Prevedibile e imprevedibile

Pensare il futuro dopo il Coronavirus

di Vito Teti

 

   Fine del futuro?

 

    Questa pandemia – guerra, calamità, crisi, sospensione, catastrofe? – ha spiazzato tutti. Sento dire: «era inattesa, apparteneva all’ordine dell’impensabile, del non immaginabile. Nessuno poteva prevederla, almeno in queste forme». Sgomento, orrore, terrore, angoscia dinnanzi a quanto di più inquietante e più perturbante poteva accadere sono del tutto giustificati, comprensibili; così come si può comprendere la difficoltà a capire, a intervenire, a combattere il virus. In questa autoassoluzione però si tende ad abbracciare anche il passato e si finisce per concludere che nessuno ha la responsabilità per quello che è accaduto. L’imprevedibilità diventa un alibi per evitare di capire quanto è successo finora e anche per evitare scelte di domani. Ma quanto è accaduto era davvero imprevedibile? 

    Ogni riflessione, anche la più leggera, su ciò che è prevedibile e imprevedibile nella vita ci pone fuori dal tempo, dall’attimo, dal momento in cui stiamo pensando e riflettendo. E così ci accade ora. Per cercare di capire, conviene fare un passo indietro, tornare a riflettere sull’idea del tempo e del futuro (o sulla mancanza di una idea di futuro) che avevano gli uomini di ieri, che ora, con il coronavirus, si trovano improvvisamente come in un altro mondo.  È bene ripensare anche questa catastrofe in una trama di lunga durata della modernità e, nel nostro caso, della storia nazionale degli ultimi decenni (secondo quanto propone Carmine Donzelli).

    «Che fine ha fatto il futuro?». Il titolo italiano del libro di Marc Augé (2009) ha costituito il tormentato leitmotiv che ha segnato, non a caso, una ricca e variegata letteratura filosofica, sociologica, antropologica, quasi sempre concorde nel mostrare che il futuro era scomparso dal nostro orizzonte, quasi dalle nostre attese, dalla nostra immaginazione, dai nostri sogni, dalle aspettative pubbliche e private. La frase ricorrente, per lunghi anni prima della pandemia, secondo cui «i giovani non hanno futuro» descriveva una situazione d’incertezza e di insicurezza e suonava come una denuncia dell’incapacità di progettare quello che un tempo si chiamava «l’avvenire», e come impossibilità di immaginare e pensare quello che sarebbe accaduto domani, se mai un domani era pensabile. La fine delle utopie novecentesche, che avevano immaginato il «sole dell’avvenire», aveva fatto smarrire l’idea stessa di avvenire. Da due o tre decenni – soprattutto dopo il crollo del Muro, la fine dell’Urss e della guerra fredda – il presente era diventato egemonico. La cultura dell’immanenza negava il futuro. Il tempo come principio di speranza sembrava essere scomparso dalle nostre discussioni, dalle nostre coscienze e dalle nostre prospettive politiche. Si affermava il fatto compiuto, inesorabile, schiacciante, il cui sorgere faceva sparire il passato e saturava l’immaginazione del futuro. Tutto era da consumare subito, ma non da pensare. La tirannia del presente si riassumeva in formule che parlavano di fine della storia, di globalizzazione e legge del mercato, di fenomeni su cui era impossibile e inutile avere la pretesa di intervenire. Il nuovo ordine planetario non generava uno spazio pubblico globale, una polis e un’agorà in cui l’opinione pubblica potesse realmente formarsi. In questo scenario, i media finivano con lo svolgere il ruolo che un tempo spettava alle cosmologie.

    All’immanenza e alla tirannia del presente corrispondeva, nel nostro ieri, la mitologia dell’eternità, della gioventù perenne; un ribaltamento di quanto aveva caratterizzato il modello pre-moderno. Nelle società precedenti, basate sul ciclo del ritorno, la vita dell’individuo era stata scandita nel ciclo dell’anno e in una sequenza in cui ruoli, spazi e compiti delle diverse età erano stati riconosciuti e valorizzati. I riti di passaggio avevano scandito quel tempo ciclico. La vecchiaia era stata vista come una rinascita (un «passaggio») a una nuova età, cui venivano riconosciuti compiti e mansioni: non era ridotta all’attesa della morte. Nel nostro ieri, invece, l’illusione ossessiva di un corpo perennemente giovane, fuori dal tempo, cancellava contestualmente sia la giovinezza che la vecchiaia. Il passato c’era e restava. Il presente e il futuro invece perdevano il loro carattere temporale. E in un mondo in cui i vecchi tentavano di rubare la scena ai giovani, questi ultimi smettevano di immaginare il futuro. La vecchiaia in qualche modo veniva rimossa o vista come un ostacolo. Vigeva una sorta di tirannia del presente, determinata dalla perdita di memoria e dalla fine della gioia per il progetto e la prospettiva. In definitiva, il futuro non godeva fino a ieri di buona salute: sembrava esistere soltanto negli oroscopi e nei film e nei romanzi di fantascienza. Improvvisamente, il tempo della pandemia ci costringe a riaprire il discorso sul futuro. Ci fa vedere, adesso, l’enorme rischio di questa rimozione: quando si teme e si celebra, si lamenta e si decreta la fine del futuro, esso torna come rimosso, rimorso, ansia, terrore, paura, fuga.

 

    Pessimisti e ottimisti

 

    Fino a ieri, il tempo presente ci proponeva per il futuro scenari che andavano in due direzioni opposte. Si passava da concezioni pessimistiche e apocalittiche che parlavano di autodistruzione dell’umanità e autoestinzione della nostra specie alle visioni ottimistiche di una vita postbiologica ed extraterrestre dei transumanisti.

    Per i pessimisti la «fine» era già avvenuta e noi ne stavamo soltanto prendendo atto: nel 2100 saremo in 9 miliardi su un pianeta rimpicciolito dall’avanzata dei mari, barricati in città attraversate da ondate roventi, inseguiti da malattie tropicali che allargheranno il loro raggio di azione, con milioni di persone in fuga dalle pianure invase dalle acque o inaridite. Eravamo vicini al punto di non ritorno. Fermare la corsa verso il disastro era ancora possibile ma bisognava intervenire subito. Megalopoli invivibili, guerre atomiche, sconvolgimenti, sovrappopolazione, scarsezza di cibo, terremoti. E ancora: la rapina costante dell’ambiente, l’effetto serra, l’avvelenamento, l’instabilità e le crisi permanenti, il grande fratello, il terrorismo. Per molti tra gli appartenenti a questa categoria, il mondo era già terminato.

    Sul fronte opposto, fino a ieri, gli ottimisti ostentavano baldanzosa fiducia: avremo nuovi cibi, case confortevoli, acque salubri, tempo libero illimitato. Le possibilità di un futuro radioso saranno sempre più concrete grazie alle continue scoperte della scienza e all’affermarsi dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie. Donne e uomini saranno ancora più longevi, sempre più immuni dalle malattie, perennemente giovani quasi, immortali. Vivremo centinaia di anni e i nostri corpi, grazie all’ingegneria genetica e ad arti bionici del tutto simili a quelli veri, avranno sempre 25 anni. Case ipercomode, riscaldate, nessuno sarà costretto a lavorare. Energie illimitate e sapere crescente. L’ingegneria informatica e quella biologica ci porranno di fronte a un uomo che risolve tutte le antiche dipendenze, un uomo nuovo, più distante da noi di quanto l’homo sapiens lo fosse dai primi ominidi. 

    A ben vedere, ottimisti e pessimisti erano affetti da un medesimo difetto che ora, dopo il coronavirus, ci appare più evidente: il loro limite stava nel fatto che in tutte le loro previsioni – simili in ciò alle profezie – si isolava un solo elemento, o un singolo gruppo di elementi, e lo si proiettava nel futuro, separandolo da tutte le altre variabili. Il prevedibile, decontestualizzato e canalizzato in una concezione positiva o negativa del futuro, si prestava così a diventare il suo contrario, l’imprevedibile, ciò che era destinato a mettere nel scacco le aspettative e a generare disincanto e disillusione. Proviamo a vedere perché.

 

   Prevedibilità e imprevedibilità

 

    Ognuno di noi, giunto alle soglie della vecchiaia o anche solo all’età adulta, può raccontare una serie interminabile di avvenimenti, privati o pubblici, che hanno smentito le sue previsioni. Se con la memoria rivado alla mia infanzia e penso a quello che immaginavo per la mia vita di adulto, se considero la vita e le aspettative dei miei compagni di gioco e di quelli più grandi, debbo constatare il trionfo dell’imponderabile. Da bambino, nel paese in cui sono cresciuto negli anni Cinquanta, vedevo i miei compagni partire per il Canada e le città del Nord Italia. Un lungo lutto e un lento cordoglio avvolgevano le persone che partivano e che restavano, ma leniti dalla speranza di arrivare in un mondo nuovo dove fare fortuna e da cui poi tornare. Ci sono voluti anni ed anni per capire che quelle porte chiuse non si sarebbero mai più riaperte e che le strade vuote sarebbero rimaste tali.

    Se dalla sfera personale passo a quella collettiva, sociale, mondiale – alla storia del mondo – trovo altri esempi di avvenimenti e fatti inimmaginabili e impensabili. Una volta Maurice Aymard mi ha raccontato di un incontro tra storici, economisti, sociologi e studiosi di altre scienze sociali di varie parti del mondo, riuniti a Parigi per discutere sul futuro dell’URSS e dei paesi dell’Est – mentre il blocco sovietico mostrava segni di apertura e di mobilità, l’Occidente s’interrogava sulla necessità di una nuova azione politica, di iniziative e atteggiamenti diversi rispetto al passato. La riunione era ancora ai preliminari, quando qualcuno, tutto trafelato, bussò alla porta informando che era crollato il Muro di Berlino. Quella riunione diventava improvvisamente inutile e inattuale. Il mondo era andato in una direzione completamente diversa da quella che si era immaginata ancora pochi secondi prima.

    Ma le vicende che ho raccontato erano davvero imprevedibili? O quella imprevedibilità non è piuttosto il frutto di mie speranze, aspettative, attese che hanno ostacolato una lucida analisi di quello che sarebbe potuto accadere? Lo svuotamento e lo spopolamento dei paesi è davvero una catastrofe imprevista e imprevedibile di cui prendevo coscienza col passare degli anni? O non era già possibile prevedere che quell’esodo di massa ininterrotto avrebbe finito con lo svuotare campagne e paesi, erodendo economie e culture e dilatando il mondo di origine in un altrove ignoto?

    E così si può pensare per il crollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica. Davvero non c’erano segni, dati, elementi, spinte che potessero far pensare a un’implosione, una dissoluzione, un crollo, che forse nessuno voleva né sapeva vedere, perché ciascuno adoperava uno sguardo puntato sulle apparenze e non sulle scosse sotterranee? Faccio un altro esempio. Nella notte tra il 6 e 7 marzo del 2005, una frana alimentata da ripetute piogge provoca l’abbandono dell’abitato di Cavallerizzo, comunità calabro-albanese in provincia di Cosenza. Che l’abitato fosse ubicato su una frana che periodicamente si svegliava è attestato fin dal popolamento di quell’abitato da parte degli esuli albanesi nel XVI secolo. Il culto di San Giorgio che sconfigge il drago (una metafora della frana) e la grande devozione per il patrono che più volte salva il paese e i suoi abitanti durante spostamenti di terreno, attestano una conoscenza e una memoria di un rischio immanente. Per secoli l’abitato resiste alle ripetute urla del Drago: poi, in anni recenti, comincia il disboscamento inconsulto, l’occultamento dei corsi delle acque, la costruzione di abitazioni in cemento armato proprio nell’ area più franosa. Più che sperare in un nuovo miracolo del santo patrono, bisognava interpretare attentamente i miracoli del passato. Bisognava decifrare le avvertenze che da esso arrivavano. Bisognava prendere sul serio il mito, il culto, l’intervento miracoloso del Santo e le minacce e le avvertenze del Drago. E invece, la ricerca di un rapporto equilibrato con il territorio era stata totalmente e colpevolmente tralasciata: avvenne quanto si temeva e si scongiurava; quello che era largamente prevedibile.

    Prendiamo un ultimo caso. La conclamata impossibilità di prevedere un terremoto. Ripenso a quello dell’Aquila del 2008, che ha avuto effetti rovinosi e anche un grande valore simbolico. L’affermarsi di un’economia basata sulle devastazioni del paesaggio, sugli sventramenti di colline e marine, sull’inquinamento dei fondali del mare e delle montagne, sul cinismo e sul senso degli affari di costruttori, cementificatori, imprenditori, cricche: tutto questo è diventato una miscela esplosiva, un miscuglio di elementi arcaici e postmoderni che spiega perché è potuta accadere la tragedia dell’Aquila.

    Insomma: le rovine, le calamità, le catastrofi non costituiscono una sorpresa, un incidente, ma vengono preannunciate, attese, temute, minacciate, fanno parte integrante di quello che la tradizione occidentale pensa di se stessa. Il motivo delle rovine e quello dell’apocalisse hanno ormai invaso la letteratura, l’arte, la video art, i fumetti, la fotografia, il cinema, la riflessione archeologica e quella antropologica. A rendere attuali e familiari le rovine ci pensano quotidianamente la cronaca, la vita, le guerre, i bombardamenti, le devastazioni dei fondamentalisti, le catastrofi naturali. La fine del mondo (e bisognerebbe riconsiderare, per la sua profondità e attualità, la celebre opera postuma di Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, 1977) sembra essere all’ordine del giorno, nei telegiornali, negli oroscopi, nelle previsioni catastrofiche, nella realtà. E se una qualche possibilità di previsione esiste non bisogna forse guardare al futuro ma piuttosto al passato, alla storia, alle memorie scritte e orali, al paesaggio. Più che di profezie, c’è bisogno di memoria del passato, e di capacità di ascolto.

 

   L’etica del futuro

 

    L’economista Nassim Nicholas Taleb, che insegna a Oxford, in Antifragile. Prosperare nel disordine (2013) si pone il problema non di prevedere il prossimo disastro, ma di costruire sistemi adatti a reggere lo shock, di predisporci a sopportare meglio la crisi che verrà, addirittura di pensare a rafforzarsi mediante la crisi. Non ricette per prevenire i disastri, ma per diventare disastro-resistenti. Strutture che imparino dagli errori, perché errori ce ne saranno di sicuro. L’Antifragile è ciò che migliora dopo aver subito un danno, attraverso meccanismi di sovra-compensazione. Non rifiuta le crisi ma le utilizza.

    Alain Touraine (di cui vi segnalo Dopo la crisi. Una nuova società possibile, del 2012) ha parlato di etica del futuro. Il pensiero che pensa la catastrofe si pone contro il calcolo economico di costi-benefici che ha caratterizzato finora la riflessione sul rischio. Il pensiero economico non si applica alla logica della catastrofe, perché non ci troviamo più di fronte a rischi circoscrivibili o calcolabili, ma al problema della sopravvivenza collettiva.

    Se si vuole contrastare la catastrofe, bisogna porsi all’interno di un pensiero espressamente apocalittico, credere che la catastrofe non sia una possibilità, ma qualcosa che accadrà necessariamente. In realtà la prevenzione della catastrofe diventa possibile solamente attraverso la possibilizzazione della catastrofe stessa. Se dobbiamo prevenire una catastrofe dobbiamo anche credere, prima che accada, che essa possa accadere. Bisogna accettare che gli sforzi fatti per prevenirla siano stati inutili, se poi essa non si verifica. L’aspetto terribile di ogni catastrofe è che veramente noi non crediamo nella sua possibilità, anche se abbiamo elementi certi per dire che accadrà. Salvo poi, quando accade, constatare che essa faceva parte del normale ordine delle cose. La prevenzione consiste nell’agire in modo da assicurare che la possibilità di cui non si desidera la realizzazione venga relegata nella sezione ontologica delle possibilità non realizzate.

    Si tratta di ripensare gli stessi termini e le stesse categorie di prevedibile-imprevedibile e magari di domandarci se prevedibile-imprevedibile narrino un’opposizione o se invece non ci sia un’imprevedibilità in quello che si presenta come prevedibile e, viceversa, in quello che appare radicalmente imprevedibile non ci siano elementi e margini di prevedibilità. Tra un pessimismo per un futuro da incubo e un ottimismo futuristico tipico delle moderne filosofie della storia, tra bioconservatorismo e futurismo postumanistico, ha senso affermare una prudenza, un’apertura che porti all’utilizzazione delle biotecnologie finalizzata a soddisfare innanzitutto altre priorità, quali ad esempio la cura delle malattie, il risanamento dell’ambiente e l’eliminazione della povertà. Naturalisti, credenti, postumanisti ragionevoli potrebbero convenire sul giovamento che proprio l’utilizzazione della potenza biotecnologica trarrebbe dall’essere effettivamente accompagnata dalla tecnica della saggezza. Il tutto per evitare a questa potenza di diventare impotente e per poterci aiutare a risolvere problemi come la morte di bambini per fame e malattie.

 

  L’invisibile prevedibile

 

    Torniamo al coronavirus. Serissimi studi di diverse discipline che studiavano il passato e monitoravano il presente ci avevano dato abbondanti elementi per prevedere l’imprevedibile di questa pandemia. Certo, poi, l’imprevedibile non arriva mai come lo avevamo temuto, scongiurato, evocato. La «fine del mondo» non si presenta, questa volta, sotto le vesti della guerra o del terrorismo, del terremoto o della catastrofe ambientale, ma sotto quelle di un inimmaginabile, piccolo, invisibile virus. Ma era così impensabile? La storia passata dell’umanità ci aveva consegnato memorie di pandemie disastrose, che sterminavano intere popolazioni, mettevano a rischio imperi e civiltà. E ci eravamo illusi che quelle fossero storie del passato. Il fatto è che, però, pandemie e virus insidiosi erano annunciati e segnalati da tempo. Tra i tanti che avevano annunciato una pandemia, possiamo segnalare David Quammen, che in suo articolo sulle zanzare aveva esplicitamente scritto che la prossima grande pandemia sarebbe arrivata da uno spillover. Quammen (Spillover. L’evoluzione delle pandemie, 2017) non si affidava a un sogno visionario. Si basava su ricerche di scienziati che da anni studiano questi fenomeni. La prossima pandemia sarebbe stata causata da un virus trasmesso da un animale, probabilmente un pipistrello; e aggiungeva che si sarebbe trattato di un coronavirus perché questi si evolvono e adattano rapidamente. Il salto di specie – lo spillover – sarebbe avvenuto in una ambiente in cui esseri umani e animali selvatici sono prossimi. David Quammen oggi afferma che non siamo stati in grado di implementare, e integrare, i sistemi di sorveglianza. Né a livello locale né a livello internazionale. E non si tratta solo di rafforzare i presidi sanitari – cosa pur in sé indispensabile. Si tratta di capire che ogni volta che distruggiamo una foresta estirpandone gli abitanti, i germi del luogo si sollevano come polvere che si alza dalle macerie. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali, offrendoci a nostra volta come ospiti alternativi. Il virus vince così la lotteria! Ha una popolazione di quasi 8 miliardi di individui attraverso cui diffondersi. L’inquinamento dell’aria può essere stata un’altra variabile decisiva. Per i danni che provoca ai polmoni e alle vie respiratorie ha reso le persone più vulnerabili al virus. Le persone e i gorilla, i cavalli e i maiali, le scimmie e gli scimpanzé, i pipistrelli e i virus: siamo tutti sulla stessa barca.

    È la cara vecchia evidenza darwiniana. Siamo legati indissolubilmente gli uni agli altri. Nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia. Quando finiremo di preoccuparci per questa emergenza, dovremo già preoccuparci della prossima. Ci attendono molti spillover di virus pericolosi che si trasformeranno in pandemie – anche peggiori di questa – se non migliorerà la nostra preparazione ad affrontarli. Frank Snowden, l’autorevole storico dell’Università di Yale, sostiene che per l’influenza aviaria, così come per la Mers e la Sars e l’Ebola, il contatto con gli animali selvatici è all’origine dell’infezione polmonare. Dovremo perciò evitare in avvenire le pratiche e le occasioni che portano ad avere rapporti con tali creature. Noi dimentichiamo, scrive Bevilacqua (prendo dal suo articolo apparso il 7 aprile 2020 su «il Manifesto») che proprio in casa nostra, non nella giungla amazzonica o nelle campagne della Cina, coltiviamo focolai di malattie potenzialmente epidemiche. Si ricordino le epidemie legate agli allevamenti intensivi europei, come l’Encefalopatia Spongiforme Bovina (Bse), quella prodotta dalla Salmonella Dt 104, dall’Escherichia coli 0157. Andrebbe ricordato, scrive Bevilacqua, che l’industrializzazione degli allevamenti, che ha consentito la produzione di carne e il suo consumo di massa nelle società affluenti, è stata pagata con una vera e propria esplosione delle malattie tra gli stessi animali.

    Ma in questo momento siamo allarmati dalla pandemia del Covid-19. Certo la causalità con cui questo virus è passato dai pipistrelli all’uomo non è della stessa natura di quella dipendente dal contesto degli allevamenti intensivi, ma quanto accade oggi non ci deve far dimenticare che la nostra società poggia su un sistema di produzione del cibo gravido di rischi futuri. E a questo sistema è poi legata una malattia non contagiosa, ma che negli anni, con gradualità, si è diffusa come una pandemia mortale: il cancro. Amitav Ghosh ne La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (2019), ricorda come la nostra cultura e la nostra letteratura, intimamente legate alla storia del capitalismo, sono state capaci di raccontare guerre e numerose crisi, ma rivelino una singolare resistenza ad affrontare il cambiamento climatico e a considerare come impensabile quello che è già davanti ai nostri occhi, alla nostra mente, ai nostri corpi. La stessa cecità ci ha portato a ritenere impensabili, irrilevanti e di là da venire, pandemie devastanti. 

   La domanda finale è: come mai oggi, all’improvviso, nel momento dell’emergenza, scienziati, medici, tecnici, virologi vengono tanto tenuti in conto da affidare loro la legittimità, il potere, la forza di compiere scelte a cui la politica e i governi non possono che adeguarsi (con buona pace della democrazia)? E come mai, fino a ieri, venivano invece considerati ciarlatani, apocalittici, questuanti di finanziamenti, portatori di interessi occulti, laddove segnalavano i rischi ambientali e prefiguravano, con i loro studi, scenari inquietanti? 

    Quand’è che cominceremo finalmente ad ascoltarli per tempo? Quando ci impegneremo, tutti insieme, a cercare seriamente di prevedere l’imprevedibile?

 

 

Vito Teti è antropologo culturale; ha 70 anni, è nato e vive a San Nicola da Crissa.

 

Un pensiero riguardo “Prevedibile e imprevedibile

  • 13/04/2020 in 8:44 am
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    Ho apprezzato tanto il suo articolo che condivido pienamente. Con grande modestia mi permetto di pubblicare una riflessione fatta poco tempo fa dopo aver ascoltato una profonda riflessione del filosofo Orlando Francescelli, a cui sono legato da profonda stima e amicizia. Per il tema così egregiamente trattato, spero che questa personale riflessione sia attinente.
    “Tenere foglie”
    La primavera è inesorabile.
    Sono le tenere foglie in cima agli alberi, quelle più delicate, quelle più fragili, le più sensibili che avvertono per prime il mutare del tempo. Come novelle Cassandre tremano. Un labile e commovente lamento, avvertono le altre coriacee sordi foglie, i rami, i possenti tronchi, poi giù le possenti radici, la profezia ferisce la terra profonda. Esplode il suo ventre.
    La sventura di Cassandra di predire il futuro, di crescere “maagara”, veggente, stralunata, malata di poesia, si sa, i poeti sono profeti, è solo frutto di casualità, noi non sapremo mai da chi nasciamo e nemmeno come cresceremo, il divenire, il desiderio ci affascina, ci tormenta, diventa linfa vitale, la stessa linfa che fa spuntare le foglioline a primavera. È il mistero che ci ha fatto creare gli umani Dei, il mistero che ha creato i miti. La fragilissima e neonata Cassandra viene ammaliata dai serpenti del tempio quando i suoi genitori, distratti, dopo aver danzato freneticamente, bevuto e mangiato abbondantemente, i loro corpi uniti nell’ amplesso per raggiungere il precipizio vicini alla morte, si erano addormentati sfatti tra le braccia di Dioniso. Un’altra fascinosa storia racconta del solito vagabondo Apollo che donò a Cassandra la dote profetica in cambio del suo amore, ma lei, una volta ricevuto il dono, rifiutò di concedersi; adirato, il dio le sputò sulle labbra e con questo gesto la condannò a restare sempre inascoltata. Oggi diremo gli trasmise il virus.
    È frequente l’attribuzione dell’appellativo “Cassandra” alle persone che, pur annunciando eventi sfavorevoli giustamente previsti, non vengono credute, e viene detta “sindrome di Cassandra” la condizione di chi formula ipotesi pessimistiche ed è convinto di non poter fare nulla per evitare che si realizzino.
    In questo tempo logico, altamente scientifico, morti gli dei e i miti, sono rimasti solo i diavoli a occluderci la mente, a ubriacarci insensatamente e come in un amplesso frenetico corriamo felici e ignavi verso il precipizio.
    Saggezza e prudenza.
    Saper vivere la “prova del coronavirus ” che sta attraversando l’Italia e il mondo intero, non comporta il chiudersi in se stessi, il farsi dominare dalla paura, l’arrendersi o abbandonarsi agli eventi, il perdere la propria tensione interiore, lo slancio, il desiderio di bellezza, il bisogno di gioia, ma comporta invece il cambiare stili di vita, abitudini, modalità di relazione, e riscoprire il valore della sobrietà, l’autenticità dei rapporti, che producono gioia se vissuti con genuinità, con attenzione a quanti ci stanno accanto, con sentimenti di umanità.
    Cogliamo dunque questo evento sfavorevole come una opportunità per fortificare il nostro spirito, per riconquistare la misura del tempo e delle cose, per ritrovare e esercitare la prudenza e la saggezza di uomini liberi che vogliono migliorare e vivere bene, senza per forza strafare, ubriacarsi di se stessi, vessare e conculcare il prossimo.

    Siamo esseri empatici, ovvero capaci di comprendere le emozioni dell’altro. Questa banale ma sconvolgente verità è stata provata scientificamente, la base di questa abilità sta nei cosiddetti “neuroni specchio”, che si attivano quando compiamo una determinata azione o la vediamo compiere da altri. Privilegi, ingiustizie, violenze, incivile suprematismo non avrebbero senso se solo partissimo da questa semplice affermazione. Non solo siamo empatici, siamo anche capaci di coniugare la solidarietà, la compassione, la fratellanza, la condivisione. Ma per far questo occorre parlarne spesso e senza timore confrontandoci alla pari con chi per convinzione e per ignoranza continua a praticare la legge dell’io solo io, prima e sempre degli altri. Ciò non basta è vero, occorre ritrovare idealità da condividere, passione, occorre spendere il proprio prezioso tempo anche a costo di sacrifici, in un rinnovato impegno politico. Trovo interessante riportare sinteticamente le riflessioni di questo articolo trovato casualmente stamattina nella ricerca affannosa di citazioni e documenti spero appropriati.
    Giancarla Mandozzi
    Prudenza e saggezza, non proprio sinonimi…
    “Si richiedon più cose oggi per un solo savio di quante ne occorressero anticamente per sette; e ci vuole più abilità per trattare con un solo uomo in questi nostri tempi, che non per aver a che fare con un popolo intero in passato.” La citazione è tratta da “L’arte della prudenza” di Baltasar Graciàn, filosofo e scrittore gesuita, uno degli spiriti più illuminati del suo secolo XVII.
    La saggezza stessa, intesa come equilibrio e misura, è stata fagocitata e inghiottita da quella che per alcuni è la peculiare caratteristica del nostro tempo e cioè l’assenza di misura, la scomparsa del senso del limite. Sarebbe stato già preoccupante aver perso la percezione del limite, nelle azioni, nei comportamenti, nei progetti, ma addirittura, senza avvedercene ne abbiamo annullato il senso, la ragion d’essere.
    Le opere di Baltasar Graciàn hanno trovato una larga accoglienza nell’ambiente letterario e filosofico europeo, in modo particolare durante l’Illuminismo. Arthur Schopenhauer fu traduttore d’eccezione del suo “Oracolo” in lingua tedesca e mise in rilievo il valore filosofico di quest’opera citandola più volte negli “Aforismi sulla saggezza del vivere.”
    Nella prefazione al testo, Sergio Romano ( Baltasar Graciàn, L’arte della prudenza, Milano 2009) scrive: Un prontuario di disciplina sociale, un galateo per amministrare con intelligenza la propria reputazione, un manuale per sopravvivere alla tirannia del sovrano e all’ ignoranza dei propri simili.
    In pieno Seicento, mentre l’Europa è insanguinata da impetuose passioni civili e religiose, un gesuita spagnolo scrive questo piccolo trattato di ineguagliata finezza intellettuale.
    Sappiamo tuttavia che Gracián fu richiamato all’ordine dai suoi superiori, condannato a un periodo di pane e acqua, privato della cattedra. Raccomandò la prudenza, ma lo fece con franchezza, intelligenza, efficacia, vale a dire con virtù che i suoi confratelli gesuiti considerarono inopportune.
    E già, le virtù sono pregevoli ma se non condivise da chi ha potere… Interessante questo esempio di “esclusione”, non raro nel Seicento ma forse forse neppure oggi se siamo indotti a insistere persino con gli educatori sul valore delle diversità, sulla diversità come opportunità, sull’integrazione piena, sull’inclusione (segno di diffuse difficoltà ad accettarle e soprattutto a farne una buona pratica).
    Un altro esempio: riuscire ad ottenere ciò che ci sembrava impossibile? Aforisma 204: Le cose facili si debbono affrontare come se fossero difficili, e quelle difficili come se fossero facili.
    Nel primo caso, affinché l’eccessiva fiducia non dorma, nel secondo affinché la troppa diffidenza non ci inceppi. Per non riuscire a fare una cosa, basta darla già per fatta; mentre all’opposto, la diligenza spiana ogni impossibilità.
    … in ogni tempo si deve praticar la virtù della bontà, perché gli uomini dabbene, anche se si considerano fatti all’antica, sono sempre amati. Però, se ancora qualcuno ce n’è, nessuno lo frequenta né lo imita.
    … Infelicità grande del nostro secolo, questa di considerare estranea la virtù usuale la malizia! Viva dunque il saggio come può, se non come vorrebbe; e tenga in maggior conto quel che la sorte gli ha concesso che non ciò che gli ha negato.
    Attrezziamoci per affinare la nostra arte di vivere.

    Con grande umiltà e altrettanta speranza mi permetto di aggiungere, un’ altra personale riflessione:
    Cassandra dopo aver predetto la fine di Troia si rifugiò nel tempio di Atena, fu trovata da Aiace di Locride e violentata sul posto. Trascinata via dall’altare, si aggrappò alla statua della dea, che Aiace, miscredente e spregiatore degli dei, fece cadere dal piedistallo.
    Ci siamo sostituiti agli dei in un delirio di onnipotenza, sarà la stessa natura a violentarci a disarcionarci?
    Esiste una sola divinità una sola “madrepadre” che ci ha concepito, come un pensiero inespresso, mai detto, ne avvertiamo la tensione, la costante presenza, ne sappiamo riconoscere i passi che non lasciano alcuna impronta, la percepiamo come sanno fare solo le tenere foglie, là, in cima agli alberi, aspettando l’inesorabile primavera.
    “Se credi che non ci sia speranza, farai in modo che non vi sia alcuna speranza.
    Se credi che esista un istinto verso la libertà, farai in modo che le cose possano cambiare.
    Ed è possibile che tu possa contribuire a creare un mondo migliore.”
    Noam Chomsky

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