La salute in tempi di emergenza e in tempi di normalità

La salute in tempi di emergenza e in tempi di normalità

La traiettoria di una sanità pubblica e universale

Di Chiara Giorgi

 

L’importanza della sanità pubblica in tempi di emergenza da Covid-19, ma a maggior ragione in tempi “normali”, deve portarci a riflettere da un lato sulle origini storiche dell’istituzione che ne è più investita, il Servizio Sanitario Nazionale; dall’altro sulle trasformazioni che negli ultimi decenni hanno portato a una riduzione del welfare e dei servizi pubblici.

    I tagli alla sanità e al welfare sono stati uno degli elementi centrali della riorganizzazione del capitalismo in chiave neoliberale affermatasi a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Da tempo analizzati da una ricchissima letteratura, gli assi portanti del neoliberalismo sono numerosi. Tra questi in modo particolare vanno ricordati l’espansione della finanza, la globalizzazione delle produzioni e dei mercati, la crescente estensione dei processi di accumulazione in ambiti legati alla riproduzione sociale e con essi la privatizzazione dei servizi collettivi del welfare e l’entrata della logica di mercato nelle attività di cura, istruzione, assistenza, ricerca, salute e ambiente. Processi che hanno segnato il ridimensionato del welfare universalista e della stessa sanità pubblica, all’insegna di una pesante revisione politica ed ideologica di cui lo Stato sociale è stato bersaglio a partire dall’ultimo ventennio del Novecento, quale manifestazione della costruzione di un senso comune funzionale alla distruzione di forme di solidarietà sociale.

    Tuttavia, se posiamo lo sguardo sullo specifico contesto italiano, balza agli occhi un dato di controtendenza, relativo al fatto che in Italia una delle più importanti riforme in materia di welfare, forse la più rivoluzionaria, si realizzò quando altrove in Europa stava per iniziare la controrivoluzione neoliberale. L’approvazione della legge (la n. 833) di istituzione del SSN è del dicembre 1978, anno peraltro assai importante se si considera anche la coeva legge n. 180, risultato delle fondamentali battaglie del movimento basagliano della psichiatria radicale. In verità si trattò, in entrambi casi, dell’effetto di quanto prodotto e agito durante gli anni Sessanta e Settanta, allorquando si diede vita a esperienze, sperimentazioni, pratiche di lotte, conflitti, elaborazioni teoriche che non hanno eguali nella storia dell’Italia repubblicana. 

    Le vicende del SSN si combinarono e furono espressione dell’emergere di nuove e collettive soggettività, di una inedita pressione dal basso, di aspirazioni trasformative del tessuto sociale e dell’assetto istituzionale. La realizzazione del servizio sanitario nazionale, così come di altre istituzioni del welfare degli anni Settanta – momento storico in cui vennero varate molte delle riforme che hanno contribuito a disegnare il volto dell’Italia attuale (Rodotà)  – sono leggibili riannodando il lungo filo rosso delle mobilitazioni e delle esperienze diffuse sul territorio in quegli anni. 

 

Una politica delle alleanze

È in questa chiave che allora è possibile comprendere lo “sfasamento” italiano, ossia il fatto che si giunse a una riforma espansiva della sanità allorquando a livello internazionale proprio questo ambito diveniva il bersaglio di politiche di contenimento della spesa pubblica. Questo paradosso   – peraltro confermato dal di poco successivo passaggio della guida del Ministero della sanità dalla combattiva Tina Anselmi (DC) a Renato Altissimo, esponente di quella forza politica che più aveva osteggiato l’approvazione della riforma sanitaria, il Partito liberale – conferma l’onda lunga del biennio ‘68-’69, la forza propulsiva proveniente dalla iniziativa diretta degli interessati, da quelle soggettività intente a introdurre modelli radicalmente innovativi. Esso conferma altresì l’ineguagliabile convergenza politica e culturale che si realizzò rispetto al progetto di riformulare in termini universalistici il sistema sanitario, e al contempo, conferma oggi quella capacità di resistenza che ancora è in parte inscritta nella sanità pubblica italiana.

    Di fatto, il SSN fu espressione di quella che potremmo chiamare una politica delle alleanze, nella quale si saldarono le conquiste operaie e sindacali in fabbrica, le pressioni e mobilitazioni portate avanti dalle varie realtà di movimento, da quello femminista, a quello studentesco, a quello di “lotta per la salute”, a quello della psichiatria radicale, nonché  i primi provvedimenti di pianificazione regionale sanitaria, rafforzati dal decentramento territoriale dei servizi sociali e sanitari. Lo stesso concetto di servizio sociale territoriale emerso in quegli anni fu espressione di una domanda di servizi collettivi, decentrati e offerti a tutti in modo uguale, di contro alla tradizionale logica particolaristica e monetaria fin a quel momento vigente. I conflitti sorti in quel periodo storico attorno al welfare, le sperimentazioni istituzionali e territoriali di allora riuscirono a prospettare un nuovo modello di welfare opposto a quello sino a quel momento vigente, informato da logiche burocratiche, da tratti corporativi, occupazionali e discrezionali.

    In modo specifico, l’elaborazione del SSN, frutto di un lungo processo che accompagnò le trasformazioni fondamentali del paese (il cui incipit potrebbe collocarsi già nell’esperienza della Resistenza e delle elaborazioni datesi in seno ai CLN regionali, nonché nel dettato costituzionale dell’articolo 32), intercettò le domande di cambiamento e democratizzazione informanti gli intensi conflitti sociali della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta. Con ogni evidenza, esso fu espressione di una forte pressione dal basso, delle aspirazioni trasformative del tessuto sociale e degli assetti istituzionali, di pratiche politiche e partecipative inedite, di un fermento intellettuale di ampio respiro. Di qui le peculiari origini “politiche” dell’assetto universalista, pubblico e decentrato del SSN, il quale rispose a un’impostazione della salute come fatto sociale e politico, a una visione integrata dell’intervento sanitario e di quello sociale, alla centralità del momento preventivo e del dato qualitativo, a una organizzazione periferica e territoriale, a un impegno diffuso capace di investire questioni legate alla tutela dell’ambiente.

 

Protagonisti e filosofie

Nel dibattito e nell’ideazione di quella «istituzione inventata» che fu il SSN (mutuando questa evocativa espressione da Franco Rotelli, collaboratore di Franco Basaglia e riferita a tutti quei servizi territoriali, cooperative sociali, comunità terapeutiche nate attorno alla psichiatria radicale) furono coinvolti numerosi attori sociali e politici, ambiti collettivi di ricerca, nuovi saperi, originali forme di lotta. Un ruolo decisivo, già dagli inizi degli anni Sessanta, ebbero le riflessioni maturate in seno ai due principali partiti della sinistra, PCI e PSI, e al sindacato, la CGIL in particolare, alle quali si affiancarono elaborazioni e pratiche portate avanti dai protagonisti della cosiddetta stagione dei movimenti, che ai temi della salute, della medicina e dell’ambiente diedero un contributo di altissimo rilievo, connettendolo alle più complessive istanze di trasformazione strutturale del paese. In questo percorso emersero anche singolari biografie, punti di riferimento di un profondo ripensamento e rinnovamento medico-sanitario e più in generale del rapporto tra medicina, società e politica. Figure di raccordo tra l’ambito medico–accademico, il mondo del lavoro e della fabbrica e lo spazio più propriamente politico. Tra esse, spiccano Giulio Maccacaro e Giovanni Berlinguer. Il primo fu medico e biologo, docente universitario, tra i fondatori della statistica medica e della biometria in Italia, militante a più livelli impegnato in una riflessione critica del rapporto tra medicina e politica, tra scienza e potere, fondatore del movimento “Medicina democratica. Movimento di lotta per la salute”. Il secondo fu medico igienista, docente universitario, dirigente e parlamentare del PCI. E ancora spiccano Ivar Oddone, partigiano – il celebre Kim de Il sentiero dei nidi ragno di Italo Calvino – docente di psicologia del lavoro, promotore di inchieste d’avanguardia sulla medicina del lavoro; Laura Conti, medico, socialista legata a Lelio Basso e figura pionieristica dell’ambientalismo italiano; Alessandro Seppilli, medico igienista, docente universitario e sindaco socialista di Perugia negli anni Cinquanta e Sessanta. Figure queste emblematiche della gramsciana sintesi tra specialista e politico, di cui il movimento per la riforma sanitaria fu espressione, figure intente a dar vita a molteplici iniziative a livello locale e regionale, propedeutiche per la messa a punto del SSN e per una nuova concezione della salute.

    Ad accomunare questi protagonisti, i loro numerosi collaboratori e quanti attivi in modo costante sui temi sanitari, fu una visione unitaria e integrata della salute – fisica e psichica, individuale e collettiva, legata alla comunità e al territorio. Ad unirli furono inoltre una concezione politica dell’ambito medico-sanitario e con essa una riconduzione della salute a fatto sociale, nonché una consapevolezza delle responsabilità del capitalismo avanzato. A ciò si sommò una nuova impostazione del rapporto tra medico e paziente, nonché l’opzione per un’organizzazione sanitaria periferica e decentrata, per una sua gestione diretta e partecipata, per la centralità del momento preventivo su quello curativo dell’intervento sanitario. Ma anche, è bene ricordarlo a fronte dei problemi attuali del sistema sanitario, un forte accento per la centralità dei servizi di cure primarie rispetto a quelle ospedaliere – si pensi soltanto ai consultori e ai servizi di cura domiciliari – quali punti di svolta di nuove modalità gestionali e operative. 

    D’altronde, il dettato costituzionale dell’articolo 32 era stato chiaro: il diritto alla salute, unico diritto sociale riconosciuto fondamentale, doveva mettere insieme profilo soggettivo, individuale e interesse della collettività. Il diritto alla salute doveva comportare scelte politiche che coinvolgessero tutta la popolazione, investendo la stessa natura della democrazia, il complessivo assetto sociale ed economico del paese. Esso doveva altresì mirare a un nuovo rapporto tra la salute ambientale e l’organizzazione del lavoro, doveva saldare la prevenzione alla partecipazione, giungere a riconfigurare le relazioni di potere tra cittadini e istituzioni, uscendo da una relazione meramente individualistica del rapporto tra malato e sistema sanitario e coniugandosi con l’obiettivo della salute collettiva. In questa chiave, lo stesso ruolo e statuto della medicina giungeva a investire l’intero spazio della comunità, mobilitava nuovi attori, era il portato di istanze complessive di democratizzazione in grado di coinvolgere gli assi centrali della vita quotidiana e tutti i rapporti sociali di produzione e riproduzione sociale, puntando a un rinnovamento più profondo e generale.

    Qui risiedeva l’originalità del “caso” italiano, nel legame instauratosi tra le lotte operaie dentro e fuori le fabbriche, quelle studentesche, quelle femministe e quelle legate al nuovo movimento di rinnovamento della medicina. La rivendicazione della riforma sanitaria nasceva da questa alleanza, capace di costruire forme di partecipazione diretta e contropoteri nei luoghi di lavoro e nella realtà urbane, capace di trarre risorse fondamentali da una sperimentazione istituzionale dei servizi socio-sanitari volta a mettere in discussione la distinzione e separazione tra gestori e utenti. Di qui la necessità di una tutela della salute da realizzarsi in modo capillare mediante la predisposizione di un servizio sanitario pubblico e universale, finanziato tramite il sistema della fiscalità generale, garantito a tutta la collettività nell’accesso e nel suo uso.

 

Programmazione nazionale e regionalismo

Uno dei punti qualificanti la legge n. 833 è quello relativo ai rapporti tra programmazione nazionale e programmazione regionale. L’articolo 1 della legge recitava: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il Servizio Sanitario nazionale».

    L’articolo 2 delineava gli obiettivi fondamentali del SSN e specificava che esso perseguiva, tra gli altri, il superamento degli squilibri territoriali nelle condizioni sociosanitarie del paese. All’art. 4 si affidava allo Stato il compito di dettare «norme dirette ad assicurare condizioni e garanzie di salute uniformi per tutto il territorio nazionale». Al secondo capo si disponeva delle competenze e strutture del SSN, assegnando allo Stato la direzione politica sanitaria tramite il Piano sanitario nazionale (da presentarsi al Parlamento entro l’aprile del 1979); alle Regioni compiti di integrazione e di programmazione tramite la funzione legislativa in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera; ai Comuni la responsabilità di gestione delle nuove Usl. Queste ultime dovevano ricoprire un ruolo di primo piano, spettando a esse, contro la frammentazione del precedente sistema delle mutue, la gestione unitaria della salute, in modo uniforme sull’intero territorio nazionale. 

    Le Usl inoltre dovevano essere l’organo principale della partecipazione democratica e popolare, la quale tuttavia già nel testo della legge venne ridotta di buon grado, derubricata a forme di rappresentanza di tipo partitico, impermeabili a istanze assembleari e partecipative. Le successive dinamiche di lottizzazione delle Usl in verità testimoniarono la crucialità di quegli intenti, propri ad esempio a Maccacaro, volti a farne luoghi di partecipazione politica, ove la collettività potesse rivendicare la conquista del diritto alla salute e addirittura la costruzione di una società diversa.

    A finanziare il SSN sarebbe stato il Fondo sanitario nazionale, con un importo stabilito ogni anno in sede di redazione del bilancio statale, ripartito tra le regioni tenendo conto delle indicazioni presenti nei piani sanitari nazionali e regionali e sulla base di indici e standard che dovevano tendere a garantire livelli di prestazioni sanitarie «in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, eliminando progressivamente le differenze strutturali e di prestazioni tra le regioni» (art. 51).

    Le vicende successive degli anni Ottanta e Novanta tradirono alcuni di questi elementi salienti della riforma. Il primo Piano sanitario nazionale venne approvato solo nel 1994, a fronte di alcune esperienze realizzatesi in singole Regioni capaci di dar vita ai piani sanitari regionali con anticipo e competenza grazie anche all’approvazione di leggi sull’istituzione dei presidi sanitari di base, sul finanziamento di iniziative di medicina preventiva, sociale e di educazione sanitaria; ma in assenza di un Piano sanitario nazionale il quale avrebbe dovuto definire livelli di assistenza uniformi. Qui risiedeva uno degli attuali nodi problematici. La legge n. 833 seguiva infatti un modello di pianificazione nazionale volto a ottenere prestazioni uguali e uniformi in tutto il territorio, con obiettivi di eguaglianza delle prestazioni fornite. In tal senso, la riforma del ’78 muoveva dalla preoccupazione di garantire universalità, equità di accesso, globalità di copertura, omogeneità di quelli che vennero poi chiamati livelli essenziali di assistenza, così come da una idea di solidarietà tra le regioni. Preoccupazioni e propositi questi ben fondati alla luce delle successive derive regionaliste, delle conseguenze discendenti dalle ulteriori modifiche introdotte, così come alla luce dei pericoli insiti nelle più attuali proposte sull’autonomia differenziata.

    Già nel 1982 il CNEL denunciava i pericoli di un progressivo divario tra le regioni, risultato questo, precisava, «che costituisce una grave contraddizione rispetto ai uno dei principi fondamentali della riforma». La successiva facoltà accordata alla mutualità privata per le prestazioni mediche, la corsa alla privatizzazione della sanità in alcune regioni del Nord, le risposte differenziate adottate da ciascuna regione in ordine alle proprie risorse e capacità politico-amministrative, l’affermarsi di nuove e rigide politiche di contenimento della spesa pubblica, la progressiva dissociazione tra politiche nazionali e politiche regionali finirono per limitare e distorcere il funzionamento del SSN. A ciò si aggiunsero i problemi discendenti da pratiche di gestione locale informate da meccanismi di allocazione partitica e clientelare delle risorse. E ancora, si sommarono le nuove spinte alla depoliticizzazione dell’assistenza sanitaria e la svolta manageriale e aziendale – definitivamente sancita dalla trasformazione delle Usl in Asl del ’92 – caratterizzanti le politiche sanitarie della fine degli anni Ottanta e soprattutto Novanta (F. Taroni, S. Luzzi). Gli effetti sono oggi sotto i nostri occhi e gli ulteriori tagli alla spesa sanitaria introdotti dalle politiche di austerità del 2008 non hanno fatto che aggravare la situazione.

 

Le istituzioni del welfare

Guardando a quanto prodotto e agito negli anni Settanta, al SSN e ad altre istituzioni del welfare sorte in quegli anni, possiamo oggi considerare l’importanza che ha avuto il terreno di una nuova e creativa proliferazione istituzionale.

    Quanto infatti tradotto in disposizioni legislative e realizzato attorno a nuove esperienze in tema di sanità e servizi collettivi di welfare, contribuì a riarticolare le “istituzioni” della partecipazione e dell’autorganizzazione della società per far fronte a bisogni e diritti misconosciuti dallo Stato e dalla famiglia (sino ad allora pilastro fondamentale del welfare); ridefinendo gli stessi termini del conflitto. Un conflitto che toccò il sistema di welfare, il territorio e l’ambiente, la condizione femminile, la famiglia, le relazioni tra Stato e cittadini, i rapporti tra locale e nazionale. 

    La filosofia di fondo che animò le innovazioni datesi in ambito sanitario, fu quella felicemente riassunta nella formula di un doppio gesto, espresso tanto nell’istituzione negata, quanto nell’istituzione inventata (F. Rotelli). L’idea e la pratica della cosiddetta deistituzionalizzazione fu così intesa come un processo istituente capace di creare, inventare, immaginare forme alternative, le quali – mobilitando come protagonisti i soggetti sociali coinvolti – trasformarono gli stessi rapporti di potere tra istituzioni e pazienti, tra cittadini e organizzazione statale. Si trattò insomma di una sorta di doppio gesto. Da un lato, un gesto teso a de-istituzionalizzare le strutture vigenti, le cosiddette istituzioni totali (oltre il manicomio); dall’altro, un gesto volto a immaginare e inventare nuove istituzioni capaci di generare un welfare sottratto alle logiche della mercificazione, della burocratizzazione, della delega, del clientelismo, dell’inerzia, dell’irresponsabilità.

E qui risiede una delle lezioni cruciali rispetto al presente e al futuro.

    Se infatti le istituzioni del welfare, i servizi collettivi del welfare, sono sempre più l’essenziale bersaglio delle politiche di austerity, volte a smantellarle/privatizzarle, immettendole nel circuito mercantile e finanziario della valorizzazione; essi possono e sono al contempo la posta in gioco di lotte e mobilitazioni plurali, democratiche e trasversali. È su questo terreno che alcuni esempi provenienti dalle esperienze degli anni Settanta possono fornirci una indicazione più che mai promettente, nel segno di una riscrittura universale e democratica del welfare, nel segno della soddisfazione di antichi e nuovi bisogni, nel segno dell’inestricabile intreccio tra istanze di libertà e uguaglianza.

    Se allora il neoliberalismo è stato ed è una razionalità di governo non solo economica ma anche politica, fondata sull’azzeramento delle alternative, la forza di un nuovo programma politico e culturale capace di ripensare al domani, capace di ripartire dal terreno dei bisogni, non può prescindere da una profonda e prospettica consapevolezza di quanto sedimentato nelle esperienze e nelle lotte del passato in tema di sanità e welfare. La necessità di prospettare un’alternativa all’attuale assetto strutturale richiede ogni sforzo di immaginazione, ogni nuovo tipo di mobilitazione che sappia puntare a un’altra forma di vita, oltre a un’altra organizzazione economica e sociale. Alla politica, a ciascuno/a di noi, spetta lo sforzo e la sfida principale, dopo anni segnati da continui tentativi di spoliticizzazione e di de-democratizzazione, affinché sia possibile rimettere in campo un progetto radicale comune e collettivo informato da principi di democrazia, di cooperazione sociale, di responsabilità condivisa, di socializzazione della cura. Affinché si riapra una nuova stagione di diritti sociali in Europa e nel mondo e si possa difendere e rilanciare un servizio sanitario pubblico, universalista, egualitario.

Chiara Giorgi è docente di Storia contemporanea presso l’Università “La Sapienza”; ha 45 anni e vive a Roma


 

Riferimenti

G. Berlinguer, Introduzione, in La medicina e la società contemporanea. Atti del Convegno promosso dall’Istituto Gramsci: Roma, 28-30 giugno 1967, Editori Riuniti-Istituto Gramsci, Roma, 1968;

C. Giorgi-I. Pavan, Le lotte per la salute in Italia e le premesse della riforma sanitaria. Partiti, sindacati, movimenti, percorsi biografici (1958-1978), “Studi storici”, n. 2, 2019, pp. 417-455;

S. Luzzi, Salute e sanità nell’Italia repubblicana, Donzelli, Roma, 2004;

G.A. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, 1979; 

G. Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino, 2007;

S. Rodotà, Le libertà e i diritti, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello stato italiano dall’Unità ad oggi, Donzelli, Roma, 1995;

F. Rotelli, L’istituzione inventata, in «Per la salute mentale/For mental health», 1988, n. 1; Id., L’istituzione inventata. Almanacco Trieste 1971-2010, Merano, Edizioni Alphabeta, 2015; 

F. Taroni, Il volo del calabrone. 40 anni di Servizio sanitario nazionale, Il Pensiero scientifico, Roma, 2019;

 

4 pensieri riguardo “La salute in tempi di emergenza e in tempi di normalità

  • 11/04/2020 in 2:58 pm
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    Non bisogna dimenticare la storia delle elaborazioni e realizzato dal movimento operaio

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  • 12/04/2020 in 11:04 am
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    Bel lavoro chiara! È un utilissimo primo passo verso il ripensamento di una stagione straordinaria…il secondo step sarà il ripensamento sul superamento della centralità del lavoro…l’interrogativo è che cosa può strutturare un senso di appartenenza ad una comunità non più fondata sul lavoro…ma è questo il terreno su cui intervenire…Gabriella

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    • 17/04/2020 in 7:17 pm
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      Ottimo lavoro, come sempre i suoi del resto. Mille grazie, lo diffonderò fra colleghi e , sopratutto, ex allievi. Giuliano Carlini Genova

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  • 19/04/2020 in 6:54 pm
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    Cara Chiara, condivido l’analisi e l’approfondito ragionamento del tuo saggio, che, nelle conclusioni, pone…”La necessità di prospettare un’alternativa all’attuale assetto strutturale… (per cui) Alla politica, a ciascuno di noi spetta lo sforzo… affinchè sia possibile rimettere in campo un progetto radicale…ecc.
    Conseguentemente non pensi che bisognerebbe partire dal rimettere in discussione non solo l’art 116, 3°co. – per superare i rischi dell’autonomia differenziata – ma anche lo stesso Titolo V° della Costituzione, che ha portato, e non solo a mio avviso, al disastro dei rapporti Stato/Regione nella Sanità e in tutto il Welfare, com’era stato concepito nel periodo storico da te così puntualmente ricostruito?
    Se sei d’accordo contattami, perchè con il mio Partito (PCI) stiamo pensando alla necessità di intraprendere questa, pur difficile, battaglia.

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