Il mondo di cui prendersi cura

Di Edoardo Morino

 

    Nella mia quotidianità, con l’isolamento, si è dolcemente insinuata un’abitudine che prima non avevo. Non è questione di imposizioni o consigli: ho iniziato quasi per caso e adesso questo gesto è diventato un tranquillo rituale.

    La sera, sul tardi, mi affaccio al ballatoio dove si trova l’ingresso di casa mia e rimango per qualche minuto a contemplare il buio sospeso su quel piccolo angolo di Torino che si offre al mio sguardo.

Sulla sinistra, fra gli alberi, svetta Superga, che di notte – specialmente quando le stelle e la luna le fanno corteo – è ancora più bella. A tutto quello che sta più in basso non avevo mai prestato troppa attenzione. Adesso, invece, ci sono costretto.

    Un dettaglio mi ha colpito, fin dai primi giorni di isolamento: il silenzio. Perché in una delle città più grandi d’Italia non mi sarei mai aspettato di sentirlo così forte. Perché quello che sento la sera, qui fuori, non è un silenzio che invita alla quiete e al sonno. È il silenzio che nasconde la presenza di qualcuno che si prepara a vegliare. È il silenzio delle cose che palpitano nell’ombra, segrete e indefinite, che spingono per uscire e prendere forma. Un silenzio ingombro di pensieri sottili come la fiamma di una candela, abbandonati a vagare nello spazio lasciato libero dai sogni.

    Davanti a questo silenzio non ho saputo come rispondere. D’altronde, quali sono le parole più adatte per addomesticare il silenzio? Una sera, però, prima di rientrare in casa, ho sussurrato a mezza bocca una semplice buonanotte. E da quel giorno lo faccio tutte le sere.

    Perché lo faccio? A chi do la buonanotte?

    La do a chi è parte della mia vita e che rivedrò chissà quando. La do a chi ho salutato, magari troppo in fretta, prima che scattasse l’emergenza, dando per scontato che di lì a poco ci sarebbe stata un’altra occasione per incontrarsi e parlarsi. E la do a quel piccolo angolo di città che mi fermo a scrutare ogni sera – manco fossi James Stewart in La finestra sul cortile – e che ha fatto da sfondo alla mia distrazione ogni volta che uscivo di casa o ci rientravo, ma che al contempo è stato anche il mio specchio mentre mi prendevo un attimo di riposo, cercavo di mettere ordine nella mia testa o mi sorprendevo a fissare il vuoto lasciato da qualcuno che se n’era appena andato via.

    Forse dare la buonanotte al pezzo di mondo che posso vedere da qui è il mio modo per prendermene cura. Ma so benissimo che, nell’emergenza che ci circonda, il valore del mio gesto – puramente simbolico – non conta assolutamente nulla davanti all’immane fatica di chi si sta prendendo cura dei malati, dando prova di dedizione inesauribile – dedizione che dovremo ricompensare ricordandoci, quanto tutto sarà finito, di proteggere il nostro sistema sanitario da chi vorrebbe distruggerlo.

    Al resto dell’umanità cosa compete, oltre alle rinunce e alle precauzioni cui tutti dobbiamo adattarci? Chi ne è capace si prende cura delle persone care o dei vicini – fosse anche con una telefonata, un messaggio o un saluto – e di ciò che rende l’esistenza degna di essere vissuta. Anch’io ci sto provando. E come tutti – anche se in troppi non vogliono ammetterlo – non so quando questa emergenza cesserà, né tantomeno dove stiamo andando.

    Non sono in grado di fare previsioni e preferisco non farne. Preferisco rassegnarmi all’incertezza – una regola, questa, che avrei dovuto rispettare già prima di trovarmi in questa situazione, ma tant’è. Di certo il mondo là fuori sarà diverso. Quanto diverso rispetto a prima? E come renderlo migliore per tutti, specialmente per chi ora sta soffrendo?

    Io credo che potremmo dare il via a una vera rivoluzione – una parola che non dovremmo vergognarci di usare – se ci ricorderemo della capacità di cura da cui ricaviamo la forza per resistere a questi «strani giorni» (Franco Battiato li chiamerebbe così?).

    Mi riferisco alla cura che abbiamo riversato sulle persone con cui vogliamo mantenere un legame, nonostante la distanza e lo sconforto. E mi riferisco alla cura dedicata a tutto ciò che ci sta a cuore e che vorremmo veder diventare realtà in un pezzo di mondo più grande di quello che si estende subito fuori dalla nostra porta.

    Di recente Marie Moïse, in un articolo pubblicato su Jacobin Italia, ha scritto che prendersi cura degli altri è una pratica che può servire a «minimizzare o disinnescare» la violenza – Moïse allude, in particolare, alla violenza di genere – che pervade la nostra società. La cura come tattica di autodifesa e sopravvivenza, innanzi tutto. Per preservare energie. E la cura come pratica da rivolgere a chiunque si trovi in una condizione di subalternità, per sovvertire i rapporti di potere e pretendere (finalmente) un cambiamento.

    E allora: se ci impegnassimo a praticare questa capacità di cura anche nella realtà che ci attende al di là di questa lunghissima parentesi – perché ne avremo molto bisogno – e se da questa capacità di cura, da questa rinnovata sensibilità per il destino altrui, estraessimo anche la rabbia necessaria per cambiarla in meglio, la realtà, per compiere anche noi qualcosa di simile a un “salto di specie”, per non essere più soltanto ospiti ingordi del pianeta su cui ci è capitato di vivere e che, per mezzo di un microscopico virus, ci sta dando una lezione impossibile da ignorare – ecco, se ci ponessimo quest’obiettivo avremmo già segnato un grande traguardo.

    Alla fine, si tratta di scegliere un angolo di mondo di cui prendersi cura.

 

 

Edoardo Morino è consulente legale e ricercatore, ma attualmente in cerca di occupazione; ha 34 anni e vive a Torino.

Un pensiero riguardo “Il mondo di cui prendersi cura

  • 13/04/2020 in 3:22 pm
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    Grazie per la riflessione, in tutte le accezioni del termine

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