Il corpo e il rischio

di Paola Puggioni

 

La chiave di lettura dell’attuale quotidianità si pone sotto il segno del “distanziamento sociale”, concetto che ha completamente mutato l’assetto dei rapporti sociali in nome del rischio. Ma esattamente, in cosa consiste questo rischio, e quali sono le sue implicazioni?  

Questa riflessione nasce alla luce di quanto accaduto negli Stati Uniti, dove i corpi di persone defunte a causa del covid-19 sono stati chiusi, nel più totale anonimato, dentro casse di legno, per essere poi gettati in fosse comuni, privati del nome, ammassati senza esser stati riconosciuti da nessuno, spogliati di qualsiasi tipo di dignità. Questa immagine appena descritta, oltre a rappresentare in modo veritiero e crudele l’effetto devastante prodotto dall’epidemia, sancisce la nuova condizione umanitaria che stiamo vivendo: tutto ciò accade infatti in nome del rischio.

Ad oggi, la morte in solitudine genera un’enorme ferita per l’umanità: queste stesse persone (attualmente recepite unicamente nei termini di corpi infetti da smaltire) di fronte alla morte e al rischio perdono qualsiasi tipo di dignità umana. Trattati come meri corpi, ora più che mai privi della vita biologica, vengono accatastati in fosse comuni o, nella migliore delle ipotesi, condotti in processione verso i crematori.

In nome del rischio, la lettura che si propone oggi dei rapporti sociali è quella del “possibile corpo di contagio”. La spersonalizzazione è al centro della situazione attuale e, forse, sarebbe da considerarsi come il rischio più autentico contro il quale l’umanità sta impattando. Basti pensare alle soluzioni ipotetiche che sono state pensate per individuare i possibili corpi-vivi di contagio, quali le applicazioni di tracciamento da installare nei telefoni, capaci di intercettare il nemico; oppure la soluzione, messa in atto dal comune di Roma, che autorizza la “segnalazione per assembramento di corpi” attraverso una piattaforma online, tramite la quale scatta in automatico la denuncia.  

In questo scenario di grave crisi, dai tratti sotto ogni punto di vista apocalittici, sarebbe allora utile parlare del disagio che si sta creando verso “l’altro”. E non ci si riferisce necessariamente all’atteggiamento che i vivi mantengono nei confronti del prossimo anch’egli vivo, ma anche di quello che i vivi mantengono nei confronti dei morti. A tale scopo, è utile riportare la definizione proposta da Giorgio Agamben, secondo il quale le condizioni attuali ‹‹trasformano di fatto ogni individuo in un potenziale untore››, in una percezione dell’altro come costante fonte di rischio per la vita biologica propria e altrui. Nel terzo volume di Homo sacer, intitolato Quel che resta di Auschwitz, Agamben scrive: ‹‹quel che è certo è, comunque, che le vittime si vedevano così negata la dignità della morte, erano condannate a perire – con un’immagine che ricordava quella rilkiana delle “morti abortite” – di una morte non morta›› (p. 68). Quest’immagine, oggi così vicina alla nostra quotidianità tangibile, introduce la forma ossimorica di morte non morta, che, anche senza alcun tipo di articolazione, segnala e denuncia la negazione dell’esperienza del trapasso.   

Per comprendere meglio il discorso, sarebbe opportuno soffermarsi sulla concezione che Heidegger delinea della morte, definita come dimensione più autentica dell’Esserci nonché sua possibilità più propria. L’uomo, secondo il filosofo tedesco, attraverso la morte si libera dal proprio smarrimento nel mondo del “si”, rendendo possibile la propria esistenza fattizia: ‹‹ce la spassiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla “gran massa” come ci si tiene lontani, troviamo “scandaloso” ciò che si trova scandaloso. Il si, che non è un Esserci determinato ma un tutti (non però come somma), decreta il modo di essere della quotidianità››.    

Nello scenario che stiamo vivendo oggi, anche la possibilità di far esperienza della morte viene negata, e, per riprendere Heidegger, l’Essere-per-la-morte è precluso: gli uomini non muoiono, ma vengono prodotti unicamente come cadaveri. Se, nell’essere-per-la-morte, era possibile creare il possibile attraverso l’esperienza dell’impossibile (la morte), ora questo stesso impossibile viene prodotto dal possibile.  

L’idea che il cadavere meriti manifestazioni di rispetto attraverso una degna sepoltura è patrimonio originale dell’etica: già nel diritto arcaico l’onore, le attenzioni e le cure per il corpo del defunto avevano lo scopo di impedire che l’anima del morto rimanesse tra i vivi sotto forma di presenza minacciosa. Pertanto, i riti funebri sancivano il passaggio dal mondo terreno al regno dei morti, garantendo la protezione ai cari in vita, ragion per cui nel diritto romano e in quello greco era d’obbligo svolgere i funerali. Basti pensare al celebre episodio, contenuto nell’Iliade, in cui subito dopo la morte di Ettore i suoi famigliari chiedono disperatamente indietro il corpo dell’eroe al fine di potergli garantire gli onori funebri:

 

Innalzato il sepolcro dipartîrsi

Tutti in grande frequenza, e nella vasta

Di Prïamo adunati eccelsa reggia

Funebre celebrâr lauto convito.

Questi furo gli estremi onor renduti

Al domatore di cavalli Ettore.

 

Anche nella celebre tragedia sofoclea, Antigone, troviamo espressa tutta la necessarietà della pratica del rito funebre, dell’‹‹onor di tomba››: il re Creonte, trasgredendo le leggi divine nella decisione di seppellire solo uno dei fratelli Eteocle e Polinice, incontra l’ostilità di Antigone, che afferma invece l’importanza della vita dopo la morte. Un corpo mutilato, lasciato in preda agli animali, privato dei riti funebri, è da considerarsi come un “rigetto” della cultura. Polinice, tramutato in corpo-oggetto, diviene oggetto di scontro tra Creonte ed Antigone; quest’ultima, sfidando la legge e la morte, decide di rendere il rito funebre al fratello, perché a suo parere la legge degli dèi ha più valore rispetto a quella dello Stato.  

La tragedia di Antigone spalanca le porte alla questione più ampia che vede il confronto tra Stato ed etica: i decreti emanati nelle ultime settimane hanno privato per mesi i defunti del rito funebre e, sebbene questa condizione sia la conseguenza di uno stato di emergenza, non è lecito oscurarla o riassorbirla all’interno delle misure provvisoriamente in atto. 

Rileggendo ciò che sta accadendo in questi giorni attraverso la chiave qui enunciata, ben si comprende la deriva etica della nostra società. Il principio del rischio soffoca e a tratti cancella la persona, percependo in essa soltanto il corpo e soltanto il corpo nella degradazione e nello svilimento della morte.           

Concluso questo devastante arco di storia, oltre al pensiero della ripartenza economica, sarà necessario ri-educare all’altro, rifondare un’idea di umanesimo che si sleghi dal rischio, dalla pericolosità. I più si augurano di tornare ben presto alla normalità, ma anche qui ci sarebbe molto su cui disquisire, perché non si può includere nel concetto di normalità l’immagine di migliaia e migliaia di persone lasciate morire in mare perché ritenute “corpi di troppo”. L’immagine dei migranti lasciati morire in mare è l’esatto equivalente di quella dei cadaveri ammassati negli Usa in una fossa comune, o di quella degli innumerevoli corpi di persone che hanno sfilato per le strade di Bergamo nei veicoli militari. Un mondo che nega la possibilità della morte non può definirsi normale, moralmente giusto. 

    Probabilmente, ciò che sta accadendo in questo periodo a livello sociale costituirà l’oggetto di un’importante riflessione volta a rifondare i principi etici della nostra comunità, che, ad oggi, pare essersi persa nel baratro del rischio.

 

Paola Puggioni è laureata in filologia moderna; ha 25 anni, è nata a Sassari ma vive a Roma.

 

 


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *