia persa un “ma”, il ma è avversativo… e sapere se l’altro abbia usato un avversativo o un congiuntivo diventa per me motivo di pazzia. Divento ipervigilante su ogni sguardo di chi mi sta di fronte, cerco di capire cosa pensi mentre parlo, le sue reazioni a quello che dico, o se un modo in cui sorrido mi fa sembrare falsa, e così via. Scrivo tutto questo un’ora dopo l’ultima chiamata Skype, in cui ad un certo punto mi sono mossa gesticolando in maniera strana e ancora ci penso, ancora mi chiedo se delle cose che ho detto abbiano mostrato mancanza di umiltà e arroganza, ed è un pensiero che non riesco a togliermi di dosso perché risolverlo mi sembra vitale ed urgente, non riesco a pensare con tranquillità di potermi dedicare ad una lettura o allo studio, anche se spesso, pur con una sensazione quasi paralizzante, è ciò che cerco di fare.

    Qualche settimana fa non ero in queste condizioni. Il che non vuol dire che la quarantena annulli ogni mio progresso, o che io non sappia stare da sola. La quarantena è anche un modo di confrontarmi e di mettermi alla prova quando ci siamo solamente il mio specchio ed io, a mia volta specchio dei miei stessi pensieri – ma è una situazione estrema. È ormai qualche settimana che tento di dedicarmi ai progetti che amo, eppure ci riesco a malapena, pur sapendo che se ciò mi fosse accaduto prima di aver cominciato la terapia sarei stata molto peggio. Ci tengo a precisare che non sono neanche una che si strafoga di impegni e di lavori per non pensare. Io di tempo da sola ne passo anche tanto, ma credo che questo sia troppo. Vivere nella mia testa significa seguire degli schemi interpretativi che il mio disturbo ha creato tanto tempo fa e che tento di sradicare.

 

Perfezione e Confronto

 

    Il DOC si lega molto alla ricerca di un obiettivo: la perfezione, qualunque sia il campo colpito. È così che ogni pensiero può diventare per me indice dell’essere una persona sbagliata: regolo il mio valore in base a ciò che mi passa per la testa. Regolo il mio valore anche in base alle poche interazioni che ho al momento. Interazioni che in realtà non sono neanche così poche, sono molteplici ma telefoniche. Per chi soffre di DOC le telefonate sono utili per non diventare totalmente pazzi, ma non possono essere sostitutive in alcun modo della vita che dovremmo vivere all’esterno. Stare tanto al telefono implica due punti fondamentali. Prima di tutto le telefonate hanno un inizio e una fine che si può scegliere, ovvero, se alla fine di una telefonata mi ossessiono sul suo contenuto, posso temporeggiare prima della telefonata successiva, e quindi ho tantissimo tempo per continuare le mie compulsioni. Ciò avviene perché l’impostazione delle interazioni schematizzate in telefonate è ben diversa dall’impostazione di una giornata tipo, in cui varie parti e diversi momenti confluiscono tra loro fuori dal nostro totale controllo. Tecnicamente, ora è invece tutto sotto il mio controllo – e questo non rispecchia la vita reale, creando grandi problemi per il mio progresso personale, perché tento ancora di più di dettare al mio cervello ciò che è giusto o che è sbagliato. In secondo luogo, per le persone affette da disturbo ossessivo compulsivo, fomentare quel ciclo di click e aperture di finestre in formato tecnologico può diventare di per sé una compulsione, considerata l’elevata misura in cui telefono e computer possono creare dipendenza.

    Dopo la maggior parte delle mie chiamate in queste giornate, spesso ho un bisogno impellente di scrivere alla persona con cui ho appena parlato per chiederle cosa abbia capito di una certa cosa che ho detto o che ha detto lei, e così via, per una paura estrema, aumentata in queste poche settimane, di essere sbagliata, o ritenuta colpevole di qualcosa. La perfezione quindi diventa un’ideale nuovamente alla portata, un’ideale che con la mia terapia e l’esposizione in società tento di allontanare, così come tento di osservare i miei errori e di andare avanti, di accettare le mie imperfezioni sapendo che tutto sommato non contano così tanto nello schema universale delle cose. In questo momento invece, il centro del mondo sono io. E questo piedistallo non mi piace, ci sto scomoda, perché trovo le mie imperfezioni ovunque.

    Il problema può essere riassunto in poche parole: non ce la faccio più, ma allo stesso tempo ho paura del momento in cui dovrò di nuovo interagire seriamente con le persone, e in cui dovrò espormi a momenti scomodi che accadono fuori dalle mura di casa mia. Ora il mio riparo e la mia prigione sono lo stesso luogo. E non sembro l’unica a viverla così. Sto conducendo delle interviste a distanza per chi soffre di patologie soggette ad un supporto limitato a causa dell’emergenza del Covid19 e la conseguente ridotta disponibilità delle strutture sanitarie. Le patologie di queste persone sono varie, fisiche e psicologiche. Una ragazza che soffre di episodi depressivi collegati ad eventi traumatici mi ha parlato di quanto sia fondamentale per lei quell’ora d’aria che cerca di concedersi ogni giorno. Allo stesso tempo mi ha confessato di averla già saltata più volte. Non ha più voglia di uscire di casa, e per quanto triste, questo mi sembra del tutto prevedibile: più sta in casa, meno una persona depressa ha voglia di uscire, perché entra in un circolo esistenziale ben più forte della realtà. Un’altra ragazza che ho intervistato soffre di un disturbo dissociativo, e ha delle paure simili alle mie. In casa si sente alienata e non percepisce la realtà di ciò che ha intorno, ma ha anche paura di “tornare al mondo” perché ogni stimolo esterno sarà più difficile da processare.

 

    L’ansia da perfezione, che derivi da una paura di essere rifiutati, colpevolizzati, abbandonati, giudicati, e chi più ne ha più ne metta, può essere combattuta solo con il confronto. Un confronto che è ben importante distinguere dal paragone. Trovarsi in casa soli in questo periodo ha i suoi pregi e difetti, e mi sento sicuramente privilegiata ad avere ampio spazio per me, ma allo stesso tempo ho bisogno di un contatto. O meglio, ho paura di non averne più bisogno, quindi mi sono messa alla prova ospitando una mia amica per 24 ore. 

    È successo esattamente quello che temevo: la paura del confronto è uscita fuori nelle forme problematiche del mio disturbo. Ho cominciato a perdermi tra le mie varie insicurezze, mi sono sentita inferiore all’altra e ho tentato di nasconderlo, diventando disfunzionale e non riuscendo a comunicare le emozioni. In un confronto reale e non telematico, la possibilità di scappare davanti alle proprie insicurezze è estremamente ridotta. In quelle 24 ore la perfezione che ho tanto cercato in queste settimane è crollata davanti ai miei occhi, facendomi sentire socialmente sbagliata in ogni atomo. Ricomincio, stavolta tentando di accettare che i pensieri sono in disordine e che va bene così.

 

 

Ginevra Anastasia Caponi è studentessa di Antropologia Sociale ed Etnologia; ha 21 anni e vive a Parigi.

5 pensieri riguardo “L’ordine dei pensieri

  • 08/04/2020 in 11:51 pm
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    Grazie per aver condiviso le tue riflessioni. Mi colpisce molto quello che scrivi, anche perché è raro trovare un racconto dell’esperienza soggettiva di quest’emergenza. Ultimamente pare che ogni discorso a riguardo debba essere fatto in termini generali, astratti, riducendo sempre l’umanità a un aggregato statistico. La soggettività e le differenze sembrano bandite. Forse perché nei dati, nei numeri, nelle misure (in tutti i sensi) si spera di trovare qualche certezza – speranza vana e un po’ ingenua. Forse perché, proprio come scrivi tu, in questo momento ognuno di noi è costretto a confrontarsi con la propria complessità e fragilità, ovvero la propria umanità, e questo ci è insopportabile.
    Lo trovo un gesto di grande coraggio e generosità, offrire così il tuo sguardo e la tua esperienza, che pur essendo unica fa riflettere molto più a fondo sulla condizione attuale di qualsiasi considerazione generale. Stiamo soffrendo tutti, in un modo o nell’altro, ma si tende a evitare la questione. Invece questa è la prima cosa che ci accomuna come esseri umani e riconoscerlo non è mai stato così urgente come oggi.

    Mi hai richiamato un’immagine molto bella, di Edgar Morin: “mais vivre, c’est naviguer dans une mer d’incertitudes, à travers des îlots et des archipels de certitudes sur lesquels on se ravitaille…” Su queste note, ti auguro buona navigazione 🙂

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    • 09/04/2020 in 10:58 am
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      Michele, grazie di cuore per le tue parole. Hai colto ciò che ho tentato di fare – tentare di ritrovare un’universalità nella particolarità stessa. Penso sia importante riconoscere che tutti possono soffrire in questo momento, ma talvolta la generalizzazione tende a banalizzare la condizione del singolo e a far perdere un’opportunità di confronto (di cui tanto parlo). Edgar Morin lo conosco poco, ma la citazione che hai riportato fa risuonare tanti echi in me. Approfondirò i suoi testi, grazie mille! 🙂

      Risposta
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