Una inaspettata fine del mondo

 

di Nicola Villa

 

“Se stai leggendo queste parole, allora l’umanità non è ancora scomparsa”. Chi non ha mai sognato di iniziare un racconto in questo modo. È uno degli incipit più abusati dalla science-fiction. Potrebbe essere l’inizio di un libro di fantascienza apocalittico di serie B e invece è la realtà che stiamo vivendo con angoscia in questi giorni. Una realtà plausibile, per quanto inaspettata che siamo stati abituati a contemplare con distacco e ironia nelle nostre traiettorie esistenziali: prima o poi doveva succedere, l’apocalisse ci sarebbe stata, una buona parte di libri e film ne parla. Scoprirsi ancora vivi è già qualcosa di scioccante e ha qualcosa di famigliare. Ce lo aspettavamo, lo sapevamo, prima o poi sarebbe arrivata. Eccola l’apocalisse eppure non è come ce la immaginavamo, ma è qualcosa di molto più purgatoriale, è un’attesa senza fine, scandita dal conto dei morti.

L’Università Johns Hopkins ha creato una mappa online visitabile a questo sito, continuamente aggiornata con il numero di contagiati, morti e guariti., si può navigare scorrendo le liste, ma anche sorvolando il planisfero, cliccando i cerchi rossi sulla carta che a seconda del diametro indicano i casi di Covid-19 per aree. Sembra un videogioco, quei cerchi sembrano delle esplosioni di bombe nucleari.

L’ha scritto qualche giorno fa la giornalista inglese Laurie Penny: “Non avremmo dovuto essere più preparati? La nostra cultura è stata imbevuta di porno-catastrofismo per decenni”. No, non siamo preparati perché nonostante il nostro immaginario sia saturo di apocalittismo, i cambiamenti che sta introducendo e le contraddizioni che sta facendo emergere la crisi del coronavirus non erano affatto immaginabili. E non è il caso di tirare fuori la citazione attribuita a Fredric Jameson, poi a Slavoj Žižek e quindi resa famosa da Mark Fisher, sulla maggior facilità di immaginare la fine del mondo rispetto a quella del capitalismo, perché il sistema tornerà ancora più spietato di prima, smetterà il vestito da malattia per indossare quello da cura. In questi giorni siamo sovraccaricati di articoli, opinioni, alcuni illuminanti, su cosa ne sarà della nostra economia, su quanto ampio sarà il disastro, su quanto il capitalismo è responsabile del prima e quanto ci farà pagare il dopo.

Il punto è che nonostante la produzione culturale di massa abbia giocato a mettere in scena la fine del mondo, ci troviamo totalmente disarmati nell’affrontare questa fine del mondo. Ma nonostante questo si può dire che la cultura di massa abbia avuto un potere profetico.

Negli ultimi anni, temi piuttosto marginali della letteratura fantascientifica sono diventati mainstream come la distopia, il catastrofismo e appunto il post-apocalittico. Hollywood e Netflix hanno aperto intere unità creative per alimentare questo inconscio collettivo, suggerito soprattutto dal palpabile prossimo collasso ecologico.

Colpiscono alcuni esempi recenti: a fine novembre del 2019 il genio dei videogiochi, il giapponese Hideo Kojima, ha rilasciato il suo ultimo capolavoro, Death Stranding. Si tratta di un videogioco ambientato in un mondo post-apocalittico in cui bisogna interpretare un corriere che deve compiere diverse missioni. L’immagine dell’avatar che attraversa in totale solitudine un paesaggio devastato, carico di cibo, armi, oggetti preziosi, non è tanto dissimile da quella dei lavoratori dei trasporti e della logistica che non hanno mai smesso di lavorare per garantire i beni di prima necessità (e non solo). Si tratta di trasportatori, postini e corrieri che non si sono fermati insieme a tante altre categorie strategiche, anche a costo della propria salute. 

Una delle serie più viste di questo decennio, Walking Dead, sembra una riattualizzazione dei soggetti di Richard Matheson perché parla appunto di superstiti in un mondo colpito da virus che ha trasformato in buona parte gli uomini in zombie. I pochi superstiti si devono riorganizzare, basta individualismo, ci vuole gioco di squadra per sconfiggere i semi-morti.

Al cinema un successo degli ultimi anni è The Purge – La notte del giudizio, film horror a basso budget che ha dato forma alla paura dell’epoca trumpiana, basato su un’idea semplice e geniale per la quale in una società futura il crimine è stato sconfitto perché una notte all’anno la legge è sospesa e si può uccidere impuniti e commettere altre atrocità. Le autorità nel film – suona oggi molto famigliare – raccomandano a tutti di restare in casa mentre i criminali possono sfogarsi.

   Ma da dove viene questo bisogno di immaginarsi la resa dei conti finale?

Buona parte del “riuso” della cultura di massa ha risposto a una necessità di recupero vintage di un certo immaginario ormai consolidato. È come se si fosse avvertito una certa nostalgia della “fine del mondo” anche in opere recenti apprezzate e discusse, che hanno spesso usato il mito dell’apocalisse come pretesto minimalista. In questi libri colpisce, col senno del poi di questi giorni, l’aver anticipato la nostalgia del mondo prima, la riflessione tutta intimista sul valore della memoria e sulla perdita delle relazioni.

In Le cose semplici, romanzo di appena cinque anni fa, Luca Doninelli si immaginava un mondo post-apocalittico in cui una famiglia veniva divisa da un enorme cataclisma e investiva tutte le energie nel ricostruire i fatti accaduti per le persone lontane in loro assenza. Una necessità non tanto lontana da chi in questi giorni di quarantena sente il bisogno di condividere diari e lettere per i propri conoscenti.

In Stazione undici la narratrice canadese Emily Mandel si immaginava un contesto simile, ma in quel caso i superstiti costruivano un museo di tutti gli oggetti che appartenevano al mondo di prima e che erano diventati inutili nel post-catastrofe. Anche qui un caso di minimalismo nostalgico del mondo di prima nel quale il narratore superstite guardava il cielo ricordando quando era solcato dagli aerei e le autostrade dalle macchine.

Nel finale di Una possibilità di un’isola Michel Houellebecq ideava un futuro in cui i superstiti, tutti cloni discendenti dal narratore, comunicavano tra loro solo da computer, via chat o videochiamate, come tante isole, come ci stiamo abituando in questi giorni a mantenere le relazioni sociali.

Scrittori solidi e affermati come J.M. Coetzee e Cormac McCarthy hanno sentito la necessità di re-interpretare queste tematiche in modo originale nelle loro ultime prove come La strada  e L’infanzia di Gesù. Diversi narratori italiani hanno riscoperto questo sotto-genere della science-fiction e alcune case editrici hanno dato voce a questa nuova fortuna del genere inaugurando collane dedicate. Spesso la fantascienza è associata a personaggi adolescenti, come pretesto narrativo per raccontare questa età e le contraddizioni di un mondo giovane che si scontra scontra con un vecchio. È molto interessante, inoltre, come le tematiche del nuovo femminismo abbiamo trovato in questo genere un campo fertile di ragionamento: Le visionarie. Fantascienza, fantasy e femminismo è un’antologia di racconti curata da Ann e Jeff VanderMeer proprio su questi temi.

Il romanzo moderno si confronta da un paio di secoli con questi temi ma senz’altro in termini “massimalisti”. Non è un caso che grandi capolavori che riguardano l’uomo solo di fronte alla morte, alla fine del mondo e alla sopravvivenza, siano diventati dei paradigmi della “lotta per la vita”, dall’etica protestante di Defoe al darwinismo sociale di London, arrivando alle vette di Shiel e Wells. Ma, appunto, questa narrativa si poneva in ottica massimalista, ben diversa da quella attuale.

    La fantascienza del Novecento è stata una delle esperienze contro culturali più entusiasmanti e innovative: autori come Orwell, Bradbury, Vonnegut, Dick e Ballard hanno portato nella cultura tematiche gigantesche come la critica del potere, la psicanalisi, l’immaginazione sociologica su un veicolo fino ad allora bistrattato come la narrativa di genere.

Anche se le tematiche sono molto simili e derivano da quelle opere, è difficile tracciare una continuità tra quella stagione e quella attuale che è più nichilista, introversa e minimalista. Mai come in questi ultimi decenni la produzione culturale di oggetti di consumo di intrattenimento di massa si è focalizzata su queste tematiche. Questa produzione, soprattutto nella cultura dominante, ha avuto un effetto anticipatore sulla realtà ma non ci ha preparato a sufficienza: la realtà si fa gioco della fantasia. Probabilmente è stato profetismo suggerito dall’urgenza ecologica e dalla sovrappopolazione, ma l’ironia vuole che di fronte a un totale capovolgimento della nostra realtà come quello che sta operando la pandemia mondiale del coronavirus, questo porno-catastrofismo sia diventato inadatto a leggere la realtà.

 

Nicola Villa ha 36 anni, è il vice-direttore di “Gli Asini” e vive a Roma.




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