Pandemia e resilienza filosofica

di Orlando Franceschelli

 

 

   Virtù civili e resilienza filosofica

Dare un nome alle cose rientra fra i privilegi di noi esseri umani. Forse aiuta anche a placare qualche ansia. E di sicuro a classificare i fenomeni del mondo che ci circonda: a orientarsi meglio tra le loro sollecitazioni. Eppure, proprio questo privilegio oggi sembra essere soltanto un’ulteriore conferma di quanto sia grave la crisi in cui un virus è stato in grado di precipitare il mondo intero: più capisci e classifichi le cause e le conseguenze di questa pandemia da Covid-19; più cominci a orientarti nello scenario planetario che essa sta delineando e più la tua ansia invece di placarsi si accresce. Fino a farti sentire con chiarezza che proprio a questa pandemia possiamo reagire in modo costruttivo soltanto facendo nostro l’ammonimento consegnatoci da Goethe in una delle sue Massime e Riflessioni: «E’ difficile venire a capo degli errori del nostro tempo: se si prendono di petto si rimane soli; se ci si inchina di fronte a essi non se ne ricava né onore né gioia» (TEA, 1988, n. 440).

Certo: suona eccessivo parlare di gioia in questi giorni. Mentre anche l’interlocuzione dei credenti col loro Dio si celebra in chiese, piazze e strade avvolte da un silenzio quasi sospeso tra solennità sacra e catarsi tragica. Ma se davvero non vogliamo inchinarci ossequiosamente – e in definitiva con meschino egoismo – di fronte ai tempi difficili che stiamo vivendo, occorre avere l’onestà e la lucidità di chiamare gli errori col proprio nome. A cominciare proprio da quelli meno equivocabili e più devastanti che di questa crisi costituiscono le cause. E che riusciremo ben poco a rimuovere se alla pandemia guardiamo nell’ottica della mobilitazione bellica contro il Coronavirus.

È appena il caso di ribadirlo: occorre innanzitutto contenere e sconfiggere il contagio. Come ben sa ogni persona ragionevole che al raggiungimento di questo risultato cerca di contribuire responsabilmente con i propri comportamenti. E prova sincera gratitudine per la professionalità e l’abnegazione di tutti coloro che in questo comune impegno rischiano direttamente la vita.

Tuttavia, proprio le cittadine e i cittadini ragionevoli, responsabili e solidali sanno anche che per re-agire costruttivamente a questa pandemia non basta sconfiggere il Coronavirus soltanto per tornare quanto prima a praticare gli stessi comportamenti individuali e collettivi che all’insorgere della pandemia hanno a dir poco contribuito. Simili aspettative sono prova non delle virtù civili di cui mai come adesso si avverte il bisogno, ma della stoltezza di chi si ostina a derubricare la portata epocale di questa pandemia e a non prendere atto delle questioni con cui essa semplicemente obbliga almeno a confrontarsi.

È anche per contrastare questa stoltezza che a me pare opportuna una resilienza critica, ossia alimentata anche di buona filosofia. L’unica resilienza, a ben vedere, in grado di farci affrontare adeguatamente i tre problemi maggiormente collegati a questa pandemia e praticamente ineludibili per ogni cittadinanza consapevole e attiva: il ruolo svolto dalla comunità scientifica; l’auspicabile presa d’atto dell’eco-appartenenza di ognuno di noi e della storia della nostra specie alla realtà naturale; la dimensione planetaria delle gravissime tensioni economiche ed etico-politiche che sempre più affliggono le nostre società. So bene quanto simili questioni siano complesse. Ma la buona filosofia ci può aiutare a non eluderle. Proviamo dunque ad affrontarle.

 

   Il ruolo della comunità scientifica

Intanto una precisazione, sempre opportuna per eliminare subito ogni equivoco: qui preme parlare non dello scientismo, ossia della pretesa che la scienza sarebbe l’unica forma di conoscenza e di argomentazione razionale, ma del ruolo effettivamente svolto dalla comunità scientifica nella conoscenza dei fenomeni naturali e nella comunicazione di questa conoscenza all’opinoione pubblica.

Era Galileo a ricordarci che la scienza ci insegna non «come si vadia al cielo» ma «come vadia il cielo». Allo stesso modo, la comunità scientifica (biologi, virologi, epidemiologi, medici) ci può insegnare “soltanto” come va la pandemia, cosa sono i virus, come si diffondono, come possiamo contenerne il contagio, come si curano le infezioni. E conseguentemente può  aiutarci a capire anche le conseguenze di certi nostri comportamenti. Evitare però i comportamenti individuali e collettivi da cui le pandemie sono addirittura favorite è un compito che la scienza contribuisce a individuare ma che non può assolvere in quanto scienza. In altre parole: la gestione e la concreta utilizzazione delle conoscenze scientifiche e del potere che esse conferiscono a chi le detiene, è una questione che non riguarda più soltanto la comunità scientifica ma l’intera società. È appunto una questione eminentemente etico-politica. Come hanno sempre saputo e ribadito gli scienziati più seri. E come eloquentemente conferma il mancato ascolto degli ammonimenti di David Quammen, in questi giorni non a caso intervistato da tutti i giornali del mondo.

Da anni questo noto divulgatore scientifico aveva richiamato l’attenzione sui timori degli scienziati per il probabile passaggio di virus animali all’uomo (spillover). Ma ancora oggi e proprio di fronte al dilagare dell’attuale pandemia da lui prevista quasi nei dettagli, Quammen si vede costretto a ricordarci non solo il mancato ascolto di questi timori, ma anche che le pandemie causate da spillover sono destinate a ripetersi se non impareremo a «trattare con il massimo rispetto il resto del mondo vivente». Come dire: se non ci decidiamo a prendere atto che «la terra non è soltanto dell’uomo» visto che esseri umani, animali e virus sono tenuti tutti in stretta connessione «dalla storia evolutiva e dal dover coesistere su un pianeta così piccolo» (D. Quammen, “La Lettura” , 22-3-2020).

E che la terra si stia rivelando sempre più piccola appare veramente difficile negarlo. Piccola al punto che alcuni scienziati non esitano ormai a definirla un «pianeta umano», nel senso di condizionato profondamente o «creato» dalle nostre attività (S. Lewis – M. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Einaudi, 2019, pp. XVIII-XXI). E che perciò versa in condizioni quasi precomatose. Con prospettive ancora più drammatiche innanzitutto per i suoi abitanti più poveri e più indifesi. Questo, com’è noto, è il biglietto da visita con cui si presenta la nuova epoca geologica in cui ci ritroviamo a vivere: l’antropo-cene, come propone di definirla la comunità scientifica, in considerazione del crescente e invasivo dominio esercitato ormai dalle attività umane su ogni angolo della biosfera. L’attuale pandemia non è, almeno in parte, una delle conseguenze più minacciose e più eloquenti dell’antropocene? Non è evidente il nesso che la lega a tutte quelle attività umane – intimamente collegate alle logiche coloniali delle nazioni tecnologicamente, economicamente e militarmente più potenti – che stanno infliggendo a ogni forma di vita ospitata dalla terra ferite profonde e che possono degenerare ulteriormente? Francamente, a me proprio non riesce di sentirmi in guerra con i pipistrelli che vivevano nelle foreste primarie, sono stati privati di porzioni sempre maggiori di questo loro habitat naturale, e dopo essere stati trasportati in gabbia nelle piazze dei mercati del nostro mondo globalizzato si sono pure permessi di non custodire educatamente nelle loro cellule i virus con i quali convivono da sempre.

E dunque: chi se non la comunità scientifica ci aiuta a capire queste dinamiche che stanno trasformando il «pianeta umano» in una polveriera ecologica sempre pronta ad esplodere? Quale altra visione dei fenomeni naturali dovremmo preferire a quella che ci mettono a disposizione gli scienziati, che nei laboratori cercano di predisporre vaccini contro le infezioni? Non sono proprio loro, gli scienziati, a smontare con i risultati delle loro ricerche, sempre falsificabili e di pubblico dominio, le teorie complottiste, così mirabilmente incarnate – come non ricordarlo – dalla testardaggine con cui il comandante in capo della nazione più potente del mondo si è ostinato a negare l’esistenza e la pericolosità del Coronavirus, fino a quando non ha visto morire le persone per le strade di New York? Per non dire della repressione illiberale con cui i governanti cinesi hanno taciuto l’insorgenza dell’epidemia, dando un notevole contributo al suo trasformarsi in pandemia.

Certo, giova ribadirlo: la scienza è innocente quanto alla decisione etico-politica. Non ci dice se è più saggio distruggere la terra o imparare a convivere con gli altri esseri viventi che essa ospita. Maturare questa convinzione ed educarsi a metterla concretamente in pratica è compito che spetta alla società nel suo complesso. Solo la scienza però può dirci come si genera e si espande una pandemia e farci capire, grazie a conoscenze che l’umanità non aveva mai avuto a disposizione, che da certi comportamenti derivano certe conseguenze. A cominciare proprio dal fatto che, se il contagio lo vuoi fermare, è necessario prendere alcune precauzioni e rispettare alcuni divieti. Perciò la scienza, in quanto conoscenza più plausibile dei fenomeni naturali, è interlocutrice indispensabile di ogni visione del mondo ispirata al realismo e di ogni valore etico-politico ispirato a responsabilità e solidarietà. La comunità dei ricercatori non può dirci, per esempio, se la potenza che la scienza e la tecnica hanno messo nelle mani di Homo sapiens devono essere utilizzate innanzitutto per curare le ferite del «pianeta umano», dei poveri, dei malati, oppure per soddisfare la volontà di potenza di chi ha la carta di credito giusta per accedere alle biotecnologie, che com’è noto già consentono di potenziare notevolmente le capacità umane. E promettono persino – se non l’immortalità – almeno una sorta di a-mortalità.

Varcare la soglia etica di fronte a cui la scienza si arresta per la sua stessa metodologia sperimentale, è dunque un compito che spetta assolvere ad ognuno di noi e alla comunità nel suo insieme. E al quale indubbiamente può contribuire proprio la riflessione filosofica che ci invita a prendere finalmente atto, da un lato, dei ceppi che stanno sempre più incatenando alla rupe dell’antropocene il Prometeo moderno, che certo quanto a hybris nei confronti di madre natura non è secondo a nessuno; e, dall’altro lato, del fatto che anche noi esseri umani siamo comunque una parte della realtà naturale.

È di questo naturalismo filosofico, di questa visione del mondo ispirata al realismo e a una solidale responsabilità che, in definitiva la scienza, in quanto conoscenza più plausibile dei fenomeni naturali, non può non costituire un’interlocutrice indispensabile.

 

   Antropologia ed etica dell’eco-appartenenza

In questa sede, della lunga tradizione, risalente fino agli inizi della filosofia greca, e delle implicazioni del naturalismo filosofico mi sembra decisivo richiamare due aspetti: quello antropologico e quello etico-politico. Entrambi, sebbene minoritari, sono stati ben presenti lungo tutta la cultura moderna. Fin da quando, per indicare un terminus a quo indubbiamente tra i più noti e significativi, Spinoza ha proposto di reinserire anche l’uomo e le sue vicende nel sovrumano accadimento di un panteistico Dio-Natura. Ha saputo criticare (al pari di quanto poi fecero ad esempio Hume, Leopardi, Darwin) come stoltezza il ritenere che gli esseri umani e la loro storia sarebbero un «imperium in imperio»: una sostanza e una potenza autonome all’interno della natura. Mentre in realtà sono «una piccola parte» (particula) dell’unica sostanza da Spinoza ancora identificata col Deus sive Natura.

Ebbene: se l’analisi della pandemia sviluppata in precedenza coglie nel segno, non è precisamente con l’eco-appartenza del genere umano e della sua storia che dobbiamo finalmente riconciliarci? Si pensi, ad esempio, alla riscoperta, a tratti toccante, della fragilità e della caducità umana avvenuta in questi giorni. Tutti abbiamo assistito con raccolta partecipazione alla lunga fila di camion militari che trasportavano salme a cui neppure i famigliari avevano potuto rendere un ultimo saluto. L’umana pietas costituisce un bene che immiserisce le nostre vite ogni volta che ce ne spogliamo.

Eppure, veramente c’era bisogno di questa pandemia per rendersi conto o già solo ricordarsi con partecipe pietas che gli esseri umani sono mortali e che anche le malattie e le calamità funestano la loro vita? Che siamo ovunque e quotidianamente circondati da palesi ingiustizie e sopraffazioni che queste morti, queste malattie e queste calamità in pratica le favoriscono? L’antropologia e l’etica dell’eco-appartenza educano appunto ad avere critica consapevolezza della presenza del male e a impegnarsi concretamente e sempre per rimuoverlo per quanto è possibile. Educano insomma a cercare di vivere sentendosi riconciliati con i limiti dell’esistenza umana e impegnati a coltivare con saggezza e solidarietà le sue terrene opportunità. Senza alcun cedimento a derive nichilistiche. E provando a coltivare anche al cospetto delle sofferenze e delle morti procurate dalla pandemia quel «sentimento della nostra caducità (non egoistico), che ci rattrista dolcemente e ci intenerisce» (Leopardi, Zibaldone, n. 4278) perchè sa essere effettivamente solidale con la nostra comune condizione umana. Un sentimento laicamente alieno da ogni polemica con le testimonianze di fede, che anche in questi giorni fanno sentire la loro presenza. Ma alimentato dalla critica consapevolezza, anch’essa significativamente testimoniata dalla coscienza moderna, che – sia concesso ricordarlo con le pacate parole di Karl Löwith – se veramente pensiamo e sentiamo che il mondo e l’uomo non sono la creazione di un Dio e se veramente non dimentichiamo che è impensabile che gli esseri umani al mondo ci si siano messi da soli, allora «occorre rassegnarsi al fatto che alla storia universale della natura appartiene anche l’uomo, unitamente alla sua capacità di trasformare la natura e di creare, nel mondo sovrumano della natura, un secondo mondo umano della storia» (Storia e coscienza storica, in Sämtliche Schriften, Metzler 1981 sgg., II, p. 426).

Si tratta, come si vede, di una rassegnazione naturalistica che è  radicalmente diversa da ogni rinuncia a vivere, e che d’altra parte è sostenuta dalla convinzione che il mondo non è qui per noi esseri umani (come significativamente comincia a ricordare anche la teologia ecologicamente più sensibile che del creato torna a parlare come della casa comune di tutti gli esseri viventi). Una rassegnazione virtuosa insomma, la cui più coerente implicazione etica è appunto quella di imparare a edificare un «mondo umano della storia» saggiamente consapevole sia delle opportunità che dei limiti della condizione umana. E perciò anche effettivamente emancipato da ogni arroganza. A cominciare da quella antropocentrica verso gli esseri viventi non-umani e fino all’indifferenza dei potenti, spesso non meno arrogante, verso coloro che della storia patiscono, ognuno a modo suo, le peggiori brutture: migranti, poveri, bambini, donne, malati.

Mi è difficile individuare una resilienza più efficace di fronte alle sofferenze e alle morti causate anche da questa pandemia. E a una simile resilienza critica e solidale mi sembra ci richiami, in definitiva, anche la nostra Costituzione, che della solidarietà, della tutela dell’ambiente, dello sviluppo delle capacità di ogni persona nella libertà e nella giustizia ha fatto i suoi valori etico-politici portanti.

E’ vero: le riflessioni che avete appena letto evocano una resilienza filosofico-civile forse un po’ inattuale. E sembrano destinate a risuonare ancora più flebilmente nelle agorà deserte delle nostre città. Mentre, come sempre accade nelle vicende umane, i parassiti della sofferenza non rinunciano a svolgere il loro mestiere. Esattamente come anche a Atene, mentre infuriava una pestilenza che nessuno era in grado di affrontare, fecero quei cittadini che – come si legge ne La guerra del Peloponneso di Tucidide – «nessun timore degli dei e nessuna legge degli uomini riusciva a trattenere» (II, 53, 4).

E tuttavia, dovremmo anche chiederci se proprio questa pandemia, che non è esagerato definire epocale, può essere affrontata senza impegnarsi nelle riflessioni che più da vicino e più profondamente toccano la vita di ognuno di noi e delle nostre comunità. Riflessioni che la buona filosofia non può non proporre. Innanzitutto a coloro che alla storia hanno imparato a guardare con gli occhi con cui Gramsci ha saputo suggerire di guardarla al figlioletto Delio in una delle sue più toccanti Lettere dal carcere: come all’insieme degli «uomini viventi, (di) tutti gli uomini del mondo […] in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi».

Certo: anche il timore di Goethe che si resti soli quando al proprio tempo si ricordano i suoi errori, è bene tenerlo sempre presente. Insieme alla consapevolezza di quanto si sia rivelato sempre arduo l’«impare soffrendo» (pathei mathos) identificato dalla tragedia classica come la via della saggezza imposta da Zeus a noi mortali. E del resto: non corrono tempi in cui, almeno per un po’, anche Socrate potrà aggirarsi nell’agorà soltanto col volto coperto da una mascherina?

Ma esattamente qui è il punto: questo nostro tempo rende meno o più inquietante l’indagine «sul modo in cui bisogna vivere» indicata lucidamente da Socrate come la più degna e bisognosa di continuo approfondimento (Platone, La repubblica, I, 352d)? A ben vedere, anche questa indagine, e forse tanto più nel tempo del Coronavirus, è destinata a risuonare nella mente e nell’animo di non poche donne e di non pochi uomini. A cominciare da quelle e da quelli che – come proprio Socrate tenne a ribadire anche di fronte al tribunale che lo condannava a morte – «saranno tanto più esigenti quanto più sono giovani» (Platone, Apologia di Socrate, 39d). E non hanno dimenticato che la buona filosofia è ben lungi dall’identificarsi con la solitaria contemplazione di realtà soprannaturali. O ancor meno con la ricerca autoreferenziale delle accademie. Per tacere di certa chiacchiera mediatica. Come dire: non hanno dimenticato che la buona filosofia è il sale della partecipazione alla vita democratica delle nostre società pluraliste, liberali e solidali.

È il contributo più modesto e meno sterile di ognuno di noi a quello che non a torto già Michel de Montaigne (Saggi, Adelphi, II, p. 1485) è tornato a indicare alla nascente modernità come «il nostro grande e glorioso capolavoro»: provare a «vivere come si deve».

 

Orlando Franceschelli, filosofo, ha 70 anni e vive a Roma.

 

3 pensieri riguardo “Pandemia e resilienza filosofica

  • 08/04/2020 in 4:54 pm
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    La coscienza individuale e collettiva di un rischio si può vivere a due diversi livelli, o come consapevolezza astratta di un rischio ipotetico e inattuale o come terrore nell’imminenza del pericolo. Si percepisce seriamente il rischio di finire schiacciati sotto le macerie della propria abitazione solo quando si vede il lampadario oscillare e si sente che i muri scricchiolano. In quel momento si sarebbe disposti a fare qualsiasi cosa per salvarsi dalla catastrofe, perché della catastrofe imminente si ha una percezione quasi fisica. Cassandra vedeva lontano e profetizzava il vero, ma nessuno le credeva perché quel vero era inattuale. I momenti di maggiore consapevolezza individuale e collettiva sono proprio quelli in cui il rischio diventa concreto e immediato. Alcuni stati d’Europa, che mostravano atteggiamenti di chiusura e quasi di pregiudizio verso altri stati, hanno cominciato a cambiare atteggiamento quando l’epidemia ha colpito pesantemente anche loro. Le vie “nazionali” per salvarsi dall’epidemia sono state presto modificate per uniformarsi alle scelte dei paesi più colpiti, nella ricerca di una strategia comune, quando l’urgenza dei fatti ha reso evidente che nessuno si salva da solo e soprattutto che le scelte migliori nei confronti dell’epidemia sono quelle dettate dalla Scienza prima che dalla Politica. L’idea che imporre il distanziamento sociale sia una scelta politica, e come tale discutibile, e non il recepimento doveroso delle indicazioni degli scienziati deriva dal fatto che alcuni credono che il mondo umano, e quello politico in particolare, siano del tutto indipendenti dal sistema fortemente interconnesso della natura. Purtroppo milioni di persone stanno pagando e continueranno a pagare le conseguenze di questo modo di ragionare. Quegli stessi stati che in altre circostanze, anche soltanto pochi giorni prima, avevano mostrato una profonda chiusura verso i modelli solidaristici in materia economica, sono diventati più inclini alla solidarietà quando hanno avuto la percezione concreta di essere solo una parte di un sistema molto più grande e complesso nel quale nessuno può bastare a se stesso. La riscoperta della solidarietà non è dovuta a motivazioni altruistiche ma al semplice rendersi conto che la solidarietà, alla lunga, paga molto più delle chiusure egoistiche. In sostanza esiste anche una eco-appartenenza degli stati, che esige un equilibrio interconnesso. Il virus sembra aver promosso una resipiscenza e aver reso evidente l’eco-appartenenza della specie umana ad una natura che ha le sue leggi, dalla comprensione e dal rispetto delle quali non si può prescindere. Ma, attenzione! Il principale difetto della resipiscenza, sia individuale che collettiva, è la sua labilità. l’esperienza insegna che, cessata l’immediatezza del pericolo, la consapevolezza e la disponibilità a modificare i propri comportamenti scivolano nell’archivio della memoria e tornano ad essere una consapevolezza astratta di un rischio non più attuale e una disponibilità da rinviare sine die, i buoni propositi svaniscono e si continua ad abitare in un edificio lesionato sperando ottimisticamente nella buona sorte. Questo è il paradigma delle catastrofi che sembra ripetersi ciclicamente e inesorabilmente. Alla labilità della resipiscenza c’è un unico parziale rimedio che consiste nella trasformazione della resipiscenza in atti fondativi concreti di una realtà almeno parzialmente rinnovata. La Costituzione italiana ha rifondato lo stato su una consapevolezza forte, che aveva raggiunto il suo massimo grado di maturazione, se si fosse persa l’opportunità del momento, gran parte del patrimonio di principi e di valori che la Costituzione ha consacrato sarebbe andata persa nell’abisso di una memoria non più attuale. È proprio per questo che nel momento in cui emerge una consapevolezza nuova è necessario consolidarla, trasformarla in norma, in istituzione, in regola di vita, non fidando solo nella buona volontà individuale, ma soprattutto in un nuovo, o in un parzialmente rinnovato insieme di regole, sia di comportamento individuale che collettivo. Con il Corona Virus, l’immagine della morte, che è il contenuto più rimosso o più sublimato e caricato di significati ben al di là della sua semplice naturalità, è sempre davanti ai nostri occhi, ma anche qui i livelli di percezione possono essere i più vari: altro è vedere i camion militari che portano via i feretri da Bergamo, e altro è vedere come la morte in rianimazione possa essere l’apice di un Calvario angosciante, altro ancora è la morte per chi l’ha sentita vicina a sé nella perdita di un familiare o di un amico o addirittura nel vedere la propria vita ad un passo dalla fine. Solo chi ha provato l’esperienza del campo di sterminio sa veramente che cosa sia un campo di sterminio. Solo chi ha visto la morte vicinissima sa che cosa vuol dire un’epidemia. Si comincia ormai a riflettere sul “dopo”, e il processo di rimozione e archiviazione dell’oggi è già cominciato. Mi sono chiesto molte volte perché non si presentano all’opinione pubblica i veri testimoni dell’epidemia, che non sono i medici ma quelli che nel reparto di rianimazione ci sono finiti veramente come pazienti intubati e che hanno visto morire quelli che erano accanto a loro. La testimonianza di queste persone sul presente servirebbe oggi a stimolare una più profonda presa di coscienza della fragilità della dimensione umana e della natura in generale. Il Covid-19 è una terribile calamità, ma non sarà né l’ultima né la peggiore, se allo sfruttamento indiscriminato della natura non si sostituirà la comprensione e il rispetto sostanziale degli equilibri naturali, se l’iniquità dei modelli economici non sarà corretta, se non ci sarà una risposta in termini di giustizia, prima che di pietà, alla richiesta di aiuto che viene dagli ultimi in Italia e nel Mondo. Dire che la Scienza è la conoscenza più plausibile del reale sembra quasi un modo di svilire la Scienza, spogliandola dell’aura metafisica che la fa apparire come qualcosa che dà certezze, ma questa definizione di Scienza è in fondo l’unica definizione di buon senso che individua l’essenziale nella ricerca che non ha fine e che deve avere come unico obiettivo non la costruzione di sistemi di concetti, ma il progresso dell’Umanità nel suo complesso. In questi giorni si assiste ad un lavoro sempre più connesso della ricerca scientifica, ma tutta l’organizzazione della ricerca andrebbe ripensata, in termini di finanziamenti, di condivisione dei risultati, e di equilibrio-collaborazione tra pubblico e privato. Se si considera lo sforzo titanico fatto dalla sanità pubblica in Italia nella lotta contro il virus e si riflette sul fatto che in molti paesi non esiste alcun sistema sanitario pubblico ci si rende conto delle enormi diseguaglianze che caratterizzano l’umanità ancora nel XXI secolo. L’iniquità dei sistemi economici si riverbera anche, e sempre più inequivocabilmente, nell’iniquità dei modelli di sfruttamento della natura che ignorano e stravolgono gli equilibri ecologici ed espongono il mondo intero a catastrofi annunciate e colpevolmente ignorate, che sarebbero evitabili se la resipiscenza umana non fosse perennemente rinviata. Concludo questa mia risposta citando quanto Papa Francesco ha detto nella sua recente intervista pubblicata da La Civiltà Cattolica: “Dice un proverbio spagnolo: «Dio perdona sempre, noi qualche volta, la natura mai». Non abbiamo dato ascolto alle catastrofi parziali. Chi è che oggi parla degli incendi in Australia? E del fatto che un anno e mezzo fa una nave ha attraversato il Polo Nord, divenuto navigabile perché il ghiaccio si era sciolto? Chi parla delle inondazioni? Non so se sia la vendetta della natura, ma di certo è la sua risposta.”

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  • 09/04/2020 in 2:06 pm
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    Posta la inevitabile trasformazione e sfruttamento della natura (al netto dell’antropocene), la visione di Löwith relativamente all’etica di un mondo umano della storia è suggestiva, non fosse altro nella prospettiva di “saper vivere bene”. La filosofia è utile a questo.
    Mi aspetto, in un prossimo articolo, e sulla base dell’evocazione di fragilità e destino tragico cui l’umanità è chiamata in questo periodo, l’altra rappresentazione della filosofia: il saper morire bene.

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  • 11/04/2020 in 11:39 am
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    L’articolo – Pandemia e resilienza filosofica – nel quale il professore Orlando Franceschelli analizza con profonda lucidità, da un lato le cause che hanno contribuito all’insorgenza dell’attuale pandemia e dall’altro i corretti comportamenti individuali e collettivi che la buona filosofia eticamente ci suggerisce, rappresenta a mio avviso un’onesta e coraggiosa testimonianza di coerenza e di impegno civile. La lettura del suddetto articolo ha immediatamente stimolato in me alcune riflessioni sulla realtà che viviamo.
    L’esplosione di una pandemia di proporzioni inimmaginabili come quella che stiamo vivendo, oltre al problema del suo contenimento e alla ripresa economica che dovrà seguire, pone prepotentemente alla nostra attenzione le diverse e ben argomentate considerazioni sulle sue origini che scienziati e studiosi di diverse parti del mondo propongono con convinzione. Quando la pandemia del coronavirus sarà cessata, si sostiene, occorrerà intervenire sui fattori che l’hanno determinata. Se non si agisse in tal senso, nuovi agenti patogeni e nuovi virus, che sono anche e soprattutto ambientali, potrebbero in futuro minacciare l’uomo costringendolo a vivere in una condizione di grave rischio potenziale. La pandemia da coronavirus ha molto a che fare con l’ambiente. I cambiamenti climatici che modificano l’habitat dei vettori animali di questi virus, l’intrusione umana in un numero di ecosistemi incontaminati sempre maggiore attraverso la deforestazione con la conseguente perdita di biodiversità, l’agricoltura e l’allevamento intensivo, il rapporto tra l’uomo con la fauna selvatica sono tutti fattori che possono contribuire alla manifestazione di eventi epidemici di portata planetaria. La ricerca scientifica internazionale ha ormai da tempo posto l’attenzione sul rapporto tra salute e ambiente. Ci si chiede in quale misura gli eventi pandemici possano essere conseguenza diretta dei suddetti fattori di rischio. Sintetizzando, Esiste un nesso di causa-effetto tra ingiurie ambientali e patologie nell’essere umano? Molti scienziati ritengono che tale nesso esista. Se si interviene sull’ecosistema e lo si danneggia è inevitabile che questo troverà sempre un nuovo equilibrio che spesso ha conseguenze dannose e conseguenze patologiche per gli esseri umani. Il meccanismo del Covid-19, come stabilito dagli scienziati, è quello del salto di specie innescato dalla promiscuità con animali selvatici, amplificato dalla concentrazione di popolazioni in megalopoli e trasportato dalla globalizzazione. Inoltre, i cambiamenti climatici, come sostenuto da più parti potrebbero aprire scenari ancora più inquietanti e pericolosi. In un pianeta più caldo, virus, batteri, funghi e parassiti potrebbero trovare le condizioni ideali per diffondersi facendo aumentare vertiginosamente le patologie infettive. Inoltre, in un quadro macrogeografico, la quasi totalità degli scienziati sostiene che anche lo scioglimento dei ghiacciai potrebbe rilasciare virus molto antichi e pericolosi.
    L’emergenza del coronavirus, oltre ad essere naturalmente una tragedia umana, rappresenta la più grave crisi socio-economica che in brevissimo tempo si è abbattuta su diversi paesi del mondo. Oltre a salvare vite umane, a fermare il contagio, noi da oggi dobbiamo decidere come si vuole uscire dall’emergenza, come si vuole riprogettare il futuro per rendere l’economia e la società più sostenibili. Sarebbe un errore se ancora oggi si pensasse di rilanciare lo sviluppo a spese dell’ambiente. Sarebbe gravissimo se si pensasse di riattivare il vecchio sistema che ha provocato ferite ambientali così profonde. È necessaria non una restaurazione economica ma una nuova normalità che ci spinga verso la green economy, che tenga conto dell’impatto ambientale cioè dei danni che l’intero ciclo di trasformazione delle materie prime: estrazione, trasporto, trasformazione in prodotti finiti e smaltimento dei rifiuti, può avere sull’ambiente. È necessario che in tutto il mondo la politica favorisca lo sviluppo delle energie rinnovabili, le bonifiche degli ambienti, che favorisca l’efficienza energetica con regole e controlli certi, che sostenga le industrie meno inquinanti come quelle del settore del recupero e del riciclo dei rifiuti, che implementi l’abbattimento delle emissioni dannose. Insomma, occorre realizzare radicali cambiamenti che mirino a difendere la salute partendo dall’ecosistema e che ci aiutino a sconfiggere anche gli altri virus non meno pericolosi che si annidano nelle pieghe della società quali la criminalità organizzata, le ecomafie , le guerre, la fame, le ingiustizie sociali ecc. Il cambiamento ha bisogno di ciascuno di noi. Questo momento storico, fatto anche di grossi impieghi di fondi da parte degli stati, può davvero rappresentare l’occasione per la progettazione di un nuovo orizzonte fatto di ambiente, di salute e di un futuro meno a rischio che ci assicuri dignità e libertà.
    Angelo Fadda.

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