La crisi in casa

Appunti sulla politica e l’emergenza

di Barbara Pizzo

 

     Ormai è sicuro: il 2020 passerà alla storia come un anno di crisi. Assai più difficile è dire come se ne uscirà. Crisi è parola che designa una situazione instabile, un cambiamento in atto: è momento decisivo e anche tempo dell’incertezza. In greco, krisis è il punto critico nell’evoluzione di una malattia, quello in cui si decide se l’esito sarà funesto o favorevole. Tra le crisi che hanno accompagnato la storia dell’umanità, alcune sono ricordate come positive, altre come negative (Milstein, 2014), in alcuni casi hanno portato a drammatici cambiamenti sociali, economici, politici: e la memoria a volte è legata a come si è vissuto il periodo della crisi, altre a cosa ha portato.

     Ma c’è un uso più specifico del termine crisi, che è connesso all’evoluzione storica delle società capitalistiche. Queste ultime sembrano avere la caratteristica connaturata di dover necessariamente passare da una crisi all’altra; e in particolare negli ultimi decenni, le rapide trasformazioni in direzione della neoliberalizzazione evidenziano l’orientamento alla crisi del sistema capitalistico, con una frequenza, una rapidità e una diffusione mai sperimentate prima (Swyngedouw, 2010). Secondo molti studiosi, siamo ancora immersi nel post-crisi finanziaria, quella esplosa tra 2007 e 2008, che ha portato alla bancarotta anche paesi con i più alti livelli di reddito (come l’Islanda), e a cambiamenti radicali, non necessariamente per il meglio, in paesi in difficoltà economica (come la Grecia).

     Nel nostro mondo contemporaneo, dunque, la crisi è fatta di situazioni concrete e materiali, ma è anche un costrutto sociale e politico, e come tale definisce i discorsi ed è usata discorsivamente: in molti casi i discorsi sulla crisi sono definiti e orientati da gruppi di potere, e utilizzati per fini politici. In altri termini, la crisi comporta sempre una lettura politica: o per meglio dire, si presta a diversi usi politici possibili.

     Un’altra parola chiave è emergenza. Emergenza è parola ambigua. In realtà, un eufemismo. Emergere è venire alla luce, più specificamente venire a galla, ed è il contrario del mergere dei latini, che vale affondare; la parola ha dunque, in sé, valenza positiva. È solo alla fine dell’ottocento che essa acquista il significato di situazione di pericolo e di urgente necessità, e sono stati gli inglesi, che amano gli eufemismi, ad usarla per primi per significare, ma in modo velato, una condizione di pericolo e allarme. Quest’uso diventa dominante quando si introduce la locuzione stato di emergenza. Ora, è proprio questo stato di emergenza che giustifica e rende accettabile lo stato di eccezione. E lo stato di eccezione a sua volta si fa emergenza di Stato, quando il potere politico si accorge che proprio nello stato di emergenza si dà la fruttuosa, irripetibile occasione di una sospensione di quelle regole che esso stesso si è date.

     ‘Stato di eccezione’ è concetto introdotto un secolo fa da uno studioso controverso, Carl Schmitt (il quale ne parla nella sua Teologia politica, del 1922). Più di recente, la parola è stata posta al centro di una importante riflessione di Giorgio Agamben (Lo stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003). Agamben riparte da Schmitt, e dal motto che Schmitt aveva ripreso da Alberico Gentili, e che aveva sancito nel 1588 l’atto di nascita del diritto internazionale: silete theologi in munere alieno (Tacete, o teologi, in campi che non vi riguardano). Agamben capovolge quel motto, e ricorda in esergo: Quare siletis juristae in munere vestro? (Perché, o giuristi, tacete di fronte a quello che è il vostro compito?). Giacché di sovvertimento giuridico, innanzitutto, si tratta, che muove in quella terra di nessuno che si trova al confine tra diritto pubblico e fatto politico.

     Il concetto di stato di eccezione deriva da una riflessione su legalità e legittimità, che nello stato di diritto dovrebbero convergere (se non sovrapporsi), mentre il ricorrere di circostanze che portano ad un loro reciproco allontanamento sposta la barra di ciò che è lecito e di ciò che non lo è. Con lo ‘stato d’eccezione’ è il potere costituito (il capo di un governo) a ‘sospendere’ il diritto ordinario al fine di superare una situazione particolarmente grave, per cui si ammette anche che i diritti individuali siano limitati o lesi.

   Significativamente, si dà un altro caso che produce lo stesso allontanamento tra legale e legittimo, ed è il diritto alla resistenza, che non è deciso dal potere costituito, ma dal popolo. È il diritto di Antigone, momento fondativo del pensiero occidentale.

        È per certi aspetti sorprendente, per non dire paradossale, che un termine come resistenza sia spesso invocato dal ‘potere costituito’, dal capo del governo, o addirittura usato nel linguaggio pubblicitario da attori importanti del nostro mercato nazionale (si pensi ad esempio allo spot televisivo di Barilla #italiacheresiste).

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        Non sono esperta di emergenze sanitarie. Da quando sono nata, ci sono state tre situazioni critiche con importanti implicazioni sanitarie che hanno colpito più o meno direttamente il nostro paese: il colera nel 1973 a Napoli, la nube di diossina di Seveso nel 1976, il disastro nucleare russo di Chernobyl nel 1986. Le ultime due registrate sub specie ‘disastri ambientali’ – sebbene quello di Seveso sia stato allora definito solo un ‘incidente’, e in entrambi i casi le conseguenze per la salute siano state devastanti. E comunque, già sulle diverse definizioni utilizzate, sulla separazione tra crisi ambientale e sanitaria, e sul perché alcune situazioni diventano ‘crisi’, bisognerebbe riflettere.

        Il colera a Napoli non lo ricordo; ‘l’incidente’ di Seveso sì: abitavo a Milano, in una zona in cui la nube si stava velocemente dirigendo. Il ricordo è comunque sbiadito: un richiamo a stare in casa, che riguardava specialmente noi bambini, a non aprire le finestre, e questo a Milano in luglio era già pesante. Ma, appunto, si era a metà luglio (la popolazione locale fu avvertita otto giorni dopo la fuoriuscita del gas tossico), in un’epoca in cui durante le vacanze estive le città si svuotavano: gli operai, moltissimi del sud, tornavano nei loro paesi d’origine. Le scuole riaprivano il 1° ottobre. Noi ci siamo trasferiti in montagna, e al rientro in autunno quasi non se ne parlava più.

        Invece, per molti anni mi sono occupata di rischio sismico, e in particolare di riduzione e mitigazione del rischio sismico a scala urbana. Ho combattuto inutilmente per quasi 20 anni contro chi riduce tale rischio ad un problema di scala edilizia – che si risolve mettendo in sicurezza i singoli edifici –, o contro chi, specialmente in un paese come il nostro, pensa seriamente di poter separare la protezione civile da quella del patrimonio; e quindi contro chi non lo interpreta come problema di sistema, o meglio, strutturale: come ho provato a sostenere proponendo di considerare il rischio sismico come ‘componente strutturale’ (Magnaghi 2000, Pizzo et al 2019) del nostro territorio; contro chi sembra non voler vedere che uno stesso terremoto ha esiti anche molto differenziati su diversi territori, perché quello che fa la differenza è la struttura socio-economica su cui interviene (incluso il rapporto tra cittadini e istituzioni, per cui l’organizzazione e la ‘tradizione locale’ di pubblica amministrazione diventano fattori decisivi); contro chi separa artificiosamente e strumentalmente l’emergenza dalla ripresa e dalle condizioni di ordinarietà, contro chi non capisce che si deve fare prevenzione nella ricostruzione.

       Il paragone tra l’emergenza attuale e le tante emergenze sismiche che ho studiato mi è venuto in mente un po’ alla volta, mettendo insieme pezzo a pezzo quello che ascoltavo, leggevo, sperimentavo, in questa vita quasi-claustrale che ci siamo trovati a vivere. Mi soffermo qui su pochissimi aspetti, che tratto in forma di note, di spunti per ulteriori riflessioni.  Quello che vorrei discutere è dunque il modo in cui queste crisi sono state costruite discorsivamente e politicamente, quindi la politica della crisi.

        Partiamo dalla ‘Zona rossa’.

     L’ultima volta che ho varcato il confine allo stesso tempo invisibile e invalicabile di una zona rossa era per entrarci: avevo in mano i documenti che mi autorizzavano a farlo, le scarpe antinfortunistica ai piedi, l’elmetto in testa. All’interno, macerie e desolazione. La presenza degli abitanti era meno che un ricordo, c’erano tracce di un mondo passato che le facciate – sezionate come la casa in Rue Simon-Crubellier di Georges Perec, aperte su alcune stanze, con tavole ancora apparecchiate e letti disfatti – non rendevano affatto ‘ancora vivo’: al contrario, erano tracce di qualcosa successo in uno ieri che però era 200.000 anni fa (come direbbe il ragazzo di Paradiso e Inferno di Jon Kalmar Stefansson): più che una nuova archeologia, una nuova paleontologia.

        Ora la zona rossa dell’emergenza sanitaria è un confine che non si può attraversare in nessuna direzione. Non si può entrare e non si può uscire. È una bolla in cui tutto è sospeso: quando l’8 marzo il Presidente del Consiglio ha annunciato che non ci sarebbero state più distinzioni tra zone rosse e il resto del territorio, lo spazio della zona rossa si è contemporaneamente dilatato (all’intero paese) e ristretto (allo spazio domestico). Ne è nato un tempo indefinito. E per definizione, il tempo delle emergenze e delle crisi non può esserlo, è una contraddizione in termini. Non parlo di una certa perdita del senso del tempo che chiusi in casa stiamo sperimentando. Ma del tempo della vita sociale e politica: in cui le decisioni strettamente legate alla crisi dovrebbero dare anche un segnale, indicare una direzione, e ancora non lo fanno. Il tempo delle misure restrittive si prolunga, ed è giusto se serve ad arginare e sperabilmente a debellare la diffusione del virus: ma non si dice del dopo.

        Dentro la bolla la gente, in genere debolmente consapevole di quello che andava accadendo, ma per lo più con un cosiddetto, e improvvisamente riscoperto, ‘grande senso civico’, ha cercato di riorganizzarsi una specie di vita (agli storici del futuro potranno tornare utili i corti di zerocalcare). Stupisce che la parola chiave di pochi anni fa, resilienza, contro il cui uso spregiudicato ho scritto qualcosa (Pizzo 2015), non sia stata ancora mobilitata per parlare della reazione alla crisi. Forse è tenuta in serbo per quello che ci aspetta. Ora il richiamo è alla resistenza, che con la resilienza non va affatto d’accordo. E al paradosso per cui anche la resistenza, come forma di sospensione delle regole, sia invocata dal ‘potere costituito’ ho accennato sopra. 

        Il luogo deputato di questa resistenza, a cui veniamo chiamati è la casa, nella quale siamo invitati (costretti) a chiuderci. Ma che rapporto c’è tra la casa e la crisi? In Italia, come in moltissimi altri paesi, si direbbe che viviamo in una perenne ‘crisi abitativa’ e che siamo ormai ‘abituati’ a mettere la casa al centro di discorsi di crisi (Madden & Marcuse, 2016, Adisson & Artioli, 2019). Nell’emergenza sismica e nel post-sisma, la casa è pericolo dal quale bisogna fuggire e stare lontano. Ed è il luogo di cui si sogna di potersi riappropriare.  Nell’emergenza sanitaria, la casa è salvezza, il luogo sicuro che non bisogna lasciare e che però ci sta stretto. Non è forse illuminante, che nella sua origine greca il termine epidemia e il verbo epidemein significhino, prima di altro, lo stare presso di sé, lo stare in casa, o anche il tornare a casa? Il potere evocativo e simbolico della casa è enorme. “State a casa”. “Io resto a casa”. La forza di questi slogan è soverchiante rispetto ai deboli richiami al fatto che per alcuni la casa non è affatto un luogo sicuro, e per tanti semplicemente non c’è. È stato detto, ma troppo poco.  Inoltre, dovremmo riflettere su cosa implica politicamente assumere la casa come ‘unità minima’, in termini di significato e impatto sociale e culturale.

        In un paese che ha progressivamente e sistematicamente scambiato politiche sociali con misure di sostegno individuali e che ha fatto della casa in proprietà un tratto sociale identitario, sempre più difficilmente si può pensare di superare forme di individualismo che assumono caratteri di volta in volta diversi. Per cui, se le basi sono queste, certi richiami al senso di comunità quantomeno stridono. La (dura) verità è che l’emergenza è sempre stata una modalità di azione politica da molti salutata e per molti versi benvenuta nel nostro paese. Se non riconosciamo questo e se non lavoriamo per cambiare questo, non riusciremo a trattare la pandemia in modo diverso.

        L’emergenza diventa occasione per rimettere in discussione competenze e poteri, e può implicare, come infatti quasi sempre implica, una riarticolazione dei poteri con importanti passaggi di scala: questi possono avere esiti variegati, e anche apparentemente divergenti come ad esempio portare a forme di polarizzazione tra stato centrale e municipi, con ricentralizzazione dei poteri dello stato, e insieme una decentralizzazione a livello di singolo comune che però può aprire importanti spazi agli attori di mercato (Gelli, 2001; Ponzini, 2016; d’Albergo et al., 2019). La storia sismica del nostro paese evidenzia diversi modelli (da un decentramento che potremmo definire ‘concordato e partecipato’ – concordato ‘verticalmente’ e partecipato ‘orizzontalmente’ – nel caso del Friuli, alla forte centralizzazione del caso dell’Aquila; alla moltiplicazione di ruoli e compiti, anche con sovrapposizioni e quindi con conflitti più o meno espliciti tra livelli istituzionali nel terremoto del 2016). Le differenze dipendono da tanti fattori, ma certamente la struttura socio-economica locale, le condizioni della politica nazionale, e le relazioni tra governo centrale e territori sono fattori decisivi. Bisogna osservare e riflettere su cosa implica questa ‘riorganizzazione’ delle funzioni: di solito, le relazioni pubblico/privato sono semplificate, ci sono deroghe nelle procedure, gli attori più forti tendono ad avere (ancora) più voce e più potere.

        In molti ritengono che questa emergenza e questa crisi stiano (finalmente) portando all’attenzione di tutti i danni prodotti da quarant’anni di lenta e inesorabile demolizione delle istituzioni dello stato e del welfare pubblico: che ora sarebbero evidenti anche a chi auspica(va) la ritirata dello stato, o una sua riduzione al ‘minimo’ (la difesa filosofica delle cui ragioni è in Anarchia, Stato e Utopia di Robert Nozick, del 1974). Ma davvero si pensa che ai più convinti sostenitori del liberismo nelle sue varie versioni basti così ‘poco’ per cambiare idea? Non sarà invece che piuttosto che contrapporsi alla prepotenza delle leggi del libero mercato, che anche una certa politica di sinistra non ha saputo né voluto contrastare, ci prepariamo così a una nuova fase di sacrifici, di tagli, di ristrutturazioni, con una nuova giustificazione e legittimazione? Non possiamo ancora dirlo, quello che sarà non lo conosciamo. Ma anche questo è un problema. Possiamo non conoscere il futuro, ma non possiamo non sapere come lo vorremmo e (almeno) provare a realizzarlo.

        Almeno due cose, allora, si offrono alla riflessione: ed entrambe ruotano intorno al senso di quello che stiamo vivendo. La prima è che, diversamente da quanto abbiamo fatto con i terremoti, dovremmo cercare di imparare la lezione. Uno degli articoli tra i più convincenti pubblicato nella fase iniziale della pandemia (quando non era ancora stata definita come tale) sottolineava il fatto che bisognerebbe imparare da quello che sta succedendo pensando alla prossima crisi, sapendo che ce ne saranno altre. Lo dicono ora in molti. Similmente, rispetto all’emergenza sismica, un attento e intelligente studioso ha scritto che bisognerebbe lavorare (fin dall’emergenza, poi nel post-emergenza e nella ricostruzione) pensando ‘ai terremoti che verranno’ – perché sappiamo che verranno (De Marco, 2017, 2018).  Purtroppo finora non sembra sia andata proprio così.

        La seconda cosa è che, come detto inizialmente, la crisi è una realtà concreta ma anche un costrutto sociale e politico. I ricorrenti richiami al ‘mondo nuovo’ che questa crisi aprirà sono accettabili alla sola condizione che si chiarisca come immaginiamo questo mondo nuovo, perlomeno in termini di progettualità e di intenzioni: “ispirato da quali valori, sostenuto da quali interessi, governato da quali orientamenti, entro quale cornice di equilibri ecosistemici, e così via dicendo” (Donzelli, 2020). E in effetti anche nel post-sisma, molte volte si è affermato che si dovrebbe guardare al terremoto anche come a una rinascita.

       Ma se non abbiamo una direzione, se non utilizziamo la crisi per riflettere insieme sul cambiamento, e siamo dunque in un oggi in cui risuona l’assenza di un progetto di futuro condiviso, si ripropongono schemi, relazioni di potere, modi di uso del territorio, che sono gli stessi di sempre, in più ‘accelerati’ – proprio dalle politiche emergenziali – e meno soggetti al controllo democratico.

 

 

Barbara Pizzo, è ricercatrice alla Sapienza e lavora nel campo dell’urbanistica e degli studi urbani; ha 52 anni e vive a Roma.

 

 

 

Adisson, F. and Artioli, F. (2019). Four types of urban austerity: Public Land Privatizations in French and Italian Cities. “Urban Studies” (2019): 1-18.

Agamben, G. (2003). Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino.

D’Albergo, E., Moini, G. and Pizzo, B. (2018). The Uncertain Metropolization of Rome. In J.S. Gross, E. Gualini and L. Ye (Eds.), Constructing Metropolitan Space: Actors, Policies and Processes of Rescaling in World Metropolises. Routledge, Oxford – New York.

De Marco R. (2017), I terremoti che verranno. Iniziative per la riduzione del rischio sismico nel nostro Paese, Seminario di studi con G. Caudo, V. De Lucia, R. De Marco, G. Storto, Università degli studi di RomaTre, 26 Gennaio 2017.

De Marco R. (2018), La ‘prevenzione del giorno dopo’ e quella per il nuovo secolo, in Fiore A., Ottaviani V. (a cura di), Rischio sismico in Italia: analisi e prospettive per una prevenzione efficace in un Paese fragile, in “Geologia dell’Ambiente”, supplemento al n. 1/2018, pp. 19-23.

Donzelli C. (2020). Crisi organica. [http://lantivirus.org/crisi-organica/].

Gelli, F. (2001). Planning Systems in Italy within the Context of New Processes of Regionalization. In “International Planning Studies”, 6(2): 183-97.

Madden, D. and Marcuse, P. (2016). In Defense of Housing: The Politics of Crisis, Verso, London.

Milstein, B. (2015). Thinking politically about crisis: A pragmatist perspective, in “European Journal of Political Theory”, 14(2): 141-160.

Nozick, R. (1974). Anarchia, Stato, Utopia, Il Saggiatore, Milano.

Pizzo, B. (2015). Problematizing resilience: Implications for planning theory and practice, in “Cities”, 43, 133-40.

Pizzo B., Gruppo Sisma (2019). Rischio sismico, ‘componente strutturale’ del territorio. Quali implicazioni? , in “Scienze del Territorio”, 137-49.

Ponzini, D. (2016). Introduction: Crisis and Renewal of Contemporary Urban Planning, in “European Planning Studies”, 24(7): 1237-45.

Schmitt, C. 1972 [1922] Teologia politica I, il Mulino, Bologna.

Swyngedouw, E. (2010). Apocalypse forever?, in “Theory, culture & society”, 27(2-3): 213-32.

 

 

 

 

 

Un pensiero riguardo “La crisi in casa

  • 20/04/2020 in 11:52 pm
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    Lei ha speso tempo e fatica per un mero esercizio di retorica. In due Parole sintetizzo ciò che Lei non vuole vedere ovvero la realtà.
    È dal 1980 anno in cui le Regioni pretendo ottenevano maggiori poteri che poi hanno sistematicamente anemizzato. Dai piani paesaggistici a quelli territoriali a quelli sanitari emergenziali etc. tutti strumenti di gestione quasi mai utilizzati con conseguenze nefaste in ogni circostanza. Se scoppia il Vesuvio, sulle cui pendici abitano circa 1,5 mln di cittadini, crede che si riesca a evitare 1 milione di morti nonostante i diversi piani di emergenza approntati dalle decine di comuni ivi ubicati?
    L’Italia non cambierà almeno fino a quando non cambia la contabilità pubblica e l’amministrazione delle risorse.
    Negli ultimi 20 anni la politica ha prodotto solo debiti senza risolvere alcun problema strategico dalle comunicazioni alle infrastrutture ai rifiuti e ora alla sanità periferica.
    Lei vive nel mondo incantato dell’Accademia, della teoria assoluta.
    Quanto al popolo io sono il primo che rifiuto di indossare la mascherina e le assicuro non sono il solo

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