Cigni neri, carne rossa e divoratori di tutti i colori

Cigni neri, carne rossa e divoratori di tutti i colori

Coronavirus, allevamenti intensivi e contagi

di Fabrizio Battistelli

 

      Ormai la polemica tra Stati Uniti e Cina circa le responsabilità sull’origine della pandemia ha definitivamente assunto le forme della guerra psicologica, trasferendo il duello tra la “vecchia” e la “nuova” superpotenza dai dazi doganali alle accuse di aver provocato il contagio; a questo punto, quindi, il suo interesse è essenzialmente geostrategico.

      La vicenda invece della trasmissione del Covid-19 dagli animali all’uomo (zoonosi) rimane un interrogativo serio e, per scienziati, medici e pubblico informato, costituisce un tema della massima portata. Al netto delle forzature propagandistiche degli Stati lungo la consueta sequenza attacco/difesa/contrattacco, il dibattito culturale ha preso quota a metà marzo con l’intervento di Jared Diamond, brillante divulgatore di antropologia umana con il suo libro Armi, acciaio e malattie (Einaudi). In un articolo sul Washington Post del 16.03.2020, firmato insieme al virologo Nathan Wolfe e pubblicato cinque giorni dopo in Italia da La Repubblica, Diamond è entrato a gamba tesa nella discussione sulla provenienza della pandemia, denunciando il ruolo che vi ha rivestito la propensione dei cinesi a utilizzare la carne degli animali selvatici, quali lo zibetto in cucina e le scaglie del pangolino nella medicina tradizionale. Senza arrivare a conclusioni drastiche come quelle del presidente del Veneto Zaia, che una ventina di giorni prima aveva dichiarato: “i cinesi? Li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi” (dovendo poi scusarsi con l’ambasciatore della Repubblica popolare cinese in Italia), Diamond e Wolfe concludevano sottolineando la necessità e insieme la difficoltà, anche per un governo in grado di imporre dall’oggi al domani la quarantena a una città di undici milioni di abitanti come Wuhan e a una regione (l’Hubei) con una popolazione pari a quella italiana, di estirpare abitudini e tradizioni inveterate.

    Sebbene anche questa interpretazione sia inquadrabile nel filone dell’”orientalismo” (ovvero della stereotipizzazione dell’alterità come pittoresca e insieme inquietante, insomma inferiore) un merito lo possiede: quello di aver richiamato a livello di discorso pubblico il cruciale tema del “salto” compiuto dal contagio virale tra le specie viventi. Il passaggio da una lettura aneddotica della questione a una di carattere strutturale verrà compiuto a inizio aprile da Angel L. Lara. Di questo intellettuale spagnolo che insegna a New York Pierluigi Sullo ha presentato, su Il manifesto del 4 aprile, una magistrale analisi circa l’origine della pandemia, intitolata: Covid-19, non torniamo alla normalità. La normalità è il problema.

    La ricostruzione che Lara effettua sulla base della letteratura scientifica sull’argomento è estremamente convincente. In sintesi, il Coronavirus risulta endemico in alcuni animali, principalmente nei pipistrelli. Data la scarsa plausibilità di un contatto diretto tra questi animali e gli uomini, è molto probabile che l’animale-ponte tra le due specie sia stato il maiale, allevato in Cina in gigantesche fattorie industriali (per fare un esempio, quella di mucche di Mudanijiang contiene centomila capi). A indicare la strada per una prevenzione strutturale dei contagi (se mai qualche governo avesse voluto seguirla) era stata nel 2004 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (oggi contestata dagli Usa per le ragioni sbagliate, perché invadente e non perché troppo timida) segnalando l’eccesso di domanda di proteina animale come causa di una pericolosa intensificazione degli allevamenti. A sua volta l’OMS, per la sua allerta circa i possibili contagi interspecie, si era ispirata al rapporto di ricerca presentato nel 2002 da un’organizzazione non governativa nata in Gran Bretagna e oggi presente in molti paesi del mondo, la Compassion in World Farming-CWF. Aspetto particolarmente interessante, la CWF era pervenuta alle sue conclusioni muovendo da una prospettiva non di politica sanitaria, bensì di tutela degli animali da allevamento e di prevenzione delle crudeltà ai loro danni. Già nel 2002 la conclusione del rapporto CWF era che la cosiddetta “rivoluzione nell’allevamento”, che stava imponendo ovunque il modello dei macro-allevamenti intensivi di bestiame, non soltanto rovinava i piccoli allevatori individuali, ma favoriva l’aumento delle malattie trasmesse alle persone attraverso gli alimenti di origine animale.

       Il trattamento rispettoso nell’allevamento degli animali propugnato da Compassion in World Farming è solo apparentemente una missione di “nicchia”. In realtà, essa comporta un profondo ripensamento del rapporto dell’uomo con le altre specie viventi e, per il loro tramite, con la natura. Ovvero, in ultima analisi, con sé stesso. La letterale e non solo metaforica bulimia degli esseri umani (i “divoratori” del titolo) coinvolge un po’ tutti noi. In alcune culture, poi, sfiora forme ossessive quando identifica come unica fonte di alimentazione degna di essere adottata la carne, specificamente rossa, possibilmente incorniciata da un osso a forma di “T”, nella situazione ottimale bene abbrustolita sulla brace di un barbecue.

     Un’ampia serie di studi mostra i guasti ambientali provocati dall’allevamento intensivo degli animali, in particolare dei bovini, grandi consumatori di acqua e di cereali che, a loro volta, necessitano di terreni sempre più ampi, ricavati abbattendo migliaia di chilometri quadrati di foresta. Questo accade attualmente nell’Amazzonia (che secondo il presidente Bolsonaro appartiene al Brasile e basta) al fine di lasciare spazio alle coltivazioni di soia per il bestiame.

     A questo scempio si unisce l’innaturale contiguità fra gli animali selvatici, assediati in territori sempre più ridotti, e gli stessi animali domestici – bovini, polli, maiali – allevati in gigantesche fattorie industriali in spazi irrisori, al buio e nella sporcizia. In questo brodo di coltura essi sono divenuti oggi i più probabili tramiti del Coronavirus, come già di altre epidemie quali l’influenza aviaria del 2003 e quella suina del 2009. C’è da chiedersi a quali altri messaggi debba ricorrere la biosfera – dal grande delle foreste pluviali all’infinitamente piccolo dei virus – per convincerci dell’intrinseca e insostituibile unità della specie umana con la natura.

 

 

Fabrizio Battistelli, sociologo, ha 71 anni e vive a Roma.

 

 


Un pensiero riguardo “Cigni neri, carne rossa e divoratori di tutti i colori

  • 28/04/2020 in 8:29 pm
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    Grazie per questo pezzo che affronta tematiche a me care. Condivido a pieno l’urgenza di ripensare il rapporto degli esseri umani con il mondo animale e vegetale. Mi sento di aggiungere che all’interno degli allevamenti intensivi viene fatto uso massiccio di antibiotici in maniera sistematica, somministrati agli animali per cercare di contrastare infezioni a cui sono esposti facilmente trovandosi spesso in uno spazio vitale minimo. Questo rende gli allevamenti dei laboratori e spesso permette ad un virus di creare dei ceppi sempre più resistenti agli antibiotici. In più è stato denunciato anche l’inquinamento ambientale nelle prossimità degli allevamenti in cui vengono abbandonate carcasse putrescenti di animali che non vengono interamente macellati o scartati, riversando malsane l’aria e l’acqua in prossimità di allevamenti e mattatoi.

    Aggiungo poi un’altra considerazione che riguarda il consumo di carne animale, che come è stato notato nell’articolo è legato al virus, e lo è doppiamente perché sappiamo che il sistema immunitario è rinforzato da una dieta sana (che può fare a meno del consumo di carne e derivati del latte) e da attività fisica. Un sistema sanitario efficiente dovrebbe voler prevenire piuttosto che curare. Non però esclusivamente attraverso forme di distanziamento sociale, ma anche promuovendo uno stile di vita sano. È noto che il virus colpisce con sintomi più acuti chi ha patologie pregresse, compresi disturbi cardiaci, diabete (e suppongo molti altri). Certo, queste patologie soprattutto in forma grave sono anche dovute al dna, ma anche causate dall’ambiente in cui si vive e dall’alimentazione.

    Infine vorrei portare l’attenzione su un ultimo dato che è stato evidenziato, cioè la correlazione tra la diffusione del virus e l’inquinamento da polveri sottili.

    Ecco dunque mi trovo pienamente d’accordo nella necessità di ripensare un modello di vita etico e che tenga conto del sistema naturale, della biosfera, in cui viviamo. A tal proposito rimando anche alle parole (suggestive ma intelligenti) della filosofa indiana Preethaji che si possono trovare su youtube.

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