Raccontare la catastrofe

di Antonio Francesco Perozzi

 

    L’esperienza collettiva che l’Italia e il mondo stanno vivendo in queste settimane ci mette di fronte a un problema nuovo, che si aggiunge e, anzi, sovrappone a quello materiale dell’emergenza biologica e sanitaria: si tratta dell’emergenza mediatica e “letteraria” che richiede, per essere affrontata, degli strumenti che forse non abbiamo ancora pienamente a disposizione ma che – proprio per questo – occorre al più presto fabbricarci.

    La peculiarità del “fatto” coronavirus, infatti, non è l’essere un’epidemia (fenomeno ricorrente con cadenza quasi regolare, o comunque con frequenza, nella vicenda umana); è semmai l’essere la prima epidemia (consistente) della storia a manifestarsi dentro l’impianto mediatico onnipervasivo che caratterizza l’Occidente. Dentro cioè un’interconnessione di flussi narrativi che non funzionano solo come vettori di notizie, ma contribuiscono a definire una precisa codificazione del “fatto” coronavirus. Qui mi sembra rivelarsi fondamentale un ripensamento della natura del racconto e delle tecniche interpretative per comprendere (e, così, superare) la “catastrofe”. Mi spiegherò con ordine.

 

   La narrativa del virus

   Come spesso accade, può risultare utile partire da un’annotazione etimologica: il verbo fingere, in latino, è il verbo della composizione poetica. Questa occorrenza linguistica, con il campo dell’arte e quello della menzogna che si intrecciano, è alla base della stessa fertilità letteraria, che si annida, infatti, nei punti in cui il linguaggio risulta ambiguo, e cioè per certi versi bugiardo.

   Ora, osservato il significato letterale del letterario – e cioè, l’ambiguità – ciò che voglio proporre in questo articolo è di considerare questo meccanismo in relazione alla cosiddetta epidemia di COVID-19. Ogni grande evento che si manifesta nella società massmediatica occidentale è, ormai e per forza, conoscibile quasi esclusivamente all’interno di un certo sistema d’informazione, con sue precise peculiarità conoscitive e di fruizione, che è quello del web. Il mondo di internet ha ereditato solo in parte le caratteristiche del sistema televisivo, distinguendosene ad esempio per rapidità di trasmissione e orizzontalità tanto dell’utenza quanto degli emittenti. Se qualche caratteristica è stata recuperata dal mondo televisivo, però, una di queste è la manipolazione della storia e dei suoi personaggi in figure smaterializzate, in immagini ripetibili, citabili e riconoscibili. Mi vengono in mente, a questo proposito, quei Gesti tipici che l’artista Sergio Lombardo traeva da famosi personaggi politici, come Kennedy, di cui coglieva, appunto, un gesto caratteristico, e trasformava quei personaggi in ombre fossilizzate nell’esecuzione di quella movenza. Ma basta pensare anche a Wharol e alla serialità quasi spasmodica in cui costringeva il volto di Marylin Monroe o quello di Mao. Questa caratteristica di smaterializzazione del materiale storico è tipica anche del mondo di internet: a pensarci bene le opere di Wharol sono in qualche misura un prototipo dei meme (che, siamo sempre lì, hanno radice linguistica nel greco mímēma, cioè “imitazione”).

  Viste alcune affinità tra la comunicazione televisiva e quella via web, conviene però evidenziare subito una peculiarità di quest’ultimo sistema, e cioè la possibilità da parte di chiunque di produrre input. Se il sistema televisivo era unidirezionale (l’unica possibilità consisteva, e consiste, nello scegliere all’interno di un range più o meno ampio di emissioni – comunque non contestabili – del televisore), quello del web, e in particolare del social network, è multidirezionale e orizzontale: l’immissione nel flusso informativo-simbolico può provenire tanto dalla testata giornalistica quanto dal cittadino comune.

    Questi alcuni degli elementi che orientano l’immaginario collettivo odierno, che assume determinate configurazioni proprio in relazione al molto più complesso e multiforme nuovo sistema di comunicazione. Ora: cosa significa affrontare un’epidemia nel tempo in cui la sua stessa narrazione deve confrontarsi con questo articolato, ma anche delicato, meccanismo? Cosa significa farlo per la prima volta nella storia? La verità è che siamo di fronte a una dimensione “letteraria”: esiste un certo evento (l’epidemia) ma in grandissima percentuale noi interagiamo, più che con esso, con la sua rappresentazione. Quest’ultima si mostra letteraria nel momento in cui cogliamo la forte ambiguità (che si è detto cifra tipica della finzione-letteratura) che la caratterizza su un piano linguistico-narrativo.

  Un passo indietro. Abbiamo detto che in una società della comunicazione siffatta, l’evento è di per sé accompagnato dalla sua rappresentazione mediatica. Con lo svilupparsi della storia dell’epidemia, almeno per quanto riguarda l’Italia, si sono stabilizzate anche alcune pratiche della sua narrazione. Faccio ora tre esempi semplici ma significativi.

  “La serie tv di Giuseppe Conte”. Fin dal momento dell’incrudelirsi dell’epidemia in Italia, il governo ha deciso di interagire con la cittadinanza (che potremmo tranquillamente chiamare “il pubblico”) attraverso il sistema della videoconferenza, con diretta social oltre che televisiva. Questo tipo di meccanismo ha secondo me contribuito più di altri (più del dato materiale) al riconoscimento dell’evento coronavirus. Seguire questi appuntamenti con la cadenza delle puntate di una serie tv, con un orario fisso, tramite una forma allargata di radio emittente (cioè i social) ha alimentato la paura del contagio in maniera esponenziale. Sappiamo quanto è fondamentale la comunicazione da parte di un qualsiasi vertice politico: ce lo ha insegnato Orwell, in letteratura, e ogni dittatura del Novecento, nei fatti. E qui ricade lo stesso problema: è in grado ogni cittadino di valutare l’effettivo peso dell’evento dietro l’autorevolezza del Presidente in persona che prende parola?

    “Il bollettino di guerra delle 18.00”. Al pari della fiction con protagonista Conte, appassionante è – stavolta in forma di horror più che di drama – l’elenco di morti e contagiati che ogni giorno, attorno alle 18:00, è reso disponibile dalla Protezione Civile. Si potrebbe molto discutere, a tal proposito, della più o meno solida dimestichezza che gli italiani hanno con la statistica; così come della veridicità dei dati trasmessi e dei criteri usati nel reperirli, data la frequente incongruenza o sproporzione dei risultati tra le varie fonti o tra i diversi Stati. Ma sicuramente possiamo osservare come sia la cadenza dell’input, più che la cifra in sé, a spaventare (a comunicare tout court con) il cittadino. Mi chiedo a questo punto quale effetto avrebbe enumerare giornalmente le morti causate da ogni altra patologia: per via di questa (mediocre) narrazione leggeremmo come ecatombe ogni normale regolamento dell’ecosistema, che, da che mondo è mondo, prevede la morte tanto quanto la vita.

    “L’insostenibile leggerezza dei vip”. Spostandoci dai canali istituzionali a quelli dello spettacolo (ma si è capito che il problema è riconoscere dove lo spettacolo finisce), notiamo un proliferare di documentazioni casalinghe delle vite di personaggi più o meno noti del mondo dell’intrattenimento o dell’arte. Se il passo da dichiarazione presidenziale a hashtag, per quanto riguarda lo slogan #iorestoacasa, è stato praticamente immediato (e la dice lunga), la sua attuazione, o meglio, la sua valorizzazione etica si è realizzata anche attraverso la possibilità di guardare coi propri occhi la felicità di cantanti e soubrette nello stare a casa, nel riscoprire la famiglia, nel dedicarsi ad attività semplici come la cucina e il giardinaggio. E nell’ottica di un “abbassamento” dello spettacolo a dimensione casalinga, va da sé l’emulazione diffusa e l’ipertrofia di diari della quarantena da parte di, praticamente, chiunque.

   Questa serie di esempi, insieme a molti altri (le lunghe e lacrimose trasmissioni pomeridiane, ad esempio), dimostra quanto sia fondamentale la narrazione (e cioè la costruzione simbolica e finzionale che si opera sopra un oggetto materiale) non solo nella comunicazione dell’evento, ma nella stessa codificazione delle sue caratteristiche e della sua incidenza sociale. La stragrande maggioranza delle notizie dei canali diffusori italiani, da un mese a questa parte, sono notizie sull’epidemia: dove sono finiti i buoni e sani omicidi familiari? Dove sono i migranti? E gli stupri? In questo schizofrenico ubi sunt è rinvenibile una narrazione talmente grande e insistita da riuscire a fagocitare tutte le altre, a conquistarsi la pressoché totale attenzione dell’utenza e, ultimo ma non ultimo, a definire, forse anche manipolandoli, i caratteri stessi dell’oggetto da cui la narrazione prende spunto.

    Se a ciò si aggiunge che la codificazione si amplifica ulteriormente nel momento in cui è data possibilità agli stessi cittadini di proporre la propria narrazione (dell’esperienza di quarantena, ad esempio: praticamente tutti gli artisti, le associazioni, i vernissage, le nonne in cucina si sono convertiti in versioni virtuali e diaristiche di sé stessi), si può osservare come orientarsi all’interno delle pastoie degli hashtag diventi sempre più complicato. Assistiamo per la prima volta nel corso della storia a una collettiva e partecipata gestione di un flusso narrativo che deriva da un elemento scatenante (il coronavirus, appunto) che trasforma concretamente le vite dei singoli (la quarantena) rendendoli perciò parte integrante della letteratura dell’epidemia.

 

   L’individuazione del nemico

    La narrativa, dunque, nell’accezione che si è finora proposta, è elemento fondamentale del sistema-mondo odierno, almeno occidentale. Se il fenomeno del coronavirus, perciò, si inserisce al suo interno in maniera profonda, è necessario a questo punto sottolineare uno dei concetti di base che ne costruiscono la letteratura: il principium individuationis; la possibilità cioè di delineare i tratti della catastrofe e renderla riconoscibile. Ad osservare le dinamiche del racconto del coronavirus, riconosciamo facilmente come tutta la tensione della sceneggiatura sia fondata, infatti, su una dialettica tra l’identificato/identificabile e il non identificato.

   In verità, a fine gennaio Umberto Galimberti, in un video per Feltrinelli[1], parlando proprio del coronavirus, distingueva in relazione ad esso i meccanismi della paura e della angoscia: la paura è una reazione che segue una minaccia identificata, precisa, mentre l’angoscia proviene dal confronto con qualcosa di non rilevato e spettrale. Questa seconda condizione sarebbe quella caratteristica dell’esperienza del COVID-19, che infatti è evidenziato come male senza forma, che serpeggia invisibile, e il distanziamento sociale come forma di prevenzione non è altro che l’impossibilità di fidarsi dell’altro nel momento in cui dilaga un nemico che non si vede.

   Proprio per questo, però, diventa fondamentale, nello strato massmediatico e letterario di questa esperienza, tentare di individuare il nemico, darne una sintomatologia funzionale che non sia però solo sintomatologia medica ma anche il riconoscimento di tutti i suoi caratteri sociologici e antropologici. È per questo che ho finora parlato del “fatto” coronavirus, con lo scopo di distinguere il virus in sé dalla sua rappresentazione collettiva, che lo rende un “fatto” ben più ampio e articolato del solo accadimento patologico.

     Questa conformazione permette, infatti, che il desiderio di dare un’identità al nemico (di trasformare l’angoscia in paura) si estenda non solo alla necessaria codificazione sanitaria del virus, ma anche a variegate pratiche sociali di individuazione più o meno fondate. L’esempio più adatto è quello dei runner, che ricadono all’interno di un sillogismo facilissimo: la colpa della propagazione del virus è di chi esce da casa; i runner escono da casa; i runner sono colpevoli della propagazione del virus. Questo immediato riconoscimento del (presunto) colpevole dell’aumento dei contagi innesca una serie di meccanismi antropologici che portano spesso a occasioni di violenza psicologica[2] o addirittura fisica[3], dovuti o all’eccesso di frustrazione o, più tristemente, a uno spirito da Spider-Man di quartiere. Non senza il supporto della tecnologia, che trova qui una sua applicazione davvero inquietante: i moltissimi video fatti dai balconi che riprendono i vicini usciti di casa[4], con lo scopo di denunciarli, o semplicemente di metterli alla berlina, sono nient’altro che il desiderio di porre un articolo determinativo davanti alla minaccia. Una vera e propria caccia all’untore di manzoniana memoria.

 

   La consistenza della catastrofe

   Rimane aperta, a questo punto, la domanda sulla reale qualifica di catastrofe di questa epidemia. Se ciò con cui veniamo a contatto, per quanto riguarda la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, non è il virus ma la sua rappresentazione mediatica, e se questa coinvolge molteplici aspetti dell’umano, enfatizzando cioè un’ambiguità che equivale a quella di una narrazione letteraria e in cui, perciò, è difficile orientarsi, diventa possibile porsi una serie di interrogativi tanto sul COVID-19 quanto sulle misure scelte per affrontarlo. In tal senso è molto utile il discorso proposto da Paolo Zani[5], che confronta le cifre del coronavirus con quelle di altri contesti sanitari ed espone dubbi molto acuti sull’esperienza che stiamo vivendo, e mi unisco a Piero Bevilacqua nel considerarli tutt’altro che “una cinica esercitazione statistica”[6].

   Del resto, anche nel mondo intellettuale alcune voci hanno provato (ma in maniera pressoché isolata) a proporre una lettura diversa, o comunque ad approcciarsi al fenomeno con una prospettiva meno fideistica e più disposta a mettere sul tavolo della discussione gli atteggiamenti degli Stati e delle persone. Tra questi spicca Giorgio Agamben, che, già a fine febbraio, su Quodlibet parlava di “invenzione di un’epidemia”[7], e oggi continua ad alimentare un punto di vista sulla faccenda che potremmo definire “alternativo”, provando ad analizzare la stessa scala di valori usata dai governi per stabilire una gerarchia tra libertà, sicurezza e salute: “Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato di emergenza come quello attuale, che ci impedisce perfino di muoverci. […] Noi di fatto viviamo in una società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza.”[8] Similmente, sul blog del gruppo Wu Ming vengono indagati gli aspetti più ambigui della situazione presente, con particolare attenzione verso la questione “untori”[9] e verso il rapporto tra quarantena e lavoro[10].

     È la dimostrazione, insomma, che ciò che abbiamo di fronte è tutt’altro che cristallino, e l’atteggiamento dell’“Uniti per Dio / chi vincer ci può?” cantato dai terrazzi in flash mob rischia forse di annebbiare la vista di fronte a un problema davvero complicato. Se qualcosa di positivo si può trarre da questa inedita esperienza, è lo svelamento dell’onnipresenza del materiale letterario nella nostra società, che è tutt’altro che questione di salotti boriosi, o semplicemente di settore, come spesso, con ingenuità, si crede, e riguarda semmai la produzione simbolica e la gestione dell’immaginario collettivo. Di conseguenza diventa vitale applicare a questo materiale una interpretazione forte (una critica, esattamente), per sapersi orientare al suo interno. Un esercizio di perforazione della narrazione che metta in luce – che provi a farlo, almeno – le zone d’ombra che abbiamo di fronte. E che poche non sono.

 

Antonio Francesco Perozzi, è docente di lettere; ha 25 anni e vive a Vicovaro.

 


[1] https://www.youtube.com/watch?v=-OMKYw-XaGg

[2] https://www.youtube.com/watch?v=jJSTWC4VvU0

[3] https://www.lapresse.it/cronaca/coronavirus_la_vicina_lo_rimprovera_e_il_runner_le_sfascia_la_macchina_a_martellate-2508371/video/2020-03-24/

[4] https://www.adnkronos.com/soldi/economia/2020/04/04/coronavirus-sondaggio-italiani-spiano-vicini-scorretti_DoyA1kZO38B7pEOrH372rI.html

[5] http://lantivirus.org/sulla-corona-del-soldato/

[6] http://lantivirus.org/dentro-unattesa-surreale/

[7] https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia

[8] https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-chiarimenti

[9] https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/vendicatori-in-divisa-coronavirus/

[10] https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/04/amazon-smalls/

  

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