La vita al centro. Appunti per una politica dei saperi

Di Claudia Gadaleta, Marco Spagnuolo, Sabrina Papagni

 

In tempi di solitudine e reclusione forzata, assistiamo, da studenti, alla manifestazione del lato più mortifero dell’organizzazione dell’università, che trova nella didattica frontale il suo epigono. Mortifero e mortificante è stare davanti ad un PC ad ascoltare per ore lezioni che, adesso, si mostrano nella loro natura di soliloqui autoreferenziali. E il sapere istituzionalizzato appare d’un colpo un sapere impersonale e passivante, un qualcosa che sembra quasi andare da sé, restringendo le modalità di partecipazione di chi lo recepisce alla semplice (re)attività del ricopiare e del prendere (male) appunti. In fondo, non è questa la vera applicazione della metafora della mente come «tabula rasa», su cui inscrivere il sapere dei maestri?

La formazione è un processo di soggettivazione, per natura ambivalente: accanto alla trasmissione verticale del Sapere, si sviluppano pratiche spontanee di condivisione orizzontale dei saperi. In altri termini: da un lato, un processo unidirezionale (dal docente allo studente); dall’altro una dimensione circolare in cui il vettore-sapere viaggia in maniera multidirezionale, seguendo linee e velocità delle relazioni, e si libera una ricchezza contemporaneamente singolare e comune.

Crediamo che, almeno nell’ambito universitario, studenti e studentesse abbiano gli strumenti per poter immaginare e praticare differenti modi di vivere la formazione. Ciò che costituisce, al massimo, un ostacolo è la mancanza di comunità e relazioni spontanee, dovuta per lo più alla feroce imposizione, in alcune università, di una netta divisione: il sapere sta nelle aule, fuori semmai si «chiacchiera». Una struttura del genere non è più sostenibile: questa divisione dei ruoli nel processo di formazione è l’immagine speculare della divisione del potere, e sovrascrive alla funzione dell’istituzione universitaria attività finalizzate alla propria riproduzione. È nell’incrocio tra queste «forze esogene» che gli studenti e i loro saperi rimangono come intrappolati. Il meccanismo che ne deriva è, come dicevamo più su, mortifero e mortificante, perché privo di senso: «Dal gioco tra posizioni opposte, e nell’ambivalenza così prodotta, la nuova politica spinge il soggetto a costruirsi in una “gabbia d’acciaio”, separando le rivendicazioni all’autonomia dalla solidarietà, la libertà dall’uguaglianza. I soggetti sono così “costruiti” come imprenditori di sé stessi che pensano alla loro libertà economica e mai ai diritti sociali propri e altrui. Nel caso in cui si limitino a incarnare il modello neoliberale sono tacciati di egoismo, narcisismo, individualismo. Se invece si “ribellano” sono tacciati di non volere rispettare la regola che obbliga a fondare la propria “impresa personale” e accettare il lavoro in vista di una “carriera”».[1]

Crediamo sia, invece, il momento per un’impresa collettiva, che faccia del distanziamento fisico un’opportunità per intessere nuove reti e relazioni, sulle cui onde e attraverso i cui nodi far circolare desideri, progetti, saperi. In una parola, pensare il comune, pensare una vita comune. Rilanciamo, dunque, le parole di Roberto Ciccarelli: «L’imperativo di salute pubblica che oggi ci confina in un panico freddo potrebbe essere rovesciato da un’intelligente passione comune che nutre l’attitudine alla cura reciproca; alla cooperazione, e non all’obbedienza; all’autonomia collettiva, e non alla delazione individuale».[2] Cura reciproca, cooperazione, solidarietà e autonomia collettiva possono essere i quattro angoli della «borsa», il cui manico immaginiamo siano i saperi; quella borsa che per il Subcomandante Marcos era la figura della resistenza, perché «la diversità è ricchezza».[3]

Una ricchezza non immediatamente qualificabile nei termini del valore di scambio, ma mediatamente in quelli del loro valore sociale. Una ricchezza non retribuita, invisibile, e non riconosciuta. Chi si sognerebbe mai, infatti, di erogare un reddito agli studenti e alle studentesse? Cosa producono? Quanto valgono per la società? Le svariate obiezioni ad una tale ipotesi derivano appunto da domande sbagliate, figlie dell’ideologia neoliberista e del progressismo lavorista. Di contro, siamo coscienti del fatto che formazione e ricerca non siano degli «investimenti», ovvero delle temporanee «perdite» (spesa pubblica) in vista di un «guadagno» (privato, ça va sans dire), quanto piuttosto delle sorgenti di lavoro vivo. Di quest’ultimo si tratta, infatti, quando si parla di produzione; ma nella società neoliberale e nel suo linguaggio, il lavoro vivo scompare a favore di una centralità dei prodotti (lavoro morto). L’attenzione va tutta a ciò che si produce e come lo si produce, ma quasi mai a chi produce: la forza lavoro.

Molte sono le difficoltà che si stanno riscontrando nella cosiddetta «didattica a distanza», e molte di esse vengono interpretate come «errori» o «gap» tecnici, in una logica di colpevolizzazione individuale. L’accesso alla rete e la qualità degli strumenti informatici a disposizione degli studenti e delle loro famiglie non sono solo una questione tecnica. Sono, a nostro avviso, componenti della cartina di tornasole delle disuguaglianze socio-economiche, che in questa situazione si rende sempre più visibile. In questi termini, appare chiaro che, dietro l’analisi sul mero funzionamento delle piattaforme e dei mezzi informatici, si nasconda la vecchia morale liberale: la povertà, o l’indigenza, o anche solo il mancato accesso a qualche bene è una colpa individuale.

Un esempio emblematico della questione riportata sono i cosiddetti studenti-lavoratori, per i quali le difficoltà e le problematiche dell’emergenza si vanno ad aggiungere alla gravità delle condizioni «normali». È anche per questo che riteniamo necessario un reddito di quarantena e, insieme, una revisione complessiva dei sistemi di tassazione nei diversi istituti; non nell’ottica di un assistenzialismo sterile, ma come un modo per ripensare lo statuto dello studente.

Noi siamo forza lavoro. Perché pensare è agire: l’attività, per ciò che riguarda l’umano, secondo Spinoza, è propriamente il pensiero; essa precede e prepara l’operare, è la sua causa. Un’attività che non produce immediatamente valore di scambio, ma che ne è presupposto necessario. A proposito della parola tedesca utilizzata da Marx [arbeitskraft], Ciccarelli ha messo in risalto la seconda parte [kraft]: «Kraft in tedesco significa forza, facoltà e capacità. La loro compresenza segnala l’esistenza di una facoltà che rende possibile esercitare le diverse funzioni del corpo, della ragione, dell’immaginazione […]. Forza lavoro è l’insieme delle facoltà implicate in una prassi produttiva e nella vita: sensibilità, intelletto, ragione, giudizio. È la facoltà delle facoltà».[4] Possiamo spiegare così la cecità della «politica» di fronte a questa crisi: la produzione di valore (economico) implica necessariamente la formazione, ma quest’ultima non implica necessariamente a sua volta che vi sia una produzione di valore (per lo meno, non quello di scambio). La differenza sta nel modo di guardare le cose. Il neoliberismo ci impone di osservare il reale come una pluralità di mezzi che noi, «soggetti imprenditoriali», dovremmo sfruttare al meglio per realizzare i «nostri» fini, che in ultima battuta non sono altro che accumulazione di capitale.

Proviamo a pensare differentemente: la solidarietà e la cura reciproca, nell’orizzonte più ampio della vita singolare e collettiva nella crisi pandemica che stiamo vivendo, in cui «nessuno si salva da solo», possono configurarsi infatti come le chiavi che aprono le porte dello stare al mondo e della riappropriazione del sé; o, con le parole di Papa Francesco, della rivendicazione della propria visibilità.


Claudia Gadaleta, Marco Spagnuolo, Sabrina Papagni, studenti di Filosofia, hanno 20, 20 e 21 anni e vivono a Bari



[1] R. Ciccarelli, Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, manifestolibri, Roma 2018, p. 229.

[2] R. Ciccarelli, La cittadinanza virale, «Il Manifesto», 9/4/2020: https://ilmanifesto.it/la-cittadinanza-virale/.

[3] Subcomandante Marcos, La quarta guerra mondiale è cominciata, manifestolibri, Roma 1997, p. 44.

[4] R. Ciccarelli, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, Roma 2018, p. 84.


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