Il caso Russia

Il difficile binomio di autoritarismo e credibilità

di Maria Chiara Franceschelli

 

La possibilità di risvolti autoritari di contorno alla pandemia è un dato di fatto ormai assodato. Ce lo dimostra Viktor Orbán, nel silenzio generale della democratica Europa, rotto solo da una timida dichiarazione d’intenti di Ursula Von der Leyen. Oltre i confini dell’Unione, tuttavia, qualcun altro non ha esitato ad approfittare di questa occasione.

Un mese fa, Putin ha sfruttato la minaccia della pandemia con invidiabile tempismo per rafforzare il proprio consenso, quando in Russia la diffusione del virus sembrava ancora relativamente lontana. Da poco i contagi hanno iniziato ad aumentare esponenzialmente, e con loro vengono alla luce i punti critici della gestione dell’emergenza da parte del Cremlino.

Il 10 marzo è stato approvato dalla Duma il nuovo testo di riforma costituzionale, proposto in fretta e furia dai deputati di Russia Unita in seguito al crollo del rublo di qualche giorno prima. Crollo, peraltro, in larga parte determinato dalle scelte di Putin stesso nella guerra sui prezzi del petrolio con l’Arabia Saudita. Il leader russo, infatti, ha preferito non tagliare la produzione nonostante il calo della domanda dovuto al COVID-19. I risultati di questa controversa decisione sono stati presto visibili in politica interna.

A inizio marzo, infatti, Valentina Tereshkova, prima donna nello spazio, deputata di Russia Unita e fedelissima del presidente, ha proposto un ben più rozzo referendum sulla possibilità di “annullamento” degli ultimi due mandati presidenziali di Putin. Questi ultimi due mandati sarebbero dichiarati “non validi”, per consentire a Putin di ricoprirne altri due. In questo modo, Putin potrebbe potenzialmente rimanere in carica fino al 2036. Un netto contrasto con la proposta di referendum precedentemente approvata dalla Duma: quest’ultima prevedeva l’abbandono della carica presidenziale da parte di Putin, e un complesso riequilibrio dei poteri all’interno delle istituzioni federali.

La nuova, più semplice proposta è stata motivata dalla presunta necessità di una leadership forte davanti alle sfide che la Russia sarebbe stata presto costretta a fronteggiare, che un eventuale nuovo presidente non avrebbe potuto gestire in maniera ugualmente efficace. Considerato che il mandato di Putin finisce solo nel 2024, l’emergenza COVID-19 e il crollo del rublo hanno contribuito significativamente a creare un senso di urgenza ingiustificato, ed è sull’onda di quest’ultimo che la proposta è stata approvata quasi all’unanimità. Questo, tuttavia, non è l’unico modo in cui il regime di Putin ha inizialmente sfruttato la pandemia a proprio favore.

Il 10 marzo scorso, a Mosca si contavano nove casi di COVID-19. Lo stesso giorno, poche ore dopo la presentazione della proposta di legge, il sindaco di Mosca Sergej Sobjanin ha vietato assembramenti ed eventi pubblici con più di cinquemila partecipanti. Nei giorni successivi, il provvedimento è stato man mano irrigidito fino a vietare assembramenti di ogni tipo (16 marzo).

La natura opportunistica di questo provvedimento è stata chiara fin da subito: il suo fine ultimo era infatti impedire lo svolgimento delle manifestazioni autorizzate previste per il 20 e 21 marzo contro il precedente disegno di riforma costituzionale [1]. Per queste manifestazioni era già prevista grande affluenza. Dopo un cambiamento così drastico del disegno di legge, i partecipanti si sarebbero verosimilmente moltiplicati.

Per quanto possa sembrare solido, infatti, il regime di Putin non può prescindere dal consenso popolare. La Russia non ha sufficienti risorse per basare la sua stabilità politica su un apparato di repressione capillare. Inoltre, una parvenza di legittimità popolare è indispensabile alla Russia per una trattativa efficace con le potenze occidentali, e per il suo riconoscimento come potenza globale a livello internazionale [2]. Durante lo scorso decennio, tuttavia, il malcontento popolare nei confronti di Putin è aumentato gradualmente: nel 2012, grandi proteste agitarono il centro di Mosca in seguito alla ri-elezione di Putin dopo la breve parentesi della presidenza Medvedev [2]. Nel 2018, la riforma sull’età pensionabile fece crollare il presidente negli indici di gradimento, e scatenò altrettanto numerose manifestazioni [2]. Nell’estate del 2019, infine, migliaia di cittadini si radunarono nuovamente per protestare contro un regime sempre più repressivo, contro l’attuazione di controverse politiche ambientali e l’incarcerazione di numerosi giornalisti e oppositori politici.

Memore di questi episodi, il Cremlino non ha esitato a sfruttare l’occasione per impedire grandi valvole di sfogo del dissenso popolare [3] [4]. Tuttavia, un provvedimento così palesemente ad hoc come quello del 10 marzo, non immediatamente esteso ad altre zone della Russia, né accompagnato da provvedimenti strutturali, dalla formazione di task force o dalla dichiarazione dello stato di emergenza, ha suscitato scalpore e sdegno negli ambienti di opposizione, riconfermando le stesse tendenze autoritarie contro le quali parte della cittadinanza si scontra da anni [1].

Il decreto contro gli assembramenti è stato poi adottato anche dalla città metropolitana di San Pietroburgo (13 marzo) ed esteso a tutte le altre Repubbliche federali (17 marzo), che però hanno mantenuto l’autonomia per quanto riguarda tutte le altre misure contenitive [5]. Sono inoltre state ridotte al minimo tutte le attività giudiziarie (18 marzo). Quest’ultimo provvedimento ha sensibilmente penalizzato l’esercizio della giustizia in Russia, già ampiamente compromesso. Il decreto ha infatti portato all’esecuzione di processi a porte chiuse, senza testimoni e persino, in alcuni casi, senza avvocato difensore dell’imputato.

Se il 10 marzo le autorità russe hanno fatto un’importante dichiarazione d’intenti, ancora più importante è stata la risposta della società civile. Paradossalmente, lo sfruttamento della situazione a proprio favore da parte delle autorità come primissima risposta al virus ha minato significativamente la credibilità delle misure di contenimento future. Misure che, perlomeno allo stato attuale, sono effettivamente motivate da un notevole aumento dei contagi su suolo russo e dal trend a livello internazionale.

Lo scetticismo nei confronti delle misure preventive è alimentato anche dalla retorica antiallarmista portata avanti dal governo federale, fermo su un ostinato “va tutto bene”. Le autorità russe non hanno esitato ad attribuire l’alto tasso di contagi nei paesi occidentali a carenze strutturali dei sistemi sanitari locali, e a porli in netto contrasto col sistema sanitario capillare ereditato dall’URSS. Se da un lato ciò aiuta a contenere il panico, dall’altro sono in molti in Russia a chiedersi quale sia dunque il vero scopo delle pesanti limitazioni alla libertà personale, oltre all’irrigidimento del regime.

Fin da quell’ormai famoso 10 marzo, infatti, numerose voci di protesta si sono levate nei confronti di decisioni così grossolanamente orientate verso una stretta ulteriore della morsa autoritaria, coerentemente con lo scacco al limite dei mandati [6]. Numerose testate giornalistiche indipendenti hanno denunciato l’accaduto, appoggiate dagli ambienti di opposizione. La convinzione che le misure di contenimento siano finalizzate esclusivamente a un inasprimento del regime, anziché a una necessaria prevenzione del contagio, si è rapidamente diffusa a livello informale, fra gruppi autonomi di opposizione, a livello mediatico fra le testate indipendenti, e persino a livello istituzionale. Vyacheslav Markhaev, senatore di opposizione appartenente al Partito Comunista, ha coraggiosamente denunciato come in realtà i provvedimenti presi dal governo fossero finalizzati ad “appianare le conseguenze della proposta di referendum”, facendo un chiaro riferimento alle proteste che erano state organizzate contro il primo disegno di legge [7].

È interessante vedere la reazione di un popolo abituato a un regime autoritario davanti a un’importante limitazione delle proprie libertà. L’impressione che se ne trae è principalmente di amara rassegnazione davanti all’ennesimo sopruso. L’euforia e l’orgoglio per l’annessione della Crimea, che nel 2014 regalarono a Putin l’80% dei consensi, sono un ricordo ormai lontano [2]. Ora i russi si sentono più vicini alle autorità regionali, e il potere federale è una presenza sempre più ingombrante [5]. Con la riforma costituzionale, Putin ha dimostrato l’interesse ultimo del suo regime, ossia assicurare la propria continuità senza guardare in faccia a nessuno, nemmeno alla Costituzione [8]. In questo contesto, ai russi risulta difficile ricollegare nuovi provvedimenti repressivi alla salvaguardia del bene comune, anche qualora le circostanze li giustificassero.

È difficile affermare che questa situazione porterà a una maggiore coscienza critica nei confronti del regime politico di Putin, o che in qualche modo favorirà il lento processo di democratizzazione della Russia, la cui esistenza è di per sé oggetto di dibattito. Il malumore nei confronti delle misure d’emergenza, comprese quelle effettivamente necessarie, rischia di perdersi in una pozza di risentimento che, come abbiamo visto, esiste già da tempo. Inoltre, la mancata collaborazione da parte della popolazione può portare a ulteriori inasprimenti delle misure in atto, come del resto abbiamo osservato persino in alcune regioni italiane, in cui sindaci e presidenti invocano un regime paramilitare. Uno scenario simile legittimerebbe un controllo ancora più pressante da parte delle autorità regionali e federali, alimentando un circolo vizioso di incomprensioni e scetticismi ed esacerbando sentimenti già radicati nell’opposizione.

Se la Russia uscirà da questa crisi meglio di altri, lo scopriremo nelle prossime settimane. Nel frattempo, è interessante osservare le risposte della società civile alla gestione dell’emergenza da parte dello Stato. Se in paesi più democratici una relativa fiducia nelle istituzioni rende la popolazione più compiacente e allarga la soglia di tolleranza all’accentramento dei poteri, l’opportunismo dei regimi autoritari rischia di spezzare definitivamente ogni legame fra lo Stato e la società civile, proprio nel momento in cui questo legame è assolutamente necessario.

 

 

 

Maria Chiara Franceschelli, 24 anni, studia politiche comparate alla Higher School of Economics di San Pietroburgo.

 

 

[1] Smirnov, S., Koronavirus protiv prav cheloveka. Mediazona, 18/3/2020

[2] Kolesnikov, A., Are Russian Finally Sick of Putin?, Carnegie, 7/4/2020

[3] Borodikhin, A., Otlov v karantin: kak meriya Moskvy pytaetsya ostanovit epidemiyu koronavirusa s pomoshch’yu slezhki i policii, Mediazona, 5/3/2020

[4] Borodikhin, A., Geolokaciya, drony i pandemiya. Bol’shoy Brat protiv koronavirusa, Mediazona, 24/3/2020

[5] Percev, A., Virusniy Federalizm. Kak epidemiya obnazhila ustroystvo regionalnoy vlasti v Rossii. Carnegie, 7/4/2020

[6] Greene, S. A. and Robertson, G.  B., Putin V. the People: The Perilous Politics of a Divided Russia, Yale University Press, 2019

[7] Novoe Vremya, Senator Markhaev: cel’ samoizolyacii – sglyadit’ posledstviya ot obnuleiya srokov. 6/4/2020

[8] Franceschelli, M.C., Federalismo e stato di emergenza in Russia, Lo Spiegone, 24/4/2020


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