Per un’esistenza condivisa

Di Niccolò Barca

 

Ovunque io mi giri il messaggio è chiaro: quale periodo migliore per riprendere quel vecchio progetto abbandonato che siamo noi stessi? Forse avevo una scusa quando il lavoro riempiva le mie giornate, ma ora che quell’alibi non c’è più dovrei davvero usare questo tempo per migliorarmi. In una società che si esalta per aver permesso a tutti di partecipare, perché non partecipare anche al proprio sfruttamento? The time is now.

Del resto, non è più la mia forza lavoro che vogliono. Nell’assenza di qualcosa da produrre l’unica cosa rimasta da fare è produrre se stessi. Tanti onesti imprenditori del sé, artigiani dell’io il cui prodotto finale è un curriculum con almeno due font e tre colori diversi, per risaltare le qualità migliori. Senza mai dimenticare di essere se stessi: malleabili, flessibili, adattabili. Be yourself.

Non so, forse è colpa mia, forse non ci provo abbastanza. Dovrei imparare una terza lingua. Dovrei diventare il brand di me stesso, raffinare il mio copywriting, trasformare il mio sorriso in un logo. Ma soprattutto dovrei smettere di lamentarmi. Si, magari il mondo non è perfetto ma non è forse il miglior mondo che ci sia mai stato? Guarda tutti gli altri come si divertono. Sii più felice e vedrai che passa. Stay positive.

 

Mark Fisher, rilanciando l’Institute for Precarious Consciousness, scrisse che mentre la noia era la condizione psicologica dominante del Fordismo, l’ansia è l’emozione costitutiva del capitalismo neoliberista. Le due cose non sono sconnesse. È il neoliberismo che intuisce la potenzialità insita nella critica alla ripetitiva monotonia della società fordista. E mentre i partiti e i sindacati di sinistra, non prendendo parte all’attacco contro la noia degli anni ‘60, ne diventavano oggetto, i neoliberisti offrivano ad ogni individuo un mondo diverso, non più replicabile e prevedibile ma “unico” ed eccitante.

L’ansia è il prodotto delle stesse forze che spodestarono la noia. Da una parte come conseguenza della precarietà normalizzata dalle politiche neoliberiste, che si sostituisce ad un sistema di governo che da secoli si fondava sulla capacità di offrire ai propri soggetti un qualche tipo di sicurezza da contingenze esterne. Dall’altra ponendo l’individuo, calcato naturalmente sul modello dell’uomo bianco, al centro del mondo: il carattere sociale della nostra esistenza veniva lentamente sgretolato dalla competitività sfrenata, dalla feticizzazione del privato, dal mito della responsabilità individuale. Come ha scritto l’antropologo Marshall Sahlins, il neoliberismo ha trasformato l’idea che il nostro interesse personale si radica nell’interesse comune nel suo opposto: l’interesse comune prospera se ognuno fa il proprio interesse.

L’era social-democratica aveva dato alle persone l’impressione che esistesse una collettività cui rivolgersi per risolvere i propri problemi, che così assumevano immediatamente un carattere collettivo. I 40 anni a seguire hanno lentamente smantellato questa convinzione, sostituendola con una formula diventata rapidamente egemonica: sono solo io il motivo del mio successo, sono solo io la causa del mio fallimento. Non esistono più problemi sociali ma malattie individuali da risolvere individualmente. Le soluzioni del resto non mancano: anti-depressivi ed oppiacei, app per la positività, influencer e psicologi su youtube, quel libro eternamente bestseller: “21 consigli per diventare una persona migliore”, “7 regole per vivere meglio”, “11 passi verso la felicità”.

 

“E poi arrivò il coronavirus, e nulla fu più come prima”. Chissà se un giorno potrò usare questa frase riferendomi al momento in cui tutti ci siamo accorti che abitavamo un mondo in caduta libera. È possibile, no? La natura sociale di questo virus, il modo in cui intreccia natura, società e individui, ci costringe a ragionare sulle interconnessioni tra l’infinito numero di elementi che ci costituiscono e che influiscono sulla nostra vita. Un collettivo di anarchici francesi scriveva che tutte le connessioni che costituiscono noi e il nostro rapporto con il mondo, tutte le forze che ci compongono, non formano un’identità finita al cui esterno c’è il mondo, ma una singola esistenza condivisa da cui emerge, a volte, quell’essere che dice “io”. A livello percettivo, il processo di individualizzazione che ha caratterizzato l’evoluzione della civiltà occidentale, poi violentemente imposto al resto del mondo, ha creato una separazione radicale tra l’individuo e il mondo esterno di cui fanno parte al contempo natura e società.  Il virus, così come ogni nuovo cataclisma climatico, ha rivelato quanto questa separazione sia soltanto apparente.

È per questo che il carattere sociale di questa sofferenza e della sua risoluzione ha un valore intrinsecamente politico. È evidente che da qui non usciremo da soli, e questo è vero sia per quanto riguarda il contagio che per la crisi economica che ne segue. La consapevolezza della natura collettiva dei nostri mali può e deve portare alla comprensione che solamente soluzioni di natura collettiva possono contrastarli. L’universalità di questa crisi offre una via d’uscita dalla morsa asfissiante della responsabilità individuale e della meritocrazia con le quali si giustificano le disuguaglianze delle nostre società. Il successo del neoliberismo è stato anche quello di convincere ciascuno di noi che i problemi che ci affliggono sono in grossa parte attribuibili a noi stessi. L’ansia che affligge strati sempre più ampi della popolazione è così spiegata come una conseguenza della nostra incapacità di stare alle regole del gioco. La soluzione, di conseguenza, sta nel sottoporsi in maniera sempre più ferrea a queste regole.

Politicizzare l’ansia significa rendersi conto che la precarietà che questa crisi sta mettendo a nudo non è un’eccezione ma la regola. Significa sottolineare la natura sociale dei problemi che ci affliggono. Offrendo una piattaforma per discutere dei problemi che ci affliggono, la politica ci permette di accorgerci che non siamo soli al mondo e che la soluzione ai miei problemi sta nell’agire collettivamente per affrontarne le cause strutturali. Forse l’isolamento ci ha ricordato il valore dello stare insieme. Forse la solidarietà che è fiorita per rimediare alle mancanze del governo ci ha ricordato il valore del tessuto sociale dei nostri quartieri. Forse il fatto che questa crisi non potrà essere attribuita ad una responsabilità individuale ci permetterà di cercare soluzioni collettive. Forse la paura che un’emergenza come questa possa riaccadere ci costringerà a ragionare sul nostro rapporto con l’ambiente. Scriveva Don Milani nel ‘67: “ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. Forse torneremo a fare politica.

 


Niccolò Barca, giornalista, ha 26 anni e vive a Roma

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