Sulla corona (del soldato)

Qualche riflessione e tante, tante domande

di Paolo Zani


 

È certamente rischioso in queste ore, mentre la situazione evolve ancora a ritmo rapidissimo e gli animi di tutti sono così dolorosamente gravati, lanciarsi in considerazioni incerte sul modo in cui stiamo reagendo di fronte alla nuova pandemia. Mi metto però a farlo, spero ben conscio dei miei limiti e delle mie ignoranze, perché a colpirmi è anzitutto una cosa: il totale, monolitico, mi domando se poco ragionato assenso della gran parte di noi alle misure prese dal Governo e dal Presidente del Consiglio. Ho come la sensazione che di fronte all’emergenza la nostra capacità di ragionare si sia azzerata: ci limitiamo ad ubbidire passivamente, terrorizzati all’idea che la malattia possa cogliere noi o i nostri cari, incapaci di mettere in discussione quell’opinione che, lo diamo per scontato, è migliore della nostra in quanto formulata da fior fiore di tecnici e scienziati. Le domande però, e le paure, restano; e per questo scelgo di condividerle qui, perché sono domande che ci riguardano tutti e a cui tutti, credo, dovremo rispondere.

 

La prima domanda che torno continuamente a pormi è la seguente: la situazione in cui ora ci troviamo è effettivamente una situazione eccezionale? A un primo sguardo la risposta non può che essere: certamente sì. Mentre scrivo, 88.274 sono le persone positive al virus, e 15.362 i morti. Numeri impressionanti, che fanno girare la testa solo a guardarli. Eppure mi chiedo: quanti sono, ogni anno, i morti per incidente stradale? E quanti i morti per suicidio? Quanti quelli per patologie legate all’ambiente, o all’alimentazione? Quante sono, insomma, le persone che ogni anno muoiono a causa del nostro stile di vita, di gesti che tutti noi quotidianamente compiamo? Ebbene, andando a cercare i dati[1] scopro che nel solo 2017, in Italia, sono state 3.378 le vittime di incidenti stradali, e 3.940 i morti per suicidio; che nel medesimo anno, in Italia, 413.077 persone sono morte a causa di patologie del sistema circolatorio o di patologie tumorali; e che nel 2016, sempre in Italia, a causa delle sole patologie legate alle polveri sottili 45.600[2] persone sono morte in età precoce. Numeri impressionanti, che certamente spingerebbero a ridimensionare la gravità della pandemia che fronteggiamo oggi. Ma pure sorge spontanea la domanda: questo virus è assai contagioso; cosa accadrebbe se gran parte della popolazione giungesse ad ammalarsi? Cosa accadrebbe, insomma, nell’ipotesi più nera, nell’ipotesi in cui 40 milioni di italiani si contagiassero? Ora: bisogna ricordare che i dati cui abbiamo attualmente accesso sono problematici, perché ottenuti da un campione limitato e con tecniche di rilevazione incerte; e che qualunque stima non potrà che essere, quindi, assolutamente imprecisa. Nonostante questo, credo che porre una domanda simile sia necessario: perché se non la si pone, se non ci si fa un’idea almeno dell’ordine di grandezza di cui stiamo parlando, lo spettro di un numero imprecisato e potenzialmente enorme di morti paralizza ogni confronto, distrugge ogni ragionamento. Ebbene: applicando i tassi di letalità calcolati al 24 marzo dall’Istituto Superiore di Sanità[3]; e accettando l’ipotesi (avanzata[4] da Angelo Borrelli, capo del Dipartimento della Protezione Civile) secondo cui solo un contagiato su 11 sarebbe ad oggi effettivamente censito; ebbene, accolte queste premesse, se 40 milioni di italiani venissero contagiati i morti sarebbero all’incirca 316.600[5]. Si tratta di un numero enorme, è vero; del tutto intollerabile. Ma pure, davvero si tratta di un numero “eccezionale”? Evidentemente no. Si aggira nello stesso ordine di grandezza dei numeri legati alle patologie del sistema circolatorio, o ai tumori. E parliamo di un numero-limite, ottenuto nell’ipotesi più nera, immaginando che nessuna misura venga presa! Come varierebbe poi questo numero di fronte a misure relativamente blande rispetto a quelle in atto oggi, come ad esempio l’isolamento dei soli anziani? Ebbene, se 40 milioni di italiani fossero esposti al contagio, ma fra questi settantenni e ultrasettantenni potessero essere messi completamente al sicuro, i decessi scenderebbero a circa 48.100; un numero ancora elevato, ma già molto più contenuto. E se oltre agli anziani fossero messi al sicuro anche i malati gravi? Come noto, il numero di decessi si manterrebbe allora nell’ordine delle centinaia. Stando infatti ai report dell’ISS, al 20 marzo erano solo 6 i deceduti, su 3200 esaminati, che non presentavano altre gravi patologie. Di tali pazienti non è resa nota l’età, ma se pure fossero stati tutti giovani, parleremmo comunque di numeri minimali. Comparato insomma con le usuali cause di morte, il coronavirus non presenta alcuna eccezionalità. Si tratta di numeri tragici, ma del tutto ordinari. Numeri tragicamente normali, viene da dire, come normalmente tragica è la vita stessa, perché segnata dal limite ineludibile della morte.

Ora, a questa considerazione mi si potrebbe giustamente obiettare: tumori e malattie del sistema circolatorio, che sono in Italia le maggiori cause di morte, sono anche malattie cronico-degenerative, legate al naturale processo di invecchiamento; e sono, in questo senso, cause di morte “naturale”. Ma pure, non è forse lo stesso per il coronavirus? Certamente sì: la mortalità per coronavirus (o meglio: con coronavirus) è indubbiamente legata al naturale processo di invecchiamento, come emerge dall’età media dei pazienti deceduti (78.5 anni[6]). Con la differenza, però, che il coronavirus è mortale per lo più per persone che già soffrono di gravi patologie (2.7 in media[7]), mentre i tumori e le malattie del sistema circolatorio sono propriamente cause (e non concause) di morte. In questo senso, i numeri legati al coronavirus sono ancora meno eccezionali: perché includono moltissime persone che sarebbero morte, indipendentemente dal virus, all’incirca nello stesso periodo.

Cosa voglio dire, dunque, con questi dolorosi confronti? Che il coronavirus non costituisce in fondo un problema reale? Ovviamente no. Sono assolutamente convinto della necessità di tutelare la vita di persone anziane e gravemente malate, prendendo a tal fine tutte le misure necessarie. Credo però che alcune considerazioni, che da questi confronti discendono, debbano urgentemente essere fatte.

 

In primo luogo: ho cercato di mostrare come l’emergenza coronavirus, pur essendo grave, non sia una situazione eccezionale. Essa è piuttosto un’emergenza simile ad altre emergenze con cui ci confrontiamo ogni giorno, e ha a che vedere con la tragicità connaturata alla vita stessa. Mentre però, di fronte al coronavirus, la situazione è percepita come gravissima, di fronte alle altre cause di morte – che pure ci affliggono quotidianamente e anche più pesantemente – la nostra percezione è del tutto diversa: solo ora, e non di norma, sentiamo di trovarci in una situazione di gravità estrema. E dunque mi domando: perché? La risposta, mi viene da dire, sta forse nel fatto che il coronavirus – da un lato con il suo carattere di “novità”, e dall’altro con la straordinaria attenzione mediatica che è stata ad esso dedicata – ha finito per rimettere al centro dei nostri pensieri un fatto non da poco: e cioè il fatto, amaro e innegabile, che nella vita si muore. Detto altrimenti, la nostra percezione della crisi mi spinge a domandarmi se non stiamo operando – ormai da decenni! – una sistematica rimozione della morte. Le generazioni venute dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno vissuto il più lungo periodo di pace che l’Europa ricordi; e avvolte in un benessere, di nuovo, che è il più smodato che la storia ricordi. È forse possibile che in questi decenni, così fortunati, ci siamo lentamente dimenticati del nostro limite fondamentale, la morte? E che sia per una rinnovata consapevolezza di questo limite che ci sentiamo oggi travolti dalla più tragica delle situazioni? Una domanda, in fondo, a cui non riesco a non aggiungerne un’altra: e cioè se non sia proprio questa rimozione, la rimozione della morte, a rendere talvolta così crudeli i nostri comportamenti; e tanto spesso così scialbe, e grigie, e prive di senso, le nostre vite.

 

Ora, giustamente mi si potrebbe obiettare: ma se si tratta solo di una percezione, di una sorta di “illusione ottica”, per quale ragione i governi di tutto il mondo stanno adottando misure così drastiche? Innescando fra l’altro, in tal modo, un crisi economica che avrà conseguenze incalcolabili, e snaturando completamente il nostro stile di vita? In primo luogo, come si è già detto, un qualche tipo di reazione è senza dubbio necessario, se si vuol tutelare la vita delle persone anziane e malate; e suppongo che sia quindi a queste categorie che stanno guardando i governi. Ma nonostante questo, lo squilibrio rimane: perché i governi prendono solo ora misure così drastiche, mentre non le prendono di fronte alle altre cause di morte, che pure uccidono centinaia di migliaia di persone e che pure dipendono in larga parte dal nostro stile di vita? I tumori e le malattie del sistema circolatorio, che come si è detto uccidono 410.000 persone l’anno, dipendono dalle nostre abitudini alimentari, dalla nostra sedentarietà, dalle forme dei trasporti e della produzione; nessun governo, però, proibisce di fumare, o vieta di andare in macchina, o chiude gli allevamenti intensivi al fine di ridurne l’incidenza. È vero, alcuni passi in questo senso sono stati fatti: ma ci si è mossi con cautela, e nel pieno rispetto delle libertà individuali; nulla a che vedere con le misure che ci troviamo di fronte oggi.

La ragione di un simile comportamento, come da più parti si è detto, sta nel fatto che una diffusione incontrollata del virus sarebbe insostenibile per qualunque sistema sanitario. Nel caso limite in cui si ammalassero 40 milioni di italiani, mantenendo il rapporto di proporzionalità rispetto ai deceduti circa 168.000 pazienti necessiterebbero di terapia intensiva; ben oltre, insomma, i 5.300 posti di cui disponevamo all’inizio della crisi. Di nuovo si potrebbe però obiettare: facciamo assai poco per prevenire i tumori, o le morti legate alle polveri sottili; non potremmo accettare che curare tutti i malati di coronavirus è impossibile, esattamente come accettiamo che impossibile è prevenire al meglio i tumori o le morti legate alle polveri sottili? La nostra risposta a questa domanda è, evidentemente, negativa. E la ragione, credo, sta in questo: che una simile ipotesi ci risulta “culturalmente” inaccettabile. Ci viene facile considerare un tumore, o un enfisema polmonare, come “naturali”; perché il nesso fra essi e il nostro stile di vita è non immediato, non chiaramente visibile: non vediamo, nel tumore, i gas e le particelle che le nostre macchine emettono. Essi diventano fatalità inspiegabili, ci sembrano “autonomi” rispetto al nostro comportamento. Ma l’idea che una persona muoia senza che tutti gli sforzi possibili siano stati fatti, ebbene questa idea ci è del tutto intollerabile. La reazione di fronte a un simile rischio è estrema: esso non può essere corso, poca importa se ciò comporterà danni incalcolabili per l’economia o snaturerà per mesi il nostro stile di vita. Ora io, dal canto mio, non posso che condividere questo atteggiamento. Ma pure non riesco a non considerarlo contraddittorio. Perché moltissime, lo ripeto, sono le morti che causiamo senza curarcene, da quelle legate all’ambiente o alla povertà fino alle molte guerre che con il nostro beneplacito, con le nostre armi e talvolta addirittura con i nostri soldati devastano paesi meno fortunati del nostro. Mentre però, di fronte al coronavirus, stiamo sospendendo del tutto le nostre vite, di fronte a queste altre emergenze la nostra risposta rimane – almeno a mio modo di vedere – del tutto insufficiente.

 

E giunti a questo punto credo sia inevitabile domandarsi: le misure prese dal Governo (e spesso, anzi, dal solo Presidente del Consiglio) sono in verità adeguate all’emergenza che ci troviamo di fronte? Non potrebbe essere saggio differenziarle, allentandole nelle zone meno a rischio? Il modello “coreano”, che prevede la rapida individuazione dei malati e il tracciamento dei loro contatti, non potrebbe essere adottato – almeno in alcune zone – in sostituzione di quello “cinese”, spogliato fin dove possibile di ogni violazione della privacy? E di nuovo: non sarebbe possibile isolare (forzosamente? Su base volontaria?) solo gli anziani e i malati gravi? Sarebbe difficile, non c’è dubbio. Ma davvero sarebbe più difficile che isolare tutti i cittadini di un’intera nazione?

Quale che sia la risposta a queste domande, un punto rimane fermo: le misure attualmente in vigore sono per noi ricevibili solo in quanto limitate ad un lasso di tempo assai breve, solo perché provvisorie e giustificate dalla (supposta) eccezionalità della situazione. Ma è proprio per questo, invece, che tali misure sembrano a me del tutto inadeguate. In primo luogo, perché la situazione non mi pare affatto essere, come già detto, eccezionale; e soprattutto, perché questa crisi è, con ragionevole certezza, solo la prima di molte. Penso alla possibilità che giungano nuovi virus, magari con un tasso di letalità più elevato. Penso alla complessa situazione geopolitica, dalla Siria ai rapporti fra Stati Uniti, Cina e Russia. E soprattutto penso alla crisi climatica, ormai innegabile e incombente; e quanto mai incontrollabile, ora che il nostro impegno (in primo luogo economico) sarà tutto rivolto a rimediare ai danni di questi mesi. Mentre noi ci confrontiamo con il coronavirus, nel Corno d’Africa 20 milioni di persone (e ripeto: 20 milioni) rischiano di morire di fame a causa dell’intensità delle piogge, che ha prodotto un proliferare incontrollabile delle locuste[8]. Possiamo anche fingere che queste questioni non ci riguardino, continuare a tenerle fuori dalla nostra visuale come abbiamo fatto fino a pochi mesi fa; ma davvero temo che sarebbe straordinariamente miope.

E dunque mi domando: se comprendiamo che la situazione in cui ci troviamo non è affatto eccezionale, ma è e sarà la norma; se comprendiamo questo, come possiamo valutare le misure prese dal Governo e dal Presidente del Consiglio? Mi rispondo: la valutazione non può essere che negativa. Perché queste misure, se reiterate frequentemente, o se pensate su un lasso di tempo più lungo, distruggerebbero del tutto la nostra economia, e snaturerebbero in maniera irrimediabile la nostra forma di vita, il nostro modo di vivere. E dunque per questo non possono essere una risposta adeguata! La crisi che viviamo oggi mi pare come una prova generale: in essa avremmo dovuto fare un tentativo di salvaguardare tanto la nostra vita biologica, quanto la nostra forma di vita; ma così non è stato: ci siamo focalizzati sulla sola (d’altra parte giustissima) tutela della vita biologica e abbiamo risposto in una maniera che non potremo più replicare, se non a un prezzo elevatissimo. Di fronte alla prossima crisi, possiamo solo sperare che saremo più saggi, e risponderemo diversamente.

 

    Concludendo, credo che ciò con cui abbiamo a che fare oggi sia in fondo il dogma della sacertà della vita: l’idea, cioè, che la vita (biologica) sia cosa intoccabile e sacra. Ma non nella sua formulazione cristiana, che lo relativizza ponendolo accanto alla trascendenza di un Dio; bensì in una formulazione secolarizzata, che lo autonomizza e lo eleva al di sopra di ogni trascendenza, ultraterrena o meno. Il cristianesimo (e parlo da ateo) ha ben presente il valore della vita, ma al contempo ha anche presente che la fede, e la vita giusta, sono più importanti della vita in quanto tale (e da qui il senso e la grandezza del martirio). Noi sembriamo invece averlo dimenticato: ci siamo schiacciati sulla tutela della vita biologica, e abbiamo ignorato il fatto che la nostra forma di vita la trascende; ossia il fatto, in altri termini, che può essere giusto morire, se non si può vivere secondo la forma che si è scelta.

Ecco quindi quel che la crisi attuale ci mostra: che nei prossimi anni dovremo operare la scelta che le ultime tre generazioni non hanno mai dovuto operare, ma che tutte le generazioni precedenti hanno invece sempre operato. Parlo della scelta fra la tutela della vita biologica, della sopravvivenza, da un lato; e la tutela della vita umana, della nostra forma di vita, dall’altro. A noi può sembrare assurdo dover rischiare la vita per salvaguardare la libertà di muoverci, o di pregare un dio, o di esprimere la nostra opinione; ma per secoli non è stato così. Per secoli gli uomini sono stati pronti a sacrificare la propria vita biologica, a morire insomma, per la libertà e i diritti di cui noi ora godiamo. E questo dunque mi domando: quando dovremo rinunciare a qualcosa della nostra forma di vita per tutelare la nostra vita biologica, o di contro mettere a rischio alcune delle nostre vite per tutelare la nostra forma di vita, allora cosa faremo? Ci schiacceremo sulla tutela della vita biologica, ci rinchiuderemo in casa come topi (e come stiamo facendo adesso…) e vivremo in un mondo interamente digitale? O accetteremo e guarderemo in faccia il rischio della morte, e cercheremo soluzioni intermedie, che tutelino quanto più possibile la vita biologica senza però distruggere del tutto la vita umana?

    Ecco, dunque, la domanda su cui più mi interrogo. E da qui il titolo che ho dato a queste righe. Nel De corona militis, Tertulliano rivendicava come il servizio militare sia incompatibile col modo d’essere cristiano. Metteva a confronto una forma di vita con un’altra forma di vita, e sottolineava il dovere, per i cristiani, di contrapporsi se necessario anche allo Stato (mettendo così a repentaglio la propria vita biologica) pur di tutelare la propria forma di vita. Mi domando in fondo se non sia addirittura a questo, a quest’ultima contrapposizione, che presto noi stessi dovremo giungere.

 

    Moltissime, arrivato fin qui, sono le questioni che non ho potuto toccare, dal rapporto fra politica e scienza fino alla rivoluzione digitale e alla necessità di individuare nuove forme democratiche, più rapide e flessibili ma comunque capaci di tutelare le minoranze. Credo che la crisi che stiamo attraversando sia anche, proprio in quanto così onnicomprensiva, l’occasione per ridiscutere e trasformare la nostra forma di vita, che da decenni richiede un rinnovamento profondo. Tutto dipenderà da come ne usciremo, e da come fronteggeremo le crisi future: se ci limiteremo a difendere la vita biologica, mettendo intanto al riparo qualche briciola della nostra forma di vita attuale; o se saremo noi stessi a trasformare tale forma, rendendola migliore e al contempo compatibile con le sfide che ci attendono. E dunque questo dovrebbe essere, credo, il nostro Antivirus: una fucina di pensieri che immaginano, a partire da, e contro, il virus, forme di vita possibili.


Paolo Zani è laureato in filosofia e studia composizione musicale, ha 24 anni e vive a Roma

 


 

[1] Dati ISTAT: http://dati.istat.it/ (consultato il 28-03-2020); su questa medesima pagina (a meno che diversamente specificato) sono reperibili tutti i dati utilizzati.

[2] Così riporta La Repubblica citando la rivista The Lancet: https://www.repubblica.it/ambiente/2019/11/14/news/italia_prima_in_europa_per_le_morti_da_polveri_sottili-241031894/ (consultato il 28-03-2020).

[3] Report del 20-02-2020: https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Report-COVID-2019_20_marzo.pdf (consultato il 28-03-2020); bollettino del 24-03-2020: https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Bollettino-sorveglianza-integrata-COVID-19_23-marzo%202020.pdf (consultato il 28-03-2020).

[4] In un’intervista a La Repubblica del 24 marzo.

[5] Ringrazio Cristina Caroli Costantini, professore di Calcolo delle Probabilità presso l’università di Chieti-Pescara, per aver effettuato questo semplice calcolo.

[6] Così il report dell’ISS del 20-03-2020.

[7] Così il report dell’ISS del 20-03-2020.

[8] Così Il Manifesto: https://ilmanifesto.it/cambia-il-clima-e-le-cavallette-si-mangiano-mezza-africa/ (consultato il 14-03-2020).

5 pensieri riguardo “Sulla corona (del soldato)

  • 07/04/2020 in 2:34 pm
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    Provo a risponderti con qualche riflessione sparsa.
    Faccio delle considerazioni assolutamente personali perché sono le uniche che riesco a fare in maniera più o meno lucida e perché credo possano essere interessanti per passare più avanti ad un piano di riflessione generale.
    Partirei dalla fine della tua riflessione e ti direi che io in quarantena ci sto benissimo. Questo già è il primo segnale che qualcosa non va. Sicuramente non vanno molte cose nella mia vita che finisce per essere troppo piena e troppo rapida normalmente, certamente non va che io mi senta tranquillizzato del fatto che in ottica competitiva anche gli altri sono rallentati in questo momento. Per dirla tutta a me questa quarantena non sta rallentando affatto, studio di più leggo di più, sembrerebbe anche amplificare e lasciarmi sviluppare alcuni aspetti della mia forma di vita che di solito trascuro (dal rapporto con la mia famiglia alla lettura di romanzi fino al cucinare il pane).
    La mia risposta a questa apparente contraddizione è così ovvia da essere problematica: sto bene perché me lo posso permettere. Mi posso permettere di “produrre” senza uscire, ho una casa grande e molto vivibile, ho una famiglia serena e perfino stimolante, ho 10000 libri a casa, 3 computer e nessuna ansia economica. È problematica questa risposta perché è così limpida da essere solo foriera di colpa, non riesco a vederla come una possibilità di agire, semplicemente, non ci riesco. Ci provo ovviamente, provo a vedere tutto questo come una possibilità di convertire ciò che mi è stato dato in valore per gli altri, ho modellato tutto ciò che mi piace fare e studiare sulla possibilità che questo sia al servizio per gli altri, eppure mi pare tutto così stupido e inefficace.
    Parto da questa constatazione personale perché credo che il motivo di tanta cieca obbedienza sia la colpa, forse ancora più precisamente la vergogna, e non credo che questo valga solo per me, parlerò in prima persona per prudenza, ma immagino che il mio discorso sia condivisibile su larga scala. (In questo caso per larga scala intendo comunque le persone simili a me per età e classe sociale. In effetti infatti su larghissima scala la tua analisi sulla paura potrebbe essere più appropriata.)
    Semplicemente vedo nel mio stile di vita un tale grado di inessenzialità che, se mi viene chiesto di uscire di casa solo quando strettamente necessario, non esco per 10 giorni di fila senza particolari problemi. Entrano qui in gioco la colpa e la vergogna con potenza inaudita in questa forma: primo, sentiti in colpa perché se esci non muori tu, ma la tua nonnina. Secondo vergognati perché il motivo per cui vuoi uscire è andare a farti un aperitivo con i tuoi amichetti. Ovviamente sono esempi ma credo che siano largamente generalizzabili. E credo che la lotta politica debba essere per questa presa di coscienza. Nel frattempo il doppio movimento che vorrei fare io, e chiunque condivide questa riflessione, ragionare sul nostro stile di vita portandolo ad essere più essenziale, nel senso di riuscire a distinguere cosa vogliamo che sia forma di vita e cosa è sterile ripetizione. Dall’altra parte bisogna riuscire ad accettare le nostre contraddizioni, che sono inevitabilmente insopportabili razionalmente, con più leggerezza ed evitare senso di colpa e vergogna. Per fare questo ho bisogno di un salto di fede e mi rendo conto che è complesso accettare una conclusione simile su scala più ampia.
    Sono poi assolutamente convinto di quello che dici sulle “crisi a venire”. Meriterebbero certo un’analisi più approfondita, ma sono assolutamente convinto che questo sia solo l’inizio delle più disparate tipologie di crisi ormai assolutamente inevitabili. E sono convinto che la più grande idiozia è considerare questo periodo come un semplice intermezzo. Che lo stato di eccezione diventerà la normalità è assolutamente certo dal mio punto di vista, ragionare quindi su nuovi spazi democratici (o comunque li si voglia chiamare) è una priorità assoluta, ma questo è anche l’aspetto in cui ripongo meno speranze purtroppo.
    Chiuderò con degli interrogativi provocatori perché al momento non riesco a riflettere oltre in maniera più sistematica, spero possano esserti utili come spunto.
    Sia per quanto riguarda le crisi globali del futuro sia per quanto riguarda le attualissime crisi (come quelle delle locuste, ma ovviamente tutte le guerre e le epidemie in paesi più poveri), sono convinto che sia legittima una comparazione, in molti casi porta a concludere che in fondo la nostra è una reazione esagerata. Tuttavia, mi domando se a livello strategico-narrativo (passami il termine) sia utile lo strumento della comparazione o se non ingeneri un semplice meccanismo di rimozione di massa.
    Comparare l’attuale crisi al problema climatico è ovviamente ragionevole, ma è una strategia comunicativa efficace su larga scala?
    Come si combatte contro i colossi della comunicazione senza soldi e, per il momento, senza una strategia comunicativa adeguata? (solo per dire, ovviamente il mezzo più efficace per le tue riflessioni sarebbe, nonostante tutte le contraddizioni, Facebook.)
    Ha senso tutelare la nostra forma di vita in generale quando è evidentemente in sostenibile (per l’ambiente per i paesi che vengono sfruttati dal sistema economico globale etc…). E nel caso non abbia senso. Questa non può essere una buona occasione per riflettere e cambiare qualcosa?

    Risposta
  • 07/04/2020 in 2:49 pm
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    Trovo davvero stimolante, e straordinariamente lucido l’intervento di Paolo Zani. Non essendo d’accordo con la struttura e l’obbiettivo del ragionamento, ho il piacere di potermi confrontare con un’opinione che proprio per la sua radicalità e nettezza mi permette di fare ordine in quello che penso e, spero, di portare il dibattito su un terreno ancora più proficuo e propositivo. Rimando ad un trattamento più ampio e articolato, se ne avrò occasione su questo sito l’argomentazione generale.Segnalo solo , come emblema della diversità del mio approccio, il riferimento ai caduti sul lavoro, gli omicidi bianchi. Si tratta di 2 milioni in media all’anno nel mondo, 1.300 in Italia ( https://it.wikipedia.org/wiki/Caduti_del_lavoro )
    . dati che se compariamo a quelli delle patologie citate non si impongono per dimensione e insostenibilità.Eppure sappiamo bene che nel senso comune democratico, almeno nella nostra parte di mondo, ammesso che quest’accezione abbia ancora senso comune, ognuna di quelle vittime è intollerabile per la nostra coscienza. Ognuna di quelle morti ci dice che siamo ancora al di là della linea della civiltà. L’incapacità di percepire, registrare, localizzare e soffocare forme di infezione che possono dilagare imprevedibilmente -oggi è come descrive Paolo ma domani come sarà il prossimo ?-assicurando un servizio di assistenza universale e definitivo, dal ricovero alla guarigione, è parte essenziale della costituzione materiale della nostra comunità,costi quel che costi, ancora meglio “we will whatever it takes”, come disse l’allora presidente della BCE Mario Draghi per rispondere alla crisi economica. Con buona pace di quello che pensa l’Economist quando ci chiede di riaprire le aziende e le attività economiche anche mettendo in conto qualche centinaio di vittime. Diciamo che lungo questo crinale io misuro la differenza fra una cultura politica mercantile ed un’altra solidaristica. Semmai colgo la sollecitazione di paolo quando chiede ma perchè allora la stessa mobilitazione del contrasto al virus non la mettiamo in campo contro i tumori e le malattie degenerative? giusto , perchè?
    Infine la domanda che rimane sempre sospesa: ma perchè questa mobilitazione globale contro un fenomeno che al momento è certo nella fascia alta, ma non fuori misura fra i pericolo che insidiano l’umanità? forse uno sguardo alla mappa di diffusione del coronavirus ci aiuta a rispondere: una epidemia che punta alle zone forti del mondo, al nord del pianeta, è di perse eccezionale, e anche insopportabile per questo sistema.

    Risposta
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