Fare bene, oltre il virus

Chiara Mattioli

 

Nel bel mezzo della pandemia, quando l’opinione pubblica aveva più o meno conquistato il concetto del gruppo, del bene collettivo, sono stata travolta da una serie di eventi terribilmente individuali. Mi sono abilitata, concludendo, così, una parte del mio percorso di studi (sì, sono tra quei neo-medici del decreto); ho trovato lavoro (capirai, di questi tempi gli unici che non incontrano difficoltà siamo noi); mi sono trasferita in una casa lontano dalla famiglia (per limitare il contagio, s’intende, ma allo stesso tempo per avere l’occasione di conquistarmi, anche se temporaneamente, i miei spazi).

Ho quindi esultato dentro e fuori per questi successi, dimenticandomi quasi del resto, del contorno, a tratti sentendomi colpevole per non riuscire ad immedesimarsi in quel sentimento comune di sfiducia e di stallo che accompagna la maggior parte dei miei connazionali. La mia parola per la quarantena era stata fin dall’inizio “impegno”: nello studio, nella lettura, nell’informazione, perché il tempo non fosse vano e potesse aumentare la mia consapevolezza e le mie conoscenze. Gli eventi hanno solo accelerato il tutto.

Ho iniziato a lavorare con pazienti covid circa due settimane dopo aver ricevuto l’abilitazione, in una maniera così repentina e caotica che mai avrei immaginato. La verità che mi si è palesata fin da subito è stata che non ha cambiato niente da parte mia il fatto che questi pazienti fossero affetti dal virus. Quel famoso “impegno” scelto in tempi non sospetti e sempre presente come pensiero guida si è immediatamente confermato un arduo compito, del tutto scollegato, però, dalla situazione attuale. La paura di avere una responsabilità del genere su una persona è la stessa che avrei avuto alla prima esperienza lavorativa al di fuori della pandemia. Il peso delle scelte, l’attenzione nei rapporti con i pazienti, i loro parenti e i colleghi, lo sforzo per “fare bene”, che questa esperienza mi sta richiedendo, sono immensi e non hanno grandi legami con il coronavirus. In più, la soddisfazione di mettersi alla prova in quello per cui ci si prepara da anni e la paura che accompagna questo momento sono dei concetti talmente individuali che inevitabilmente rimangono svincolati dal contesto.

Per questo trovo intollerabili quelle storie strappalacrime che fanno vedere i sanitari come degli eroi, come se facessero qualcosa di eccezionale: ognuno continua a fare bene, “più bene” possibile, non solo nel senso di qualcosa di migliore, ma soprattutto di qualcosa di buono, che sia soddisfacente prima di tutto per sé stessi e che poi si rifletta in un beneficio per gli altri. L’impegno e l’amore che si può scegliere di mettere nella cura del paziente, la dedizione che gli si dona non variano in base ad un tampone e non hanno adesso una rilevanza maggiore perché gravati dal peso di una mascherina. Quella tensione verso il buon risultato, verso il successo, è sempre la stessa e soprattutto non è (come del resto non era nemmeno prima) propria solo della classe sanitaria.

Il periodo attuale ha solo fatto emergere ancora di più l’esigenza di far bene, ma questo impegno è e deve essere costante nel nostro agire, al di fuori dei tempi. È l’unico individualismo che porta ad un vantaggio collettivo, perché, anche se qualche cinico potrebbe negarlo, le occasioni nelle quali ci sentiamo più soddisfatti sono quelle in cui qualcuno fruisce del nostro lavoro, ci ringrazia più o meno esplicitamente e ci fa capire che di quello per cui ci impegniamo vale la pena. Covid o no.

 

Chiara Mattioli, medico, ha 26 anni e vive a Firenze

 




Un pensiero riguardo “Fare bene, oltre il virus

  • 29/04/2020 in 10:42 pm
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    Condivido in pieno che “fare bene” il proprio lavoro in una struttura pubblica a beneficio degli utenti rappresenta il giusto principio ispiratore “individuale” che porta ad un vantaggio collettivo.

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