Radicalizzare la quarantena

Di Andrea Prizia

 

In un contatto – rigorosamente digitale – di questi giorni, un corpo amico in quarantena mi ha confidato una paura nuova, scaturita da questa condizione di isolamento: paura di avere un proprio tempo non più pubblico, senza compiti definiti, a difesa della propria incolumità, in qualche modo più libero ma, proprio per questo, inquietante. Condivido questa inquietudine, come credo molti di noi, e a partire da essa, consapevoli che potremmo essere approssimativi e poco lucidi, possiamo porci alcune domande sulla nostra condizione, sapendo che potrebbero rimanere senza risposta, così come i tracciati che apriremo senza poterli percorrere fino in fondo. Eviteremo le discussioni su non troppo definiti stati di eccezione, questioni mediche et similia, chiedendoci da dove proviene questo nuovo modo di vivere, di cui prendiamo atto, e se ci mostra qualcosa. 

Voglio anche confessare un certo senso di colpa nello scrivere queste righe: riflettere sull’isolamento a casa è possibile solo per chi una casa ce l’ha. I rimossi della nostra società, compresi coloro per i quali anche la casa è luogo ostile, tornano ancora e ancora, a dichiararci la loro presenza e a indicarci come le nostre leggi, come sempre, «vietano tanto ai ricchi quanto ai poveri di dormire sotto i ponti». Vedremo però come la loro rimozione sia coerente con quanto stiamo per descrivere, così che almeno in parte verseremo un obolo a ripagare l’infinito debito con i deboli. Tentiamo, comunque. 

Prendiamo le mosse dallo spazio privato. Non è forse scorretto dire che viviamo il paradosso per il quale il più alto gesto di comunità è l’isolamento. La digitalizzazione dei rapporti sociali non ha impedito a ciascuno di noi di sentire clamorosamente la privazione anche soltanto del corpo dell’altro. Siamo costretti a distanziarci, per preservare noi stessi e il prossimo, scoprendo così che la distanza dall’altro è la nostra condizione naturale e il suo attraversamento è la metafora di ogni socialità e della relativa difficoltà. Possiamo capovolgere la tesi per cui il prossimo sarebbe, nell’epidemia, abolito o, peggio ancora, presente solo con la colpa di untore: il distanziamento è in realtà naturale – ogni singolo è distante dall’altro, c’è spazio tra di noi – e in questo caso è motivato e ha un fine.  Proprio perché l’untore potrei essere io stesso, sento il dovere di preservare l’altro, magari più debole di me: ma in generale, è scorretto parlare di “untori”. Un’epidemia mostra il cortocircuito della colpa: nella misura in cui tutti siamo potenzialmente colpevoli verso il prossimo e verso noi stessi, la colpa cede il passo all’azione collettiva di riconoscimento delle esigenze e della uccidibilità dell’altro, finendo per dissolversi nella comunità dei mortali – la ricerca del “paziente zero” è, significativamente, interessante solo per medico. Ci troviamo in un rapporto stretto e inedito con la morte. Non solo infatti siamo esposti alla morte che incombe, pur essendo un possibilità remotissima per la gran parte della popolazione, ma iniziamo a pensare che potremmo dare la morte, uccidere, senza colpa alcuna, il nostro prossimo. In questa comunità possiamo risentire la morte attorno alla nostra esistenza in tempi di emergenza. 

Già, siamo in una emergenza. Ma cosa c’è di così nuovo in questa nostra situazione per dichiarala tale? Perché tanta sorpresa e tanti provvedimenti nel trovarsi di fronte la morte o la malattia? Le focalizziamo e possiamo finalmente ricordare la loro presenza quotidiana o abbiamo almeno l’occasione di farlo. In questo momento siamo circondati da morte effettiva, potenziale, di ogni età. Essa incombe, la percepiamo accanto a noi, quando non ci sentiamo addirittura suoi potenziali agenti: ma appunto, non siamo circondati da essa continuamente e in ogni tempo? Non viviamo forse circondati da epidemie, guerre, incidenti stradali o sul lavoro, malattie di ogni genere? E non viviamo attorniati da stili di vita segnati dall’inquinamento, dalle droghe, pericoli quotidiani che, se anche non ci toccano direttamente, pure sono presenti così come presenti sono le loro conseguenze fatali? Ma perché le ignoriamo? Perché non prendiamo provvedimenti altrettanto drastici, pur magari meno invadenti? Insomma, perché siamo così sorpresi dalla presenza della morte? Possiamo tentare di dire: nella organizzazione quotidiana della nostra vita è emergenza ciò che rigetta la morte al centro della comunità, che la mette in crisi, ne minaccia la possibilità ed è forse questo il nostro caso – anche se non esplicitamente, come vedremo.  Non sono emergenze i casi che abbiamo elencato, ma lo è ciò che costringe le scienze e le istituzioni a prendere atto dell’incontrollabile, di ciò che può annientarle, la morte. Questo può avvenire attraverso le difficoltà del sistema sanitario, o l’attenzione verso le categorie più esposte alla malattia o anche con un numero di morti quotidiano cui non siamo abituati. In ogni caso, siamo ora costretti a farci i conti.

Cerchiamo allora di spiegare questa emergenza come un caso parossistico e in un certo modo critico dell’orizzonte entro cui normalmente viviamo. A partire da cosa? Dalla sua gestione e dalla sua dichiarazione. La dichiarazione di uno stato d’emergenza, in cui siamo da un mese e vivremo per altri mesi ancora, è il presupposto giuridico – versione formalizzata dell’“eccezione sovrana” – che legittima i dpcm, i decreti-legge, le norme e i regolamenti di emergenza che normano la nostra vita in quarantena. Tutto ciò trova la sua razionalità negli studi scientifici e nei protocolli sanitari diffusi dalle istituzioni sanitarie nazionali e internazionali che abbiamo imparato a conoscere: in effetti, assistiamo ad una vera egemonia dell’opinione scientifica sulle decisioni politiche. Così il nostro stile di vita sociale si fa anch’esso igienico: distanziarsi, non uscire di casa, lavarsi le mani, le modalità telematiche di contatto, esempi dell’indistinzione tra condotte sociali e condotte igieniche, tra norme giuridiche e protocolli sanitari. L’ipertrofia normativa entro cui le emergenze vengono ricondotte, le loro restrizioni sulle nostre libertà, producono nuove forme per le nostre vite, costrette in un ritrovato spazio privato: non violenze sovrane in stati di eccezione, ma protocolli, indicazioni, regole di condotta, tutto entro l’apparato tecnico-giuridico che le dispone senza atti di violenza arbitraria o autoritarismo – a meno che non abbiamo un concetto molto largo di queste parole, prospettiva pure possibile. Si cerca ancora di tenere fuori la morte dalle nostre esperienze, ma stavolta con difficoltà. Possiamo adattarci ed accettare, oppure possiamo prendere di mira questi elementi, pensarli, ora che si mostrano così chiaramente e così chiaramente si mostra la loro differenza solo di grado rispetto alla nostra normalità quotidiana. Non viviamo forse già normalmente in una presenza pressante della burocrazia, delle norme, dell’amministrazione? E ancora: non siamo incalzati da una vera e propria igienizzazione dell’esistenza?

Possiamo percorrere questo rapporto di analogie e differenze tra emergenza e quotidiano in due direzioni. In primo luogo, nell’emergenza, sorpresi dalla morte, vediamo il nostro normale orizzonte di vita. Quella stessa scienza che oggi cerca di rigettare indietro la presenza molto concreta della morte, è la stessa che ogni giorno ci fornisce studi, dati, articoli, report, sulla presenza di questa nel nostro quotidiano, attraverso l’impatto sulla salute dell’inquinamento, dello stress, delle droghe, delle malattie di ogni genere. Al contempo, è sempre la scienza che ci prepara a rimandare la morte, a nasconderla, che ci invita a pianificare uno stile di vita immune non dai virus, ma dalla sua fine, quando non ci promette addirittura l’immortalità. Notiamo, insomma, una certa ambiguità della scienza rispetto alla nostra condizione di mortali. Eppure, essa stessa dovrebbe avere ben presente la morte come suo incombenza pressante: la crisi mortale, l’errore umano, l’irrimediabile avanzamento di una malattia, sono condizioni con cui il medico e il tecnico hanno a che fare come avversari e contraltari della loro pratica di salvaguardia della vita biologica.  

In secondo luogo, nell’emergenza assistiamo ad una proliferazione di norme e provvedimenti politici e giuridici, conseguenza di un fenomeno importante: l’assunzione, da parte della politica, della scienza e della tecnica come orizzonti e direzioni di governo, nonché come fonti di legittimazione. Assistiamo di norma a questo atteggiamento che ora è solo eclatante. In una espressione: quella che comunemente si chiama la “degenerazione della politica in amministrazione”, non è forse la neutralizzazione dell’atteggiamento politico – e dunque morale, ideale – a favore della “razionalità tecnica” e dei suoi risultati? Ne abbiamo un esempio limite, triste e tristemente ordinario, nelle guerre: chi è il nemico in un conflitto che si autodefinisce “di pace”? In definitiva, il soggetto ostile in quanto irrazionale, che si sottrae ai principi “razionali” di governo e di società. Ma se la guerra è un esempio estremo, non lo è l’insieme di norme “oggettive” e “scientificamente legittimate” che i governi adottano per salvaguardare l’economia nazionale o per gestire le campagne di vaccinazioni infantili. Sono due esempi volutamente contrapposti: dal primo noi abbiamo la percezione che i provvedimenti basati sulla scienza (?) economica ci vessino, limitino le nostre libertà; d’altro lato, pensiamo siano sacrosante le vaccinazioni, per quanto obbligate anch’esse, e che ci proteggano. Anche in questo caso, la scienza e la tecnica servono a legittimare la politica e l’economia, ma in esse vediamo un’ambiguità tra libertà e protezione. Oggi soprattutto, in forza di una “necessità oggettiva”, vediamo le nostre libertà strette in gravi limitazioni, per controllare l’efficacia delle quali vengono dispiegate la forza pubblica e la deterrenza delle pene: possiamo essere in accordo o in disaccordo circa l’effettività dell’emergenza, ma non possiamo sottovalutare questa inquietante contrazione delle libertà e la percezione “pacifica” che di tale contrazione si ha in genere, essendo essa sentita per lo più legittima, razionale, affatto “eccezionale” e di una “giusta” violenza

Abbiamo dunque messo a fuoco una duplice ambiguità: da una parte contemporaneamente prendiamo atto della morte e la nascondiamo; dall’altra, c’è il contrasto che nella razionalità della scienza si crea tra le possibili limitazioni della libertà e la salvaguardia della nostra vita, nel suo connubio con la politica – con il diritto. Sembriamo davvero costretti ad una scelta alternativa, soprattutto in questa condizione di emergenza: sentiamo di dover scegliere tra la difesa della vita biologica e le nostre libertà e dobbiamo cercare di uscirne. Forse possiamo tentare di portare di un passo indietro la domanda sull’ambiguità: da dove proviene? Una risposta potrebbe essere: dall’orizzonte di verità che la scienza apre e che la politica assume troppo spesso inconsapevolmente. Forse che la scienza stessa, quella scienza che direziona la nostra politica e, attraverso di essa, la nostra quotidianità, esclude dapprincipio, metodologicamente, di riferirsi alla morte? Ma se è vero che quest’ultima è un elemento caratterizzante per l’uomo, sia biologicamente, sia come senso, non significa allora che la scienza e la tecnica – parole sempre più difficilmente distinguibili – hanno perduto il riferimento ai loro propri soggetti e alla loro forma di vita? Per usare un linguaggio alto, col rischio della vaghezza: quale rapporto con la morte istituisce la verità della scienza e della tecnica, e che senso ha per noi? Conosciamo bene il rapporto che i dati scientifici intrattengono con la nostra esistenza e ne abbiamo esempi continui: dai cibi o le abitudini quotidiane che aumentano la probabilità di contrarre malattie più o meno gravi, alle pratiche cultuali e tradizionali che vengono mutate in nome dell’igiene. Sono tutti dati “oggettivi”, che capiamo ma non dominiamo, che riconosciamo come “verità”, ma anche come fonti di un certo senso di colpa o di costrizione, quando contrastano con ciò che riteniamo piacevole o importante per il nostro spirito. Fatichiamo insomma a dare un senso per noi a questa “oggettività”. Non è forse inutile gettare uno sguardo sulle nostre consapevolezze anche solo vaghe sulla tecnica: il progresso infinito e infinitamente migliorativo, il principio di economia che esclude il superfluo e l’inefficiente, la supposta “neutralità oggettiva” che comporta (o si fonda su) la completa disponibilità della natura e la sua riduzione a strumento. Quando poi vediamo questo atteggiamento declinarsi nell’economia, nell’organizzazione della società, nella ricerca medica, intuiamo che non c’è spazio per il negativo, per la debolezza, per la morte, tutti elementi da rimuovere, «black swans» che ricordano l’ampiezza di senso e di libertà delle vite dei soggetti, elementi, questi ultimi, ulteriori rispetto all’oggettività dell’orizzonte tecnico in cui essi sono stretti. Tenendo ferma tale rimozione, riusciamo a riguadagnare la connessione dei due fenomeni apparentemente lontani: la nostra libertà limitata e la consapevolezza della morte. Nell’orizzonte di una tecnica senza morte, la politica “razionalizza” le nostre forme di vita adattandole ai fini tecnici o economici che, tesi che possiamo qui solo accennare, hanno forse perso di vista, già nei loro fondamenti, il senso ampio della libertà di un soggetto. 

Anche nell’emergenza troviamo conferma alle nostre domande? Come abbiamo detto, non esplicitamente essa mostra questi temi. E non c’è da aspettarsi, alla fine di essa, né una rivoluzione morale, né un nostro rinnovato atteggiamento verso la scienza o verso la politica: al contrario, seguirà probabilmente un rifiuto ancora più radicale della presenza della morte e della debolezza. Probabile, ma non necessario. Per ora, nello spazio privato in cui ci troviamo ricacciati, guardiamo fuori e vediamo che la verità senza morte della tecnica ci si mostra non solo nei tentativi spasmodici di contenere la possibilità estrema, ma anche nella comunicazione della politica e di chi gestisce l’emergenza. Davvero è necessario un bollettino della Protezione civile che elenca morti e malati? Si potrebbe banalmente dire che qui i morti sono «ridotti a numeri»: eppure, nella banalità troviamo la scelta di non utilizzare la comunicazione per informare correttamente, di non restituire il dibattito interno alla comunità scientifica, i pro e i contro di queste misure di contenimento. Insomma, la scelta di non mostrare le proprie ambiguità di fondo.

Se invece dalla nostra posizione osserviamo all’interno, potremmo sforzarci di vedere qualcosa di nuovo, scoprendo che le misure che stiamo vivendo ci costringono in una rinnovata forma di vita ma che coincide con la protezione della nostra vita biologica, mettendo in qualche modo fuori gioco l’obbligo all’alternativa tra la due.  Ma cosa è cambiato perché questo accadesse? Da una parte, comprendiamo come forse già da qualche tempo la tecnica e la politica non ci costringano – a noi che ne siamo governati e non ne siamo i nemici, ma non apriremo questo discorso – ad essere solo nuda vita: ma come pura forma che esclude la morte, in parte determinata dai fini dell’economia e dalle pratiche della tecnica e della scienza.  D’altro lato, ad oggi l’insorgenza della morte ci è forzatamente restituita, nonostante gli sforzi contrari, e necessariamente ci troviamo a formare la nostra vita in vista di essa: uno spazio forse inesplorato, nel quale scorgiamo una comunità, la nostra posizione in essa come soggetti liberi e come semplici corpi – elementi non più distinti. Siamo costretti a determinare da noi la forma della nostra forma di vita, che in buona parte ci troveremmo già disposta in condizioni normali. Così si spiega l’inquietudine del tempo dalla quale avevamo preso le mosse: sottratti alla condotta normale, pubblica, indirizzata della nostra esistenza, ci ritroviamo tanto stretti nell’isolamento, quanto liberi rispetto al tempo. Il tempo non ci appare più infinito e socialmente programmato, ma delimitato da compiti singolari-collettivi: preservare me e l’altro dalla morte, organizzare uno spazio personale di libertà, di coordinazione interiore. È questo un esercizio di pensiero che è possibile condurre ora che la nostra esistenza può fare i conti con un fenomeno che, per il suo parossismo, ci mostra i caratteri della nostra normalità ma è allo stesso tempo messo in crisi dalla presenza inedita della morte. 

Scopriamo anche che si può essere comunità nel segno dalla debolezza, quando su ciascuno di noi incombe una fine potenziale. L’isolamento può apparirci tanto più necessario quanto più ci appare in comune, e non per il mezzo gaudio che procede da un male universale, ma per la rinnovata consapevolezza che la mia condotta non si distingue dalla difesa della mia vita biologica: e ancora, che solo in quanto collettiva tale condotta, su cui incombe la morte, apre un senso, cioè si trova in un punto in cui vita e forma, corpo e libertà si ricongiungono – un nesso comune inedito, che ci fa pensare che non c’è comunità senza debolezza immanente, di contro alla nostra esistenza spietatamente individuale e senza morte nel suo orizzonte.

Radicalizzando questa quarantena possiamo riguadagnare, smascherare, lo statuto autentico delle limitazioni giuridiche, formali, tecniche ma quotidiane alla nostra libertà? Possiamo, nel nostro spazio privato di isolati che hanno di nuovo di fronte la fine dell’altro come minaccia fatale per la comunità, chiederci quale è il senso, per questa stessa comunità, di una politica neutrale e di una scienza senza morte, o almeno cercare di avere finalmente chiaro l’ambito nel quale ogni giorno viviamo? E davvero appare così limitante ricondurre tutto a un’eccezione, a una sovranità che incarni il Potere (come non notare le contraddizioni di sovranità subordinate, spazi anomici innervati di leggi, sospensioni dell’ordinamento giuridico giuridicamente istituite?): sembra che le cose siano invece più penetrabili nelle loro ambiguità e ambivalenze riferendosi a un potere neutro, formalizzato e scientificamente orientato, che fa presa sulla nostra vita senza bisogno di violenze arbitrarie o di essere ricondotto a un unico soggetto sovrano, e che proprio nella sua eterogeneità di fini, di pratiche e di attori costringe la nostra esistenza a regole e direzioni. In questione è dunque il fondamento stesso delle nostre contemporanee forme di governo, per cercare di pensarne di alternative – tali che rendano giustizia anche a quei rimossi che si affacciano ad ogni nostra riga: per farlo però, dobbiamo riferirci a ciò che le può rendere possibili, cioè ad un altro tipo di orientamento delle nostre condotte, di rapporto con la morte e con la scienza e forse alcuni suggerimenti vengono, come abbiamo cercato di indicare, dalla quarantena stessa. 

Non siamo obbligati a scegliere tra vita biologica e libertà, perché questo significherebbe accettare il nostro stato di cose: riferire la nostra esistenza alla sfera tecnica, giuridica, che esclude la consapevolezza della morte, legandoci alle sue stesse ambiguità. Non esistiamo se non come forme di vita e solo a partire da qui possiamo riguadagnare la comprensione degli strumenti e delle pratiche con le quali preserviamo la nostra possibilità, vale a dire il corpo, la vita biologica. A partire dalla necessità di utilizzare queste pratiche oggi, nell’emergenza della morte possibile, possiamo riconsiderare retrospettivamente la neutralizzazione che di questa morte operiamo: capire quale è la sua origine e l’orizzonte di verità entro cui avviene.  Nello spazio privato in cui siamo, nei limiti di questa condotta imposta ma non priva di possibilità, potremmo scoprire una condizione che è quasi un compito: la nostra vita non è nuda vita, ma pura forma tra l’insorgenza e l’istanza della fine.



Andrea Prizia è studente di filosofia; ha 23 anni e vive a Formello

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *