Kuze vuol dire vaso

di Ane Möntanakoa

 

Stamattina sono andata in tribunale. Prima di uscire di casa, ho preso un quaderno per scrivere l’autocertificazione, ché anche in Grecia te la scrivi da sola. Qual è la mia necessità? (1 banca, 3 supermercato, 6 attività motoria?). Si può andare in tribunale? E mentre camminavo mi dicevo che ero stanca di questa fatica, di dovermi alzare, di sapere dove si trovano i tribunali e come funzionano queste cose.

    Fatto sta che ci sono andata a vuoto, perché nella situazione attuale non si possono fare visite ai detenuti in attesa di giudizio, e in più un poliziotto ti dice una cosa, un altro te ne dice un’altra e ho perso un sacco di tempo finché non mi ha scritto: Ane, sono fuori.

 Poi a casa, uno shock. Perché non ci vedevamo dalla discussione della settimana scorsa, quei due minuti appena in cui me l’hanno fatto vedere quel venerdì, in commissariato. E così comincia l’avventura dei sentimenti, la lotta di potere, la differenza inevitabile e dolorosa tra il privilegio e l’aver vissuto sulla propria pelle l’infamia della migrazione forzosa.

Quando poi esce dalla doccia, mi dice, they beat me very bad. Non è una sorpresa, me lo aspettavo. Mi racconta, mi davano botte sulle costole. Pa pa pa. Very fast.

    Gli dico che sono addestrati a farlo. Yes.

  E io cerco di spiegargli. Cerco di fargli capire che sono stanca, stanca di tutto il peso, della vita in generale. Di dovermi fare carico che se lui non dorme da me, dorme per strada. O in gattabuia. Mentre a me nessuno mi ha mai fermata, né mi fermerà mai, né prima né durante la quarantena. Magari è proprio per questo, per il senso di colpa, per quanto inutile, che mi prendo questa responsabilità che poi in realtà è di quelli che stanno in alto, non mia. Gli spiego questo, più o meno, e senza accennare all’Europa o alle frontiere o alle chiacchere politiche, che lui capisce ma preferisce non ascoltare. E io voglio solo che capisca una cosa: che sono stanca. Che avevo bisogno che lui reagisse. Ma a lui, ogni volta che si gira, gli fanno male le costole. Non ha lividi, dice che ha male dentro. Quei bastardi gli hanno rotto le costole, penso. Anche a lui il dolore fa aumentare l’odio. “È legale spogliarti?”. “Per vedere se hai addosso della droga, immagino di sì”. “E picchiarti?” “Questo è assolutamente vietato! Siamo in Europa!”. Che illusa.

  E più tardi, io attacco a parlargli di come a volte mi sento ingabbiata in questa relazione e lo costringo a farsi carico dell’extra che deriva dalla non esclusività sesso-relazionale. Con lui, che vive in due gabbie. Che già da tre anni è confinato in questa grande prigione che si chiama Atene. Però io ho la mia. E lui lo deve capire, gli dico. Io ho bisogno di pensare a me. Ho bisogno che tu capisca i miei problemi come i tuoi. E lui sempre col male alle costole. E alla testa.

  E io che lo supplico, e lui che cerca di capirmi, e poi di nuovo. In lotta. Ognuno con sé stesso e contro l’altro. Tra carezze, attimi di scontro, esausti, senza aver perso del tutto la speranza, stanchi, in cerca di un po’ di pace. Accettando la situazione così com’è: senza documenti, senza lavoro, senza futuro, e per di più in quarantena. Lo spazio, sempre più limitato.

  E a notte fonda, bevendo vino. In silenzio. Ciascuno per sé, ma dalla stessa bottiglia. Azizam, tesoro, you are a kuze (کوزه), un vaso. Now you are broken but later you will be a whole. Gli dico ripensando a quella poesia di Omar Khayyam che mi ha insegnato quando ci siamo conosciuti, quella che diceva che i vasi quando si rompono tornano alla terra e che dalla terra si fanno i vasi, o qualcosa del genere. Mi guarda e mi sorride.

Resta a guardarmi per un pezzo.

What? Gli chiedo.

Nothing. I just try to cry.

 

 

Ane Möntanakoa è insegnante di lingua e traduttrice, ha 26 anni e vive ad Atene.

Traduzione dallo spagnolo di Elena Cerqua. Elena è laureata in filosofia, ha 25 anni e vive a Roma.


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