Ammalarsi, dove?

L’Italia delle disuguaglianze sanitarie

Di Domenico Cersosimo

 

L’Italia è già cambiata

“Nulla sarà come prima” è il mantra palingenetico di questi giorni cupi di coronavirus. Quante volte l’abbiamo già sentito e letto, l’ultima solo un decennio fa, all’incedere della grande depressione provocata dal turbo-capitalismo finanziario, ma sappiamo come è andata a finire: non stiamo più come prima, anzi per molti aspetti stiamo collettivamente peggio di prima.

Nell’attesa messianica che tutto cambi, pare opportuno cominciare a effettuare alcune prime arature del cambiamento possibile a partire dallo stato delle cose attuali, per provare così a capire quanto profonda dovrà essere la trasformazione, ma anche dove il cambiamento dovrà essere più profondo. Interessandosi – e preoccupandosi – contemporaneamente, come suggerisce Carmine Donzelli, sia delle aree dove “il virus ha attecchito prima e più fortemente”, sia dei territori “ancora poco investiti dall’onda del contagio, di cui si teme l’indifendibilità, proprio a causa dell’inefficienza e dell’insufficienza dei presidi”. La realtà infatti non è in quarantena, anzi mostra nuove faglie di iniquità e di disuguaglianze sociali e territoriali determinate dal virus, e già oggi il nostro paese non è più come prima che il morbo si diffondesse.

Sotto il profilo della rappresentazione collettiva, ad esempio, è già molto cambiata la percezione comune della sanità lombarda: a lungo raffigurata, dalle classi dirigenti nazionali e regionali e dalla stampa dominante, come il sistema di cura idealtipico italiano e dell’eccellenza gestionale, alla prova del Covid-19 appare oggi piuttosto come un sistema vulnerabile e inadeguato a far fronte all’emergenza sanitaria e sociale, meno resiliente e efficace di altri sistemi regionali percepiti nel passato come subottimali. Senza il filtro di presidi sanitari diffusi nel territorio e la vigilanza attiva dei medici di base, gli ammalati non hanno che potuto sovraccaricare gli ospedali di ricoveri spesso inappropriati, indebolendone le capacità di risposta ai bisogni sanitari ordinari e ancor più trasfigurandoli in vettori letali di diffusione del virus. L’evidente insuccesso del sistema lombardo, nonostante i suoi ospedali all’avanguardia tecnologica e tecnica e la qualità professionale e umana dei medici e del personale sanitario, ci costringe oggi, non domani, a ripensare profondamente il modello organizzativo della tutela attiva della salute.

Oggi è molto più chiara l’inadeguatezza di sistemi basati sulla cura dei ricoverati in poche grandi strutture a discapito della prevenzione e della medicina territoriale, tanto più se squilibrati verso strutture private, come nel caso lombardo, che prediligono evidentemente le città più grandi e le attività di cura più redditizie, non certamente le aree periferiche, né tantomeno i posti letto di terapia intensiva.

La drammatica crisi sanitaria di questi mesi ha già dimostrato le tragiche conseguenze del prolungato disinvestimento nella sanità pubblica, per di più in anni di crescita della domanda di cura legate all’invecchiamento demografico e alla diffusione di nuovi farmaci e nuove tecniche diagnostiche e d’intervento. Senza strutture e attrezzature adeguate, senza formazione continua degli operatori, senza giovani medici e infermieri, senza aggiornamento sistematico degli apparati di prevenzione, monitoraggio e screening, senza accumulo cautelare di ausili e materiali di contenimento delle possibili epidemie (mascherine, kit per tamponi, enzimi, piattaforme di tracciamento dei contagiati e dei loro contatti), senza popolazioni opportunamente informate e istruite, la diffusione del virus si è trasformata inesorabilmente in una tragedia sociale e in collasso economico. Un’efficiente ed efficace sanità pubblica è la condizione prima per far fronte a shock da domanda e per contenere la diffusione e la mortalità delle pandemie ricorrenti, non per evitarle.

 

Un’epidemia asimmetrica

 

L’epidemia e i provvedimenti di contrasto hanno già manifestato i loro impatti sociali asimmetrici. La scelta del confinamento domestico generalizzato ha di fatto deciso a chi far pagare il costo più alto della sospensione della società: ai senza fissa dimora, ai rifugiati, ai rom, alle persone più fragili sotto il profilo psichico (come racconta Ginevra Anastasia Caponi), agli immigrati irregolari, ai lavoratori informali e sommersi, agli addetti alla consegna domiciliare di cibo e della catena alimentare, ai camionisti, agli operai di piccole imprese con rapporti di lavoro precari, a chi è intrappolato nella povertà più estrema. Sono colpiti soprattutto gli esclusi, gli invisibili, le persone senza rappresentanza, paradossalmente quelle che hanno più bisogno del funzionamento normale, attivo, della comunità e allo stesso tempo quelle che consentono l’occultamento della comunità, la sua riduzione a sconnessi alveari isolati, a-sociali. Le evidenze empiriche, per quanto ancora parziali e incomplete (Forum Disuguaglianze Diversità), mostrano altresì che ben più vulnerabili al virus sono le persone più avanti negli anni e contemporaneamente più povere, meno istruite e con pregresse malattie croniche (Costa e Schizzerotto), e le donne anziane che vivono da sole (Istituto Cattaneo). Ancora, particolarmente esposti sono gli anziani ospiti delle residenze sanitarie assistenziali, lasciati colpevolmente senza dispositivi efficaci di tutela sanitaria, anche se nella quasi totalità si tratta di ricoverati non autosufficienti; per non dire dei rischi gravissimi a cui sono sottoposti gli operatori socio-sanitari che vi lavorano (Arlotti e Ranci). Un prezzo elevatissimo lo pagheranno i giovani, letteralmente travolti da due crisi epocali in un arco di tempo ravvicinato: la grande depressione economica iniziata nel 2007, con sconquassi tuttora non assorbiti, e questa del coronavirus, insorta da qualche mese e di durata e impatti ancora indefiniti. Al contrario, meno permeabili sono i ceti dirigenti, i professionisti e la maggior parte degli impiegati pubblici (ad esclusione della maggioranza degli ospedalieri e del personale sanitario), non solo perché possono lavorare da casa o in ambienti protetti, ma anche per la loro condizione sociale e sanitaria che li rende mediamente meno vulnerabili al contagio e alle sue conseguenze più drastiche.

L’asimmetria è altrettanto evidente in riferimento alle conseguenze del Covid-19. C’è disuguaglianza nell’esposizione al virus e c’è disuguaglianza nel dopo-contagio. I sistemi sanitari, la dotazione, l’efficienza, la qualità e la resilienza delle strutture ospedaliere e non, le capacità del personale sanitario non sono uguali dappertutto. Al contrario, esistono scandalosi e insostenibili divari quanti-qualitativi tra un sistema e un altro, tra un luogo e un altro. Il diritto costituzionale di un ammalato ad essere ben curato, indipendentemente dalle condizioni economiche e dal luogo di residenza, è tutt’altro che garantito in Italia. Una cosa è ammalarsi in Toscana un’altra in Calabria, in Emilia Romagna piuttosto che in Campania. Nell’insieme, Nord e Mezzogiorno sono doppiamente disuguali: per vulnerabilità sociale alla malattia e per le conseguenze alla malattia. Che impatto avrebbe una diffusione intensa del Covid-19, o di un virus simile nel Mezzogiorno, ossia nell’area socialmente più permeabile e con strutture e assetti socio-sanitari più fragili? Con che dotazioni potrebbe contrastare la pandemia? Quali risorse materiali e umane appropriate potrebbe mobilitare per far fronte all’emergenza?

 

Mezzogiorno: un’emergenza sanitaria endemica

 

In realtà il Mezzogiorno è già in emergenza sanitaria. L’inadeguatezza strutturale è già certificata, seppure nel Sud non difetti la presenza puntiforme di strutture e operatori sanitari di assoluta qualità. La tutela ordinaria della salute dei meridionali è già meno garantita. La percezione della bassa qualità delle strutture sanitarie è già acclarata. Nel 2018, in media solo un quinto dei meridionali ricoverati ha dichiarato di essere “molto soddisfatto” dell’assistenza medica ospedaliera, contro la metà dei ricoverati al Nord (11% in Campania e 67% nel Trentino); solo poco più di un decimo dei meridionali ha manifestato la sua soddisfazione piena per i servizi igienici e per il vitto a fronte rispettivamente della metà e di un terzo degli abitanti del Nord-est; “molto soddisfatto” dell’assistenza infermieristica è solo un quarto dei meridionali contro un valore medio del 55%  circa nel Nord-est (13% in Campania e 59,5% in Trentino) (I.Stat).

La sfiducia dei meridionali nei confronti della qualità delle strutture sanitarie locali è ancor più evidente se si considera l’elevata mobilità sanitaria interregionale: nel 2017 circa 75 mila ammalati meridionali hanno preferito ricoverarsi in regime di day hospital, dunque per patologie meno complesse di quelle offerte in regime ordinario, in regioni del Centro-nord, spesso con spostamenti molto lunghi (Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana). I ricoveri in ingresso sono risultati appena 25 mila per cui il saldo netto a sfavore del Mezzogiorno è stato di circa 50 mila ricoveri. A parte le regioni più piccole, che evidenziano una certa propensione ad attrarre ammalati da regioni confinanti in alcune specializzazioni specifiche, anche se solo il Molise mostra un leggerissimo saldo positivo, in tutte le altre regioni meridionali il flusso è pressoché unidirezionale. Il saldo netto di mobilità raggiunge punte del -27% in Calabria e del -23% in Puglia, mentre registra valori positivi di circa il 9% in Toscana e Lombardia e del 7% nel Lazio e in Emilia-Romagna (Reforming). Il flusso di ammalati in uscita trascina evidentemente con sé disagi, costi privati e pubblici, diseconomie di gestione per le strutture meridionali ed economie di scala per quelle del Centro-nord, acuendo così le disparità.

La speranza di vita alla nascita dei meridionali è negli ultimi anni sistematicamente più bassa di circa 1,5 anni rispetto ai cittadini del Centro-nord e mostra per di più un trend di forte rallentamento nell’ultimo decennio, dovuto ai profondi tagli alla spesa pubblica socio-sanitaria (dall’inizio del secolo la speranza di vita alla nascita è aumentata di 2,3 anni nel Mezzogiorno e di 3 anni nel Nord). Ancora più allarmante è la forbice dell’aspettativa di vita in buona salute alla nascita – una proxy della sua qualità –, che in media è più bassa al Sud di 5-6 anni (addirittura 17 anni in meno in Calabria rispetto alla provincia di Bolzano). Enorme è il differenziale tra aspettativa di vita alla nascita e in buona salute: 13 anni nella provincia di Bolzano e all’incirca 20 nel Trentino, in Friuli Venezia Giulia e in Emilia Romagna e di 30 anni in Calabria, 28 in Basilicata, 26 in Sicilia. La mortalità infantile, che pure si era significativamente ridotta nei decenni passati, da qualche anno è inchiodata a 3,4 ogni 1.000 nati vivi nel Mezzogiorno, circa un punto in più che nel Nord (tre volte più alta in Calabria rispetto all’Umbria) (Bes).

I valori medi nel set di indicatori di erogazione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), una misura indiretta degli esiti del sistema sanitario, sono attualmente sistematicamente più bassi nel Mezzogiorno, spesso sotto la soglia dell’accettabilità predefinita, e in sostanziale stasi negli ultimi anni mentre risultano in miglioramento in quasi tutte le regioni del Centro-nord. 7 regioni meridionali su 8 non rispettano lo standard riferito agli interventi chirurgici entro 48 ore su persone con 65 anni e più con fratture del femore (appena 22% in Calabria rispetto alla soglia standard del 60%); ad eccezione della Basilicata, tutte le regioni meridionali evidenziano una distanza elevata rispetto all’obiettivo di contenere i tagli cesarei per punto nascite sotto il massimale del 25%: appena l’11% di strutture del Sud e il 55% al Nord; solo il 47% delle strutture meridionali rispetta la soglia di riferimento per gli interventi di valvuloplastica, 40 punti in meno della media che si riscontra nelle regioni del Nord;  scostamenti rilevanti si notano in riferimento agli screening per cervice uterina, mammella e colon retto (incidenza media nel Mezzogiorno inferiore di due terzi rispetto a quella del Nord), alla percentuale di anziani con 65 anni e più trattati in assistenza domiciliare integrata (all’incirca la metà nel Mezzogiorno), al numero di posti per assistenza di anziani in strutture residenziali per ogni 1.000 anziani residenti (circa 4 nel Mezzogiorno a fronte degli oltre 20 nel Nord) (Annuario statistico del SSN; Ministero della Salute).

 

Il paradosso meridionale

 

I meridionali sono dunque costretti a fare i conti con un evidente paradosso sanitario: per condizioni sociali strutturali sono più esposti al rischio di ammalarsi ma possono accedere a servizi di cura meno diffusi e mediamente di più modesta qualità ed efficacia. Nonostante questa doppia penalizzazione, il prolungato disinvestimento nella sanità pubblica nazionale ha interessato più intensamente proprio i sistemi sanitari meridionali, anche perché quelli di 6 regioni su 8 (ad eccezione di Basilicata e Molise), a causa degli squilibri finanziari, sono stati sottoposti a drastici piani di rientro, che in pratica hanno comportato una riduzione della spesa sotto forma di azzeramento del turnover, contrazione dei posti letto e della spesa farmaceutica, riduzione degli acquisti di attrezzature scientifiche e apparecchiature bio-medicali. Nel periodo 2000-2017 gli investimenti pubblici nazionali nella sanità – pari a 47 miliardi totali –  si sono pressoché dimezzati (da circa 3 miliardi di euro a prezzi costanti a 1,4 all’anno), ma la quota destinata al Mezzogiorno è stata del 10,5% soltanto a fronte di una popolazione del 35%. Nei primi 18 anni del secolo, nelle regioni del Mezzogiorno continentale la spesa per investimenti nella sanità è stata in media di appena 44 euro pro-capite contro i circa 77 nel Nord-est (tre quarti superiore a quella media nazionale, pari a 44,4 euro): 16 euro in Calabria e 174 nella provincia di Bolzano, 23 euro in Campania e 166 in Trentino, 26 euro in Puglia e 84 in Emilia Romagna (Viesti). Cosicché le regioni con maggiori dotazioni, per lo più del Nord, hanno potuto accrescere i loro stock di immobili, macchinari e strumenti, al contrario quelle meno datate, quasi tutte del Mezzogiorno, sono riuscite al più a compensare l’obsolescenza delle immobilizzazioni pregresse. Per fare un solo esempio sulla sottodotazione delle regioni meridionali basta osservare che nel 2017, ben prima della crisi da coronavirus, nelle strutture sanitarie pubbliche del Mezzogiorno erano disponibili solo 45 ventilatori polmonari, di cui 25 in Sardegna, all’incirca la metà di quelli in dotazione nei soli ospedali emiliani. Il deficit di apparecchiature tecnico-biomediche di diagnosi e cura negli ospedali pubblici del Sud è generalizzata: per ogni milione di abitanti meno acceleratori lineari, meno apparecchi per emodialisi, meno mammografi, meno sistemi integrati Tac. Dotazioni insufficienti e di più modesta qualità influenzano a loro volta la qualità e le performance di medici e infermieri, non consentono di ridurre gli squilibri finanziari nella misura necessaria e tutto ciò inibisce la possibilità di attivare adeguati processi di nuova accumulazione di impianti e strumenti, alimentando così un regressivo circuito vizioso.

Sicché, la minaccia esterna rappresentata dal virus si accoppia nel Mezzogiorno alla persistente e altrettanto insidiosa minaccia interna rappresentata da sistemi sanitari endemicamente inadeguati per fronteggiare i bisogni ordinari di cura e tutela della salute, aggravata peraltro da una spaventosa sottovalutazione pubblica della fragilità sanitaria con cui devono fare i conti quotidianamente i cittadini meridionali. Il contrasto al Covid-19 oggi deve dunque intrecciarsi soprattutto nel Mezzogiorno con interventi e soluzioni che prefigurano cambiamenti profondi e permanenti della configurazione della sanità locale. Non bastano aggiustamenti al margine. La lotta al virus deve associarsi, già oggi, alla ricerca attiva di un universalismo sanitario sostanziale, di una nuova normalità con meno disuguaglianze, in termini di vulnerabilità e di conseguenze alla malattia, tra territori e gruppi sociali.

 

Domenico Cersosimo, economista, ha 67 anni e vive a Rende.

 

8 pensieri riguardo “Ammalarsi, dove?

  • 14/04/2020 in 4:56 pm
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    Analisi interessante e quanto mai attuale, direi attenta a un presente che esige una attenzione quotidiana. Gli avvenimenti ogni giorno impongono la messa in discussione di convinzioni che ritenevano solide e ogni riflessione che aiuti a capire ciò che sta sgretolandosi o ricomponendosi è benvenuta.
    Grazie.

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  • 14/04/2020 in 10:51 pm
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    La fotografia del sistema sanitario meridionale merita una profonda riflessione sulle politiche nazionali e regionali attuate negli ultimi anni.
    Oggi, viviamo una stagione di paura e di sfiducia che ci dovrebbe portare ad assumere, domani, quando l’emergenza darà più spazio alla normalità, una più forte ed incisiva manifestazione di indignazione verso i responsabili della sanità nazionale e regionale. Sarebbe opportuno anche
    vigilare sulle competenze del management sanitario che negli ultimi decenni si è dimostrato assolutamente distante dai bisogni della popolazione.
    Tuttavia, a volte, sono le crisi che ci portano a profonde riflessioni; da queste ultime possono emergere soluzioni di quei problemi che difficilmente sarebbero stati affrontati in un normale percorso del vivere civile disorientato sulle diseguaglianze.

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  • 15/04/2020 in 11:08 am
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    Analisi puntuale e interessante che mette bene in evidenza le disparità fra le diverse aree geografiche del Paese. Spinge verso la giusta riflessione sul diritto universale alla salute e sulla distinzione fra la funzione di indirizzo e controllo della politica ai diversi livelli e le capacità gestionali del management sanitario. Oggi queste funzioni si intrecciano al fine di realizzare consenso politico e interessi particolari che spesso sfociano in scandali e in spechi a discapito del diritto alla cura e alla salute.

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  • 15/04/2020 in 3:07 pm
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    Vivo nel nord-est ormai da più di 45 anni ma provengo dal sud ed ogni estate ritorno nelle mie terre. In questi termini mi sono formato una qualche conoscenza dei due poli anche dal punto di vista sanitario. Sono stato in ospedale nella regione di residenza ( Veneto ), ho conoscenza per via dei parenti che hanno fatto ricorso a ricoveri ospedalieri nel sud.
    Su queste basi, molto empiriche, concordo con quanto illustrato . Il problema Covid certamente metterebbe sotto stress il sistema ospedaliero del sud è bene hanno fatto i governatori meridionali a fare una guardia stretta per il “confinamento”.
    Rifletto, in aggiunta, che l’istanza suprema della austerità, con l’obbligo del rientro dal deficit sanitario, ha ridotto “ all’osso” il sostegno al cittadino ( malati gravi costretti a comprare di tasca propria medicine fondamentali…) oltre ad aver sottratto strutture e servizi di base.

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  • 16/04/2020 in 12:02 am
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    Anche questa volta l’acutezza del Prof. Cersosimo e la profondità della sua analisi ci mettono di fronte ad una realtà spietata, quella delle disuguaglianze, delle disparità e delle difficoltà delle aree più marginali del Paese. La lettura mi ha stimolato tantissimo e approfitto di questo spazio per condividere alcune riflessioni.
    Chi, come il sottoscritto, sta seguendo – suo malgrado – tutto quanto connesso alla pandemia credo non sia sfuggita l’emersione dal “sottobosco” della dicotomia Roma-Milano sia sotto l’aspetto prettamente epidemiologico sia in riferimento alle scelte di politica sanitaria-assistenziale.
    Rispetto al primo ci siamo da subito trovati di fronte alla contrapposizione tra la scuola milanese (quella del Prof. Galli e della dott.ssa Gismondo dell’ospedale Sacco, prima in antitesi tra loro) e la scuola romana dello Spallanzani e dell’Istituto Superiore di Sanità. A queste si affiancano “timidamente” la scuola veneta del prof. Crisanti, quella barese-pisana del prof. Lopalco e quella napoletana (marginalizzata quasi subito) che ha avviato il protocollo sul Tocilizumab. Una contrapposizione tutta giocata su numeri, modalità di contagio, categorie a rischio, ecc. che non ha fatto altro che alimentare e moltiplicare ulteriormente tra la popolazione quelle incertezze proprie di un fenomeno scarsamente conosciuto e noto alla comunità scientifica da appena 4 mesi.
    Il secondo punto richiama necessariamente in causa aspetti legati al federalismo, alla spinta autonomistica di alcune forze politiche e quindi alla riforma del Titolo V della Costituzione. A 4 giorni dal look down nella Regione in cui l’utente/cliente costituisce una risorsa non indifferente, quale momento migliore per cogliere l’occasione per la realizzazione di un nuovo ospedale? Circostanza che provoca l’ira della Capitale che rimanda la proposta al mittente insieme con un carico di mascherine simili ai panni Swiffer. Il risultato finale è l’allestimento in tempi record del nuovo ospedale a Roma (il Columbus Covid-2 Hospital) e l’inaugurazione dell’ospedale alla Fiera di Milano il 31 marzo quando ormai le terapie intensive lombarde erano già ampiamente uscite dall’emergenza. In entrambi i casi sono state implementate con presidi fissi strutture sanitarie già ampiamente dotate e quasi del tutto inutilizzate. Al contrario, in Calabria, dove sono numerose le strutture ospedaliere completamente svuotate dal Piano di rientro, si prevede, in caso di emergenza, la costruzione di un ospedale da campo per cui una volta terminata la fase critica si smontano “baracche e burattini” e proseguiamo ad libitum con lo status quo.
    In conclusione, quindi, e richiamando gli inizi dell’articolo riprendo il “Nulla sarà più come prima”. La solita minestra riscaldata! Gli italiani, gli elettori italiani, hanno la memoria troppo corta, di circa due o tre settimane. Non voglio andare oltre, mi sono già dilungato abbastanza, ma una sola riflessione a quanto stia accadendo ed è accaduto nelle RSA, in primis quelle lombarde. Vi ricorda qualcosa il “Pio Albergo Trivulzio”? Il nome è lo stesso, la struttura è la stessa, ma è un’altra storia.

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  • 16/04/2020 in 12:21 pm
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    Le grandi epidemie, dalla cosiddetta peste di Giustiniano, esplosa nel 541, che diede il colpo di grazia all’Impero Romano, fino all’influenza Spagnola, tra il 1918 e il 1920, che sconquassò gli Stati ottocenteschi e preparò il terreno alla grande crisi degli anni ’20 e all’avvento del nazifascismo, hanno sempre cambiato il corso della Storia e le sue traiettorie evolutive, sovvertendo nel profondo, radicalmente, assetti sociali, strutture economiche, architetture istituzionali, valori culturali.
    L’articolo di Mimmo solleva lo sguardo sulla realtà di un Paese profondamente disuguale, solcato da numerose e diverse linee di frattura che attraversano il corpo sociale, i territori, i servizi, le istituzioni, le economie. Ne svela i paradossi, in una forma espressiva molto diretta (ad esempio, il Mezzogiorno come “emergenza sanitaria endemica”), squarciando il velo delle rappresentazioni consolidate, falsate da una visione distorta che ha confuso i fatti, alterato la scala dei valori, elevato le asimmetrie a virtù sistemiche, fino al punto di spingere la deriva iperregionalista al limite della tenuta complessiva dello Stato-Nazione. Un Paese che la grande ondata epidemica ha colto impreparato (malgrado i chiarissimi allarmi provenienti dalla Cina) ed esposto nelle sue fragilità costitutive, travolgendolo in un’impetuosa dinamica che ne ha drammaticamente esaltato gli squilibri, acuito la disarticolazione istituzionale, spinto all’estremo la tensione sociale, istituzionale ed economica che dalle faglie del sistema, da lungo tempo, è originata. La storia di questa epidemia, che cambia il corso della storia dell’Italia e dell’Europa, bisognerà scriverla, da subito, come omaggio alla verità, innanzitutto. Di fronte ad una società che, nel complesso, pur nello smarrimento di questa ora e nella consapevolezza della straordinarietà dell’evento, considera tutto sommato accettabile la contabilità giornaliera e tragica delle centinaia di morti e delle decine di migliaia di contagiati, e trova persino giustificabile l’incredibile catena di errori e sottovalutazioni che hanno svelato l’inadeguatezza del sistema-Paese, a partire dal modello sanitario, a lungo decantato, della più grande ed importante delle regioni, la Lombardia. Società che, infine, sembra vivere il lockdown come ripiegamento in se stessa, rifiuto di capire, cecità di fronte all’abisso di sofferenza dei fragili, dei sommersi e degli ultimi che il virus ha, se possibile, scavato ancora di più.
    Il variegato mondo che si muove attorno al “pensiero unico” vorrebbe replicare, come sottolinea Mimmo, l’uscita dalla crisi finanziaria ed economica innescatasi nel 2008. Il rischio è, ora come allora, un’ulteriore accelerazione delle disuguaglianze. Questo sistema di valori e interessi ha iniziato a suonare la grancassa della “ripresa”, lo si capisce con chiarezza dal mutamento degli stili e dei codici comunicativi: basta guardare come sono cambiati, nell’ultima settimana, toni, messaggi, titoli e contenuti dei tg e delle principali testate. Vorrebbe cancellare ogni cosa, ridurre la pandemia ad un incidente, far dimenticare in fretta, rilanciare la narrazione codificata nei paradigmi canonici della competitività e della crescita. Come prima, più di prima, perché dall’emergenza si esce solo così, rialimentando in fretta il motore turbocapitalista. Nel momento in cui, ancora in piena emergenza e con i rischi gravissimi che ne conseguono, le sirene della cosiddetta “fase due” (come se una vicenda come questa fosse davvero scomponibile in fasi seriali), si alzano, sempre più chiassose, dal fondo di questa tragedia collettiva, tentando di coprire le sirene delle ambulanze che ancora, incessantemente, arrivano e partono dagli ospedali, dietro l’obiettivo di richiamare istituzioni e cittadini all’imperativo di riprendere ad alimentare, subito, qui e dovunque, come prima e più di prima, il meccanismo del turbocapitalismo finanziario, che è esattamente una delle cause e dei fattori di amplificazione di questo disastro, Mimmo ci richiama al dovere della riflessione profonda su quello che sta accadendo, su come ripensare noi stessi e il nostro universo valoriale, la nostra struttura sociale ed economica, il nostro sistema istituzionale, il bene pubblico, la tutela della salute, i nostri servizi sanitari.

    Giovanni Soda

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    • 16/04/2020 in 3:56 pm
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      Notevoli e puntuali le esposizioni sulle ragioni, sulle debolezze e sulle incertezze del sistema Sanitario palesatesi nella loro entità anche a causa delle inefficienze ed impreparazioni a fronteggiare il Covid. Cio’ stimola una riflessione sulla drammatica contingenza che lo scenario ci propone . Questo evidenzia crudamente effetti di disuguaglianze sanitarie su disuguaglianze sociali che nel loro dispiegarsi, in prevalenza verso una categoria debole ( Anziani, RSA, Covid ), sono la testimonianza delle nefaste conseguenze.
      Una umanità , la vecchiaia, di cui si è sempre evitata il più possibile la menzione in quanto evocava una dimensione, da esorcizzare, perché incuteva paura: la morte! La vecchiaia, con la crisi del 2008, ha però “riacquistato “ paradossalmente centralità e ruolo (sic!) unicamente per teorizzare ed annunciare la allarmistica “longevity risk “ per il Bilancio degli Stati. Anche da ciò le diseguaglianze palesano chiare responsibilita’ : Piani di Rientro, ridimensionamenti prestazioni assistenziali , chiusura strutture ospedaliere, contenimenti finanziari e quant’altro, senza il necessario potenziamento della medicina territoriale .
      Che strage umana e che contestuale falcidia della memoria storica del nostro Paese! Una Storia che oggi bruscamente si interrompe .
      Quale coinvolgimento emotivo diretto del nostro essere parte di questa memoria e pensare improvvisamente di non poter essere più destinatari o soggetti di testimonianza e narrazione ? Quanta angoscia pervade per non avere probabilmente il tempo ed i luoghi per essere trasmissione di un patrimonio umano e storico, a sua volta tramandato e/o vissuto, oggi forse destinato all’oblio .
      16/04/2020. Carlo Vetere

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  • 16/04/2020 in 1:30 pm
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    Come non essere d’accordo con l’analisi del prof. Cersosimo? I dati che ci somministra sono parte dell’esperienza che tanti meridionali fanno, loro malgrado, nell’incontro con le strutture sanitarie. D’accordo anche con le conclusioni. Ma dinanzi ad una collettività che da tempo ha smesso di sentirsi Stato e pretendere perciò da se stessa l’esigibilità del diritto alla salute chi potrà farlo al suo posto?

    Risposta

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