Top(o)i in quarantena
Di Mattia Cassalini
Mi preme fare almeno una piccola considerazione affinché si possa comprendere la genesi di questa orrenda metafora che forse il lettore seguiterà a leggere. Lo sfortunato non troverà in questo breve testo dati di alcuna natura, tabelle o grafici. Nessuna notizia o riferimento esplicito ad un tristemente noto virus cui abbiano volenti o nolenti (in special modo dolenti), dato un nome e un cognome, persino un soprannome. Perciò qui non si troveranno analisi mediche o di qualsiasi altra natura, nessuno straordinario incitamento a restare forti e coltivare hobby da salotto, nessun trucco per la ricetta della crema pasticcera fatta in casa. Quantomeno sarebbe questo l’obiettivo (piuttosto la pretesa) o almeno l’illusione fissata durante la trascrizione di queste poche righe. Si troveranno qui perciò proiettate una serie di immagini grottesche che prendono spunto da una data situazione in un dato tempo. C’è da dire che le elucubrazioni in questo periodo di asfissiante clausura sono altresì abbondanti, ma ce n’è una che mi ossessiona da almeno una serata intera, il che la rende degna di essere messa per iscritto sprecando qualche carattere su Word. È in effetti una visione, un’immagine onirica di kafkiana memoria. Per spiegare ciò che ha destato il mio interesse e risvegliato la mia mente annoiata da questo tiepido torpore c’è bisogno di fare riferimento ad un’opera, capitatami sotto gli occhi su un qualche schermo, di un artista tanto mediaticamente altisonante quanto misterioso (il che è volutamente e ironicamente un constrosenso). Mi riferisco all’ultima provocatoria opera dello street artist Banksy, presentata proprio oggi nella forse più fondamentale galleria d’arte contemporanea attualmente presente nel panorama artistico: Instagram. Il soggetto è un insolito gruppo di topi disegnati con uno stile decisamente da sottopassaggio Newyorkese su delle pareti, mentre giocano, rovesciano e sporcano quello che sembrerebbe essere proprio il bagno dell’artista senza volto anch’egli chiuso in casa. Mentre l’infelice banda mette a soqquadro la stanza, in una immagine a metà tra dissacrante ironica verità e quadro Disneyano, un ratto riflesso in un gioco di specchi tiene il conto dei giorni a mo’ dì carcerato. Come descrizione del post un altrettanto ironico: “my wife hates it When I work from home”.
Una messa in scena da cartoons ma che racchiude in sé molti spunti, metafore e “Topoi”, neanche a dirlo, oltremodo pregnanti e che hanno in qualche modo destato la mia immaginazione e la mia ormai poco allenata fantasia.
In particolare l’immagine del topo carcerato ha iniziato ad animare la mia mente, ha iniziato a ballare da quello squallido bagno fino alla mia testa, ha iniziato ad essere intorno a me insieme a milioni di altri suoi simili. Ha nidificato e non se ne è più andato, fino ad apparirmi riflesso nello specchio la mattina mentre mi lavo i denti.
Nessun animale più del topo in maniera probabilmente inconscia viene legato, ingiustamente tra l’altro, al concetto di malattia, di pandemia, accusato per secoli di aver veicolato la Morte Nera in Europa, ed è forse quasi scontato che proprio ora sia protagonista dispettoso di un murale/installazione, e mia e nostra personificazione implicita. Nulla di positivo viene in mente se si pensa ad un topo in fondo: grigiore, sporcizia e umidità fetida sono le asuggestioni più immediate (o sono perlomeno le prime immagini proiettate nel cinema all’aperto della mia mente).
Non potrebbe esserci espressione più calzante di “come un topo in gabbia” per descrivermi ora, ma non sono solo in questa poco gentile sera di aprile. Sto condividendo con questi piccoli animaletti così cari al vecchio Walt più situazioni e punti di vista che quasi si potrebbe architettare di riproporre una aggiornata versione delle celeberrime “Metamorfosi” da quarantena.
Immagino una scena come quella ideata da Banksy in cui sono ridotto ad ospite in casa mia, aggirandomi circospetto per le stanze sovraffollate, sperimentando come mai prima l’idea di claustrofobica noia muffita.
Mi sono ridotto a restare nascosto nella mia stanzetta, a restare impaurito sotto le coperte paralizzato dal terrore di essere scoperto, esco oramai dal mio loculo solo per cercare cibo e mi sembra persino in quelle rare volte in cui parlo con qualcuno di udire un qualche squittio mescolato a parole desuete; sto sviluppando una vera antipatia per il sole, più di quanta già non ne avessi prima.
C’è chi mi ha giurato di aver riscontrato in alcuni parenti la crescita di preoccupanti baffi ed una crescita smisurata delle orecchie. Giurerei io per primo di aver visto non più tardi di qualche ora fa un grosso ratto, con tanto di coda rossastra che usciva da un paio di jeans, portare a spasso un cane.
Ho paura che questa mia metamorfosi metaforica si stia estendendo a macchia d’olio, come una malattia veicolata dagli uomini/topo. Strisciante la metamorfosi viaggia di dorso in dorso, si espande e ingloba nella sua massa oleosa me per primo. Siamo il veicolo perfetto per questa abominazione della forma, per questa malattia che ci trasforma in ratti di strada, malati e putrescenti. Dopo tutto i topi sono animali sociali, che vivono in gruppi numerosi e nutriti, è perciò del tutto normale che si contagino in fretta, che le loro malattie si espandano a dismisura. Ed è altrettanto legittimo pensare che chiuderli in gabbia separati e distanziati possa aiutare a sconfiggere il morbo. Ma forse vengono messi in gabbia solo perché topi, forse verrebbero rinchiusi anche senza l’insorgere di qualche malattia…
Una canzone passata forse troppo inosservata parlava di “uomini topo come una nuova frontiera genetica”. Oggi grazie ad una genetica poco scientifica e molto fantastica mi sembra di vivere in una colonia di topi. La paura provata da questi esserini solitamente cacciati o intrappolati mi sembra la stessa vissuta ora da me e i miei simili rinchiusi, tremanti e spauriti. Mai così terrorizzati dalla nostra ombra, così sporchi e ridotti ai margini impolverati di quel simulacro di vita perfetta che io e noi bene o male avevamo creato e che ora ci appare una idolatrata “u-topia”.
Non mentirei se dicessi che in ultima battuta avrei voluto modificare la traiettoria di questo lugubre flusso incontrollato di paranoie e mutazioni conducendolo ad una rivalutazione della condizione del topo uomo, spendendo qualche parola ricordando l’importanza del sacrificio, del bene comune e non meno importante delle numerosi capacità di adattamento del topo e dei suoi infiniti lati positivi come animale, ma la sola ed ultima immagine evocata dalla regia della mia mente è una colonia di topi ammassati e urlanti, vibrante, che si agita frenetica nella penombra di un vicolo. Niente candore, niente prospettiva felice, nulla di pulito, nulla di rasserenante riesco a scovare nei labirinti della mia immaginazione, nessuna felice favola della buona notte, nessun filosofico ribaltamento di prospettiva.
Mattia Cassalini è studente di storia dell’arte, ha 22 anni e vive a Roma.