La Cina alla prova della fase 2

 

Di Dario Di Conzo

 

La Repubblica Popolare Cinese è il primo paese ad aver affrontato, e forse contenuto, la pandemia Covid-19, dando la sensazione di aver trasformato una potenziale catastrofe sanitaria in un’occasione di visibilità e prova d’efficienza del suo modello socioeconomico, il “socialismo con caratteristiche cinesi’. L’immagine della Repubblica Popolare sembra essersi rafforzata e il soft power di Pechino viaggia insieme ai suoi medici e ai suoi cargo di materiale utile alla lotta al Covid-19.

Superati i due mesi dal lockdown di Wuhan, la Cina – ad esclusione della piccola contea di Jia nella provincia dell’Henan recentemente messa in quarantena – si trova nella “fase 2”, quella della cosiddetta convivenza con il virus.

Alle nostre latitudini, questa crisi sanitaria ha costituito il terreno retorico per una vasta gamma di commenti ‘orientalisti’, spesso razzisti, dove virologia e costumi si intersecano fornendo un’immagine stigmatizzata della Cina, un regno del folclore nel quale modernità e ‘barbarie’ si mescolano. Una visione stereotipata e polarizzante di un popolo composto da infaticabili e docili lavoratori, arricchitosi a nostre spese sotto il controllo di un’efficace macchina propagandistica dittatoriale. Al contrario, la Cina degli ultimi 30 anni ha vissuto una forte dialettica politica, fatta di rapporti di forza in continua evoluzione sia nel Partito sia nella sua relazione con la società, dove il conflitto operaio e sociale e la sottrazione a meccanismi di controllo sono tensioni vive.

Il patto sociale post-Tienanmen, fondato sul dogma della crescita economica come antidoto all’instabilità sociale, si muove su un sentiero sempre più stretto, nel quale i risentimenti per le disuguaglianze sociali e territoriali si intersecano alle attuali prospettive di una crisi economica globale.

La pandemia Covid-19 ci permette quindi di osservare come il Partito Comunista affronterà una sfida inedita, quella di anestetizzare tensioni e trasformazioni sociali in un contesto di probabile depressione economica. I cupi risvolti macroeconomici e la profonda asimmetria tra la narrazione ‘estetica’ di un regime efficiente e la concreta incapacità di gestione ‘armoniosa’ della crisi, sono due elementi che permettono di descrivere la frattura tra la retorica inclusiva del Partito-Stato e la crescente conflittualità legata alla materialità delle condizioni di vita di milioni di lavoratori e lavoratrici cinesi.  

In una delle rare prese di parola in questo momento complesso, il segretario-presidente Xi Jinping ha definito questa crisi un’opportunità per accelerare il processo di riforma verso un’economia sostenibile e più inclusiva.

Il contesto macroeconomico e il dibattito degli addetti ai lavori ci restituisce le grandezze degli sconvolgimenti in atto. Nonostante una prima fase negazionista, la più grande banca d’investimento del Paese (Chinese International Capital Corporation) e la stessa Banca Centrale hanno dovuto tagliare le previsioni di crescita, paventando l’incubo della recessione.

Le stime produttive del primo trimestre forniscono dati che non si registravano dal 1976, quando Mao era ancora vivo e mancavano due anni all’avvio del processo di riforma e ‘apertura’ di Deng Xiaoping. L’interpretazione asettica e tecnica dei dati economici, per quanto ancora in voga, è più che mai un esercizio da oracoli in questo contesto eccezionale, ma non vi è dubbio che lo spettro della disoccupazione rappresenti una notevole pressione per un sistema politico che trae dalla piena occupazione una delle maggiori fonti della stabilità sociale.

Questa tensione si inserisce in un contesto conflittuale florido. Le lotte operaie nel manifatturiero dei primi sette anni post ‘grande recessione’ 2007-08, negli ultimi anni hanno lasciato posto ad un numero crescente di rivendicazioni salariali nel settore terziario, tra le quali spiccano quelle di differenti figure lavorative del settore sanitario, dagli infermieri ai lavoratori delle pulizie ospedaliere. Nonostante la risposta della sanità pubblica cinese sia sinora stata all’altezza della sfida Covid-19 – tanto più se la si confronta con gli imminenti disastri del modello anglosassone – non si devono però confondere gli ingenti investimenti effettuati dal governo nel settore sanitario negli ultimi quindici anni con un’idea di erogazione universale del diritto alla salute.

La crescita economica cinese non è stata accompagnata da un adeguato sviluppo del sistema sanitario di base, privatizzato nel periodo post-maoista e reso non accessibile in maniera omogenea ed egalitaria a una popolazione che, nel successo economico, ha visto acuire le disuguaglianze sia tra le aree urbane e rurali sia tra le province interne e quelle costiere. A tal proposito va ricordato l’impatto gerarchizzante del sistema dell’Hukou (cittadinanza provinciale), che lega l’accesso a diritti sociali e a servizi di welfare alla propria provincia di nascita non permettendo a centinaia di milioni di lavoratori e lavoratrici migranti e alle loro famiglie di accedere, tra gli altri, ai servizi sanitari di base.

Questa crisi mette così in evidenza la contraddizione tra la traiettoria di rapida crescita della Cina e l’emergenza nata con l’irrompere del virus, il dilemma della politica di Pechino tra la priorità data all’economia e l’urgenza di affrontare l’epidemia, restituisce la complessità di una gestione della crisi che alterna efficienza e parzialità nell’arte di governo così come nella sanità pubblica.

La gestione ‘spettacolarizzata’ da parte del Partito e la retorica di una risposta efficace nella ‘guerra civile contro un nemico invisibile’ non hanno cancellato le origini della crisi sanitaria. L’approccio iniziale che negava la gravità dell’epidemia, l’arresto del dottor Li Wenliang – uno dei primi a denunciarne i pericoli e poi scomparso a causa del Covid-19 -, le misure contro altri medici ‘mistificatori’ hanno incrinato la macchina propagandistica del Partito.

La visita del Presidente Xi nella Wuhan ‘guarita’ il 10 marzo 2020, a 45 giorni dallo scoppio dell’epidemia, è stata innalzata a simbolo dell’efficacia del Partito-Stato e ha rappresentato il tentativo di raccogliere i dividendi del successo, ma sono immagini che stridono con il panorama nazionale, dove le scarse connessioni tra i diversi livelli di governo hanno mostrato la sostanziale autonomia delle province e dei funzionari locali. I video degli incidenti tra le diverse polizie municipali prima e tra abitanti dell’Hubei e forze dell’ordine poi, sono circolati nel paese come all’estero. Migliaia di persone rimaste bloccate nell’Hubei durante la festività del Capodanno, terminata la quarantena tentavano di attraversare il fiume Yangtze per raggiungere la confinante provincia dello Jiangxi al fine di salire su treni che li riportassero nei loro luoghi di residenza. Il blocco di questo esodo, la confusione sulle ordinanze e i successivi scontri mostrano tutta la fragilità di una catena di comando inefficace tra Stato centrale e singole province. Ad eccezione delle misure draconiane adottate a Wuhan e nella sua provincia, il resto del paese è stato gestito con appelli alla ‘buona volontà’, repressione e controllo sociale lasciando alla popolazione un interrogativo, che ormai è comune a tutti: chi pagherà i costi dell’epidemia?

Se vi sono pochi dubbi sul fatto che Pechino abbia guadagnato credibilità internazionale, fermando l’emergenza e fornendo aiuti, le nubi si addensano sulle contraddizioni di una società effervescente che nel giro di pochi mesi potrebbe veder trasformati i termini di un delicato patto sociale.

Il ‘socialismo con caratteristiche cinesi’ affronta oggi la fragilità di un modello di crescita diseguale, ecologicamente e biologicamente pericoloso, nel quale la stabilità sociale, priorità del Partito e pilastro della sua legittimità politica, è messa a dura prova dall’imminente richiesta di nuovi sacrifici.

 

Dario Di Conzo ha 27 anni; è dottorando in Scienze Politiche presso la Scuola Normale Superiore e vive a Roma

 

 

 

 

 

 


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