Elaborare la crisi

La riconfigurazione delle relazioni come antidoto al disastro


di Anna e Francesca Argirò


In questi giorni, chi legge cerca nei libri, negli articoli di giornale, nei post sui social, un conforto, una risposta, una prospettiva. Quel punto nella pagina in cui, alla descrizione dei fatti, al rammarico per le vittime, alle tristi previsioni, fanno seguito poche righe di speranza. Insomma, quello che viene ricercato è, ancora una volta, il senso.

Si potrebbe dire che il mondo aveva bisogno di questo momento di rottura, di un ritiro, di una pausa di riflessione: che cosa stavamo facendo?

Si potrebbe dire che questo virus ha scoperchiato, ha messo brutalmente in mostra tutta la nostra fragilità, persino la fragilità dell’Occidente. Ha esposto la precarietà della vita umana e il bisogno reciproco che caratterizza la nostra esistenza sulla Terra.

Si potrebbe prendere come esempio della globalizzazione. Niente più ormai resta circoscritto a un angolo del pianeta.

Si potrebbe addirittura essere tentati di dire che siamo di fronte a una sorta di legge del contrappasso, a un capovolgimento. Che nascerà una nuova stagione politica: consapevole dei suoi limiti, delle sue responsabilità, dei mutamenti del mondo, delle persone fragili.

Si potrebbe dire di aver finalmente capito come ci si sente a vivere nel timore costante, cosa voglia dire morire come numeri, senza nemmeno la dignità della morte: così, come un’operazione d’ufficio, uno smaltimento di rifiuti infetti. Forse la nostra epoca aveva bisogno di una crisi in cui la vita appare allo scoperto, nella sua inaugurale impotenza e vulnerabilità.

Ci accorgiamo tuttavia che non è facile parlare di queste morti, di questa sfera spazio-temporale che silenziosa irrompe nella nostra rumorosa quotidianità. Chi prova a spiegare, a razionalizzare, a offrire prospettive deve vedersela con gli occhi delle vittime e dei loro familiari, dei medici e degli infermieri, involontari testimoni della tragedia di una morte solitaria. Vittime senza riti funebri, in linea con il divieto di elaborare questo lutto, e quindi senza il tempo necessario del cordoglio.

Quante persone dovremo ricordare quando il mondo ricomincerà a vivere?

Sebbene questa sia un’ epoca in cui in tutti i modi si è cercato di rimuovere il pensiero della morte e del dolore, esso era incluso nei meandri della nostra mente; eravamo in un certo senso pronti all’eventualità della sofferenza. Ciò era reso possibile dalla consolazione della vicinanza dell’altro al momento del bisogno, dalla condivisione di tale sofferenza.              

La morte in solitudine per un virus altamente contagioso, l’impossibilità di accompagnare in ospedale i nostri cari, non poter accedere a elementi esterni uscendo o lavorando, per lenire lo sconforto[user21] : non sono scenari ancora pensabili, non sono stati da noi mai immaginati e sono per questo ancora più traumatici. Ciò che prima fungeva da contenitore, da difesa psichica contro l’allagamento e il crollo dell’Io, oggi viene meno.

Come antidoto alla sofferenza, la nostra mente si poggia su dispositivi che finora hanno fornito il fondamento alla nostra esistenza: le cure, il lavoro, gli spostamenti e soprattutto il contatto umano, la relazione, la presenza dell’altro. Proprio questa presenza, così indispensabile alla vita psichica, è invece adesso il pericolo maggiore. In alcuni casi, ciò che nel mondo interiore ci creava tormento poteva essere mitigato da quello esteriore. Adesso assistiamo ad un capovolgimento a cui nessuno era pronto. Viaggiare è un pericolo, incontrarsi è un pericolo, lavorare è un pericolo, passeggiare per la città è un pericolo.

   Questo strano tempo ci chiede dunque di attingere maggiormente al mondo interno, alla riflessione, alle relazioni più intime, allo spazio chiuso della casa che protegge, per poter far fronte al dolore. In un pianeta che si reggeva sul movimento e sulla frenesia, su un tempo tutto orizzontale, siamo costretti oggi a fermarci e a contemplare soprattutto la dimensione verticale, quella in cui si può precipitare in uno spazio senza confini oppure semplicemente andare in profondità, cercando di costruire, partendo da ciò che rimane, dei meccanismi difensivi differenti.

Siamo così indotti ad un ritiro, a riscoprire la solitudine e  l’introspezione: una maniera di stare con noi stessi che, affinché non sia alienante, emarginante, dovrebbe essere in grado di aprire uno spazio interiore, privato. Al suo interno dovremmo poter rielaborare il senso di quella che era la “normalità”, dei nostri rapporti, delle nostre parole o, più semplicemente, trovare un luogo di distrazione, in cui finalmente la nostra mente può vagare libera.

E allora poniamo attenzione a ciò che abbiamo a portata di mano, cominciamo a dare importanza alle azioni quotidiane, le stesse che prima facevamo magari controvoglia, a prenderci cura di chi abbiamo vicino. Tutto, in questo rovesciamento in cui lo spazio è ristretto e il tempo dilatato, assume un valore diverso.

  Tuttavia, chi si occupa di salute psichica ci dice che non c’è introspezione senza relazione con l’altro, non esiste vita emotiva senza dialogo. La quarantena non implica l’assenza dei rapporti umani. La capacità di stare in solitudine non deve trasformarsi in isolamento. La riflessione non deve diventare ossessiva ripetizione di pensieri uguali a se stessi.

È necessario nutrire il desiderio della vita.

Come sottolinea lo psicoanalista argentino Miguel Benasayag nel libro L’epoca delle passioni tristi,

 

gli adulti […] pensano che quella attuale non sia un’epoca propizia al desiderio e che occorra innanzitutto occuparsi della sopravvivenza. E poi, si dicono, “per quel che riguarda il desiderio e la vita si vedrà dopo, quando tutto andrà meglio”. Ma è una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare dei legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro.[1]

 

Ecco che, per non cedere al “disastro”, il “legame” deve essere mantenuto vivo nonostante l’assenza della concretezza, della corporeità dello scambio. E allora, proprio come nel processo di elaborazione di un lutto, è necessario accettare la mancanza dell’oggetto (dell’altro), per poterlo ritrovare attraverso altre modalità. La tecnologia in questo ci viene in aiuto, ci permette di ricevere ugualmente uno sguardo, di sentire una voce.

Non a caso il malessere psicologico che maggiormente si riscontra in questa pandemia ha origine nell’alterazione delle modalità in cui ci relazioniamo, sia per la mancanza di contatto, che può creare sentimenti di solitudine, vissuti di ansia e depressione, sia al contrario per le convivenze forzate. Non sempre la casa e la famiglia costituiscono infatti un rifugio sicuro, ma possono in certi casi rappresentare la principale fonte di minaccia.

Oltre a doverci conciliare con questo presente, ridefinendone le coordinate e trovando un equilibrio, siamo spinti ad individuare un varco, una fessura, una possibilità, a porci una domanda sul futuro. La verticalità cui siamo consegnati presuppone allo stesso tempo uno sguardo, un movimento verso l’alto che ci permette di accedere a una visione più ampia e complessa sul mondo e sulla realtà, intensificando la consapevolezza del fatto che l’esistenza umana è  intrinsecamente relazionale e sempre più interconnessa. Il particolare dei rapporti quotidiani costruiti al di fuori delle nostre abitazioni, della cui importanza ci accorgiamo proprio ora che vengono a mancare, diventa così paradigma, testimone di una condizione globale.

Assumendo questo punto di vista, ci innalziamo verso altre domande, più complesse, universali, che ci proiettano in avanti.

Cosa ci aspetta? Come riinizieremo a vivere?

Queste questioni, che provengono da un al di là, da un luogo ancora a venire, prendono forma proprio a partire da una riconfigurazione della dimensione interpersonale. L’oltre di cui abbiamo bisogno si dischiude ancora una volta nella tensione verso il prossimo, nella ricerca di un “toccarsi”, di una vicinanza che trascenda la contingenza del contatto fisico. Questa possibilità prospetta una koinónia, una comunità, uno stare insieme che si costruisce in primis nella trama del pensiero: affinché la lontananza sia così un incentivo, una lente che rende quel che è lontano più grande dentro di noi.



Anna Argirò, laureata in filosofia a Roma, ha 25 anni e viene da Cortona.

Francesca Argirò, psicologa specializzanda a Padova, ha 25 anni e viene da Cortona




[1] Benasayag, Miguel e Schmit, Gérard. L’epoca delle passioni tristi. Trad. it di Eleonora Missana. (Milano: Feltrinelli 2005).


Un pensiero riguardo “Elaborare la crisi

  • 25/04/2020 in 10:21 pm
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    Trovo questa riflessione di altissimo livello. Sa cogliere con levità i limiti e le risorse di una esperienza straordinaria che ci ha colto di sorpresa ma che si sta dimostrando una preziosa occasione per ripensare se stessi in rapporto agli altri. Vi è nel, condurre alla relazione anche una ricognizione solitaria come l’introspezione, un superamento del mondo di ieri, fondato sull’egoismo narcisistico dell’Io e del Mio.
    Mi par di cogliere in questo documento collettivo la forte presenza del pensiero femminile. La capacità delle donne di declinare realtà e possibilità e di intravvedere il futuro da uno spiraglio del presente. Oltre alla tenacia della resistenza.
    Come scrive Frida Khalo a Diego Rivera, suo folle amore:
    ” Io vedo orizzonti dove tu disegni confini. Non come chi vince sempre, ma come chi non si arrende mai.”
    Grazie, farò tesoro del vostro contributo al pensiero collettivo. Silvia

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